Una Ragione per diventare grandi

Eccoci giunti al secondo appuntamento della rubrica filosofica di Yaaas. In cosa consiste questo percorso? Tre righe per spiegarlo. Il titolo della rubrica sottolinea un intento: lasciare domande senza la presunzione di dare risposte. L’obiettivo è parlare di filosofia per non avere “paura” della filosofia. Lo strumento sono le domande; vanno fatte qui, a casa, nel mondo, ovunque.

Un tema molto apprezzato, emerso anche dai sondaggi svolti, riguarda il campo dell’opinione e quello della ragione; direi di approfondire la questione seguendo il già conosciuto metodo.

Se si rammentassero le migliaia di parole che ascoltiamo ogni giorno, la quantità di proposizioni che stampa e media proclamano e i concetti e le asserzioni che da esse derivano, si riuscirebbe a comprendere molto bene la portata del tema che ci si appresta a trattare.

Invito quindi a compiere questo esercizio mnemonico prima di proseguire la lettura. L’opinione è, in estrema sintesi, la formulazione di un giudizio soggettivo riferito a qualsivoglia ente, fatto o pensiero. Una delle frasi maggiormente abusate all’interno di discussioni di ogni ordine e genere – chi d’altronde non l’ha mai pronunciata – è la seguente: «beh, ma alla fine ognuno la pensa come vuole. Sono opinioni!». Il vasto mondo delle opinioni; esso è ampio esattamente quanto l’umanità.

Ci si chiede se sia possibile dialogare attraverso le opinioni o se sia necessario costruire qualcosa di più degno. In sintesi: è sufficiente avere un’opinione per creare dialogo? Oggi come oggi sembrerebbe di sì. Ma è davvero così? Proviamo a ragionare. L’eredità del metodo di Cartesio, quella della fenomenologia di Husserl (per citare alcuni pensatori, non tutti) sembrano essere questa: cercare di accettare come plausibile solamente ciò che risulta evidente, ma questa evidenza non è limitata alla “mia” soggettività ma deve poter essere diffusa e distribuita; in quale modo? Mostrandola.

È a questo punto che risulta necessario e doveroso abbandonare il terreno instabile e talvolta semplicistico dell’opinione per abbracciare quello faticoso e laborioso della ragione. La nota filosofa Sofia Vanni Rovighi (1908-1990) afferma: «Debbo spiegare cosa significa “giustificazione razionale”. Vuol dire cercar di vedere come stanno le cose. Questo avviene sia nella vita quotidiana come nella scienza».

Dunque, un’esigenza di oggettività che deve compiere un passaggio necessario, quello della fuoriuscita dall’esperienza del singolo soggetto per dirigersi verso l’evidenza della giustificazione prodotta dall’argomentazione. La Ragione si orienta in questa direzione: essa per non tradire sé stessa ha l’obbligo di mostrare, di far vedere come stanno le cose.

In tal senso, non basta pensare di avere ragione ma è necessario mostrare le proprie ragioni. Solo attraverso questo faticoso processo è possibile creare dialogo; solo con il rischio dell’esposizione pubblica del proprio pensiero argomentato è possibile arricchire lo stesso e renderlo più forte; la ragione non può vergognarsi della propria esistenza, essa è realizzata pienamente solo quando è libera di circolare senza vincoli ideologici ma sempre, e comunque, secondo i dettami dell’argomentazione e del rigore. Essa si realizza quando è curiosa di portarsi verso la conoscenza dell’oltre-me, perché come canta Brunori «secondo me, secondo me io vedo il mondo solo secondo me […] chissà com’è invece il mondo visto da te». (Brunori Sas, Secondo me) Questo significa che le intuizioni del singolo non possono produrre nessun apporto alla conoscenza?

La faccenda è ben più complessa, mi limiterò a citare quanto scrive Husserl (1859-1938) in Idee per una fenomenologia pura: «ogni intuizione che presenti originariamente qualche cosa è di diritto fonte di conoscenza. Ciò che si offre originariamente nell’intuizione (che è presente in carne e ossa, per dir così) deve essere assunto semplicemente per come è dato, ma anche soltanto nei limiti in cui è dato». La chiusa di questa citazione dovrebbe essere più spesso ricordata e considerata. Non serve rammentare, infatti, i danni che la mancanza di questi ultimi accorgimenti possono produrre a livello sociale e mediatico.

L’invito che propongo è quello che si ripete da secoli e che deve essere ripetuto perché insieme ai secoli cambiano le ere e con esse gli uomini e le donne che le interpretano: il principio d’autorità legava il soggetto ad una solo possibilità interpretativa e la sua dissoluzione – promossa anche dall’Illuminismo – ha portato l’uomo ad avere più opzioni e metodi valutativi.

Ora, invece, la tendenza contemporanea al sacrificio della ragion critica apre le porte a questo solo destino: un infantile silenzio. Mirabili sono le parole conclusive della tesi di laurea di Carlo Michelstaedter (1887-1910): in questo testo criptico e affascinante intitolato La persuasione e la rettorica (nessun errore di battitura), egli scrive delle righe che sembrano essere la nostra più degna conclusione. «Come al bambino si diceva: “fai come dice il babbo che ne sa più di te, e non occorre che tu domandi ‘perché’, obbedisci e non ragionare, quando sarai grande capirai”.

Così si conforta il giovane a perseguire nel suo studio scientifico senza che si chieda che senso abbia, dicendogli: “tu cooperi all’immortale edificio della futura armonia delle scienze e sarà un po’ anche merito tuo se gli uomini quando saranno grandi, un giorno sapranno”.

Ma gli uomini temo che siano così bene incamminati, che non verrà loro mai il capriccio di uscir della tranquilla e serena minore età». Sarà forse idilliaco questo mio breve scritto, ma chi impedisce di sognare un mondo nel quale la ragione torni ad aver ragione? La sfida è lanciata, a noi il compito di diventar grandi.

 
di Luca Lanfranchi