Monti di qui o Monti di là?

Adesso è tutto più chiaro, Monti si rende disponibile a stare in campo e parte la gara a chi se lo accaparra. La “risorsa” Monti diventa appetibile sia da destra che da sinistra. Siamo quindi di fronte alla fine della politica nel nostro paese? Non ci sono leader, coalizioni e numeri sufficienti per un’alternativa al governo tecnico? Siamo condannati  ed essere governati solo  da tecnici, banchieri in alternativa a populisti e affaristi?
Ma come fanno alcuni del Pd a desiderare Monti come premier di uno schieramento di centro-sinistra? Monti non fa parte di quest’area, per appartenenza, formazione, frequentazione e valori. E’ un liberale e liberista, che crede nel mercato come regolatore della vita economica e anche nella finanza come lubrificante e combustibile per il funzionamento del sistema economico.  Crede in quel mercato e quella finanza che liberi di agire hanno prodotto la più terribile crisi seconda solo a quella del 1929 negli Stati Uniti.
Si può chiedergli tutto, di restituire prestigio internazionale all’Italia, evitare il default, trattare con la cancelliera Merkel, magari parlare alla pari alla troica ma Monti mai si presterà a politiche keynesiane di sostegno alla domanda con un progetto di società dove giustizia, equità e redistribuzione della ricchezza siano i cardini dell’agire politico. Non è nella sua cultura. E’ una risorsa certo di serietà e credibilità, ma è anni luce lontano da un progetto di Italia alternativo sia al berlusconismo che al suo sogno infranto, la rivoluzione cosiddetta “liberale”. L’Italia ha oggi bisogno di più equità, una corretta e più equa distribuzione del reddito, ha bisogno di legalità e di moralità nella gestione della cosa pubblica, ha bisogno di valorizzare le sue risorse, potenziare le sue vocazioni culturali e turistiche, recuperare produttività nei settori dove ha un vantaggio, non dove deve fare concorrenza ai lavoratori indiani o cinesi. Ha bisogno di un piano energetico, di una valorizzazione della scuola, di controllare la spesa pubblica per rientrare dal debito che grava come un macigno su tutti noi, regolamentare gli stipendi dei manager pubblici, ripensare il senso della più grande azienda manifatturiera come la Fiat, avere un piano industriale adeguato all’epoca che cambia, compatibile con i protocolli sul clima e via così nell’infinita serie dei bisogni. Ma Monti fa parte di un vecchio modo di governare e concepire l’economia. La sua “visione del mondo” è vecchia come la visione del mondo del capitalismo predatorio, appartiene al passato novecentesco. Questo tempo è finito e servono altre visioni, altre politiche e altre persone che sappiano dialogare e imprimere una nuova marcia all’Italia che abita in Europa. Possiamo ringraziarlo perché ci ha traghettato fuori dalla farsa berlusconiana, ma non possiamo sperare che sia lui a rilanciare l’Italia verso una modernità che porti benessere associato ad equità e giustizia sociale.

6 pensieri su “Monti di qui o Monti di là?

  1. Egregio Professore,
    Sono sempre stato critico con tutti, un “bastian cuntrari” come si usa dire, ma stavolta mi congratulo con Lei per questa obiettiva e incisiva messa a punto della situazione politica italiana attuale. Che non e’ certo idilliaca e che non vede all’orizzonte soluzioni facili. Anzi, nubi dense si profilano per le forze di sinistra, che dovrebbero – secondo le previsioni, ma non ne sarei tanto sicuro – vincere alle prossime elezioni politiche. Si delinea infatti una possibile frattura tra il vecchio (quello della nomenklatura) ed il nuovo(?) che prepotentemente avanza (Renzi ed i giovani “rottamatori”) e che non si sa ancor bene da che parte si collochi. Ho gia’ scritto alcune mie considerazioni sui blog di Adamoli e del Sen.Paolo Rossi, mi piacerebbe sentire anche la sua voce su questo punto che mi sembra essere di vitale importanza per il futuro del PD. Grazie se avra’ la cortesia di rispondermi.
    Giovanni Dotti – Varese

    • Le rispondo con piacere concordando con Lei sulle “nuvole all’orizzonte”. Non ho ancora visto una politica di “sinistra” in Italia perché il Pd di governo faceva riforme per liberalizzare il mercato del lavoro mentre Berlusconi faceva politiche di “deficit spending” tipiche delle sinistre europee. Bersani è una persona per bene e questo non è poco nel nostro paese. Come ministro ha provato a fare qualche riforma e sebbene non epocali, hanno smosso un po’ l’inerzia italiana. Ma non è lui il problema ma tutto l’establishment di cui fa parte e che comprende anche i signori Penati.
      Il nuovo non è per forza di cose giovane. Renzi sta dalla parte di Marchionne che chiede sforzi agli operai quando percepisce un salario 200 volte superiore di quello di un suo lavoratore e poi minaccia di sbaraccare tutto in Italia nel nome del mercato. E’ forse questo essere di sinistra? Lo dubito. Renzi è un simpaticone che sa comunicare e spera di prendere un po’ di voti di qui e un po’ di là, ma non ho ancora visto in cosa consista il radicale cambiamento di progetto sociale. Il centro sinistra deve stare attento alle mosse dei poteri forti di banche, finanza e chiesa che tradizionalmente si appoggiano ai moderati e sono pronti ad imbarcare Monti per salvaguardare il potere. Serve coraggio, determinazione e soprattutto proporre un progetto senza compromessi, benché la politica ne sia l’arte. Altrimenti, giocando al centro, ci sono forze che lo sanno fare meglio. Personalmente non sono molto fiducioso nel prossimo futuro ma vedo crescere la sonsapevolezza che è figlia dell’indignazione, e questo è un buon segnale di risveglio degli italiani. Non so se basterà, ma almeno è un mettersi in cammino.

  2. Egregio Professore,
    ritenendo che le problematiche del LAVORO debbano essere al 1^ posto nell’agenda di qualsiasi governo, ed avendo posta una domanda sulla “Socializzazione dell’impresa”, rimasta senza risposta, sul blog del Consigliere Regionale TOSI, mi permetto di girarla a Lei chiedendole se alla luce degli avvenimenti odierni possa essere ritenuta ancora attuale e meritevole di attenzione. La ringrazio se vorra’ cortesemente rispondermi. G.Dotti-Varese

    • Lei pone una questione molto complessa e spinosa che richiede una visione globale del problema dell’economia capitalistica così come noi la conosciamo. In realtà la “socializzazione dell’impresa” così come fu tentata nel periodo fascista suonava molto demagogica e fallimentare. Altra cosa è ripensare la re-distribuzione della ricchezza prodotta, ripensare nuovamente il ruolo dell’imprenditore e considerare il lavoro come bene comune, limitare gli eccessi del turbo-liberismo e della finanza e lasciare allo Stato il controllo dei servizi fondamentali e strategici regolamentando il mercato perché non produca sperequazioni eccessive.
      Ci sono esempi di imprenditori che hanno deciso che prendere tre volte la quota di profitto rispetto al lavoratore (e non duecento come l’ad di Fiat Sergio Marchionne) è giusto ed equo. In questo modo il lavoro, l’impresa e la ricchezza prodotte diventano un bene collettivo e non una tensione per chi si arricchisce di più innescando fenomeni di sfruttamento e di lotta sociale.
      Là dove gli operai partecipano, il prodotto migliora più velocemente perché ognuno investe con le proprie competenze e “know how” il bene o servizio prodotto e collabora a dissolvere in parte la questione dell’alienazione del lavoro alla catena di montaggio.
      Ma mi permetta di dirle che siamo lontani anni luce da questa idea, benché in Europa ci sono esperienze sempre più numerose e la stessa Argentina è uscita dalla crisi proprio attraverso la partecipazione se non addirittura la rilevazione delle aziende “cotte” da parte di gruppi di operai. Le strade e gli esempi ci sono ma per ora sono poche le persone che arrivano solo a concepire una strada alternativa di questo tipo.

  3. Egregio Professore, la risposta chiara ed esauriente che ha dato al dr. G. Dotti mi ha fatto particolarmente piacere. Non capisco perché tanti politici, economisti, capitani della finanza e dell’industria, ecc. non propongono, non attuano e non vogliono recepire questa nuova forma d’impresa e cioè la compartecipazione dei dipendenti agli utili dell’azienda, se non addirittura alla rilevazione dell’azienda (piuttosto che chiudere o svendere) da parte dei dipendenti (costituendo una Società Cooperativa) come avevo proposto a suo tempo per la Fiat di Termini Imerese, dell’Alitalia ecc.. Proposte rimaste inascoltate. La ringrazio dell’attenzione. Martino Pirone

    • Gli interessi personali e la bramosia di potere, prestigio e denaro hanno mutato l’antropologia del vivere sociale. Per quanto ragionevole sia la sua proposta e la sua “visione del mondo”, lei mi insegna aihmé, che questa visione appartiene ad una sfera ristretta di persone di buona volontà e che vedono nella “reciprocità” non solo un valore in sé ma una via di uscita dal vicolo cieco del sistema capitalistico ultraliberista.
      Una società che si fonda sulla collaborazione ha più possibilità di distribuire benessere che una società che si fonda sulla competizione e sul conflitto tra gruppi sociali. Ma questo necessita di ridefinire la scala dei valori intorno al consumo di beni e servizi e sostituirli con il consumo di rapporti e relazioni sociali. E’ ancora un po’ presto, ma almeno ora si comincia a parlarne.

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