L’allevatore di farfalle: v’invito a conoscerlo

La psicologa del Sert mi ha chiesto «Allora sei felice Stefano?». Le ho risposto «No dottoresa, è ancora diverso. È che vivere mi diverte, spesso ho la sensazione di essere come un bimbo alle giostre. Ogni tanto ho la sensazione, che dura frammenti di secondo, di essere malato di percezione di realtà. Insomma, sarei dovuto essere infelice e invece non lo sono».

Tutto questo mi sorprende, poi allargo le tasche dei pantaloni per ficcarci l’impossibile fino a farle scoppiare.

Questo non è tutto il libro e nemmeno lo riassume, ma in quelle poche righe c’è l’autore, Stefano Bruccoleri. E non chiedetemi di raccontarvelo, questo libro: perché io non ci ho capito niente. E allora? Bisogna per forza saper spiegare tutto, per dire di apprezzare un libro? L’allevatore di farfalle è un bel libro: e chi l’ha detto che bisogna sempre capire tutto? Chi mai entra nella testa, nella vita, nei pensieri di una persona e capisce tutto? Basta con la presunzione di voler spiegare tutto, di aver tutto codificato.

Perché l’allevatore di farfalle non è codificabile non rispetta le regole dei benpensanti della scrittura, non regala serenità agli ossessionati che devono per forza trovare uno scaffale preciso nel quale catalogare un libro: è una storia? Un insieme di storie? Poesia? Racconti? Pensieri? Boh, tuttavia in questo libro c’è Stefano Bruccoleri, con quella sia genuina e intima assenza di regole, forse solo apparente, ma con una costante ricerca: insegue la poesia, la trova, la respira, ne assapore le emozioni. Guai a ostinarsi a codificare un’emozione, se ne perderebbe il valore autentico: non esiste una formula matematica per le emozioni. Per fortuna. Come non esiste un’addizione di elementi per riassumere Stefano Bruccoleri.

E Stefano Bruccoleri, con la sua sensibilità quasi infantile, geniale, ti accompagna pur sempre in strada: la strada è la costante della sua vita. Una strada che un uomo che è abituato a una vita standard, tutta regole precise, non ha mai visto.

Non avrò mai la presunzione di raccontarvi L’allevatore di farfalle, perché non si può entrare nei pensieri di Stefano Bruccoleri come una guida turistica al Colosseo. Tuttavia, L’allevatore di farfalle ve lo farà apprezzare lui stesso, con la sua dialettica spontanea, quel suo modo di comunicare, tra emozioni spontanee, gesti, silenzi e occhi di uno che avrebbe dovuto essere infelice, ma non lo è.

Stefano Bruccoleri presenterà il suo libro domenica 16 dicembre, alla pasticceria San Gabriele di Ispra, dalle 18.

 

L’ispirazione: mamma che ossessione!

L’ispirazione, croce e delizia di migliaia di presunti artisti, compresi i topi narratori, quelli che rosicchiano storie negli angoli più polverosi e meno frequentati delle case. C’è chi vive nell’illusione di essere il prescelto, l’illuminato dal sacro fuoco e si produce in continui sforzi di scrittura, come in una forma di bulimìa narrativa. Altri, invece, sono come minatori, impegnati in una paziente ricerca del filone giusto, piccole rughe nella roccia da poter seguire e poi scavare: io appartengo a questa categoria di narratori. Sarà che, in quanto topo, ho più caratteristiche in comune con i minatori, ma è evidente che i miei silenzi dipendono da quello: la ricerca di un filone giusto. Con troppi pensieri a confondere le idee, il filone non si trova e anziché in miniera, sembra di camminare in una galleria di Roncobilaccio: i devoti dell’ispirazione vivono nell’apprensione di essere abbandonati. Tuttavia, prima o poi, capita a tutti: il vuoto, o meglio, il silenzio totale dell’ispirazione.  Ed è il panico: ma come?! Uno scrittore, senza ispirazione, è come un koala senza foglie di eucalipto.  Il vuoto è inesorabile e incombe su tutti, compresi quelli che per scongiurarlo si ripetono continuamente, dalla mattina la sera, di essere scrittori: come una sorta di training autogeno, come se bastasse alzarsi ogni mattina e sentirsi come Dumas…

Conviene, per esperienza, fermarsi e aspettare. Posare la penna e accostarsi alla vita come una persona normale: il mondo si può anche permettere di avere tanti Dumas impiegati di banca, migliaia di Jane Austen casalinghe e  molti altri anonimi poeti che, ogni mattina, salgono sui treni e vanno al lavoro in città. E quando ritornerà? Tutto dipende non dai treni che uno prende, ma da con quale spirito ci salga. Io sono fermo al quinto capitolo del mio romanzo: da un anno. Dodici mesi, nei quali gli scrittori “veri” hanno riempito pagine e pagine, dato alle stampe chili e chili di carta: Vitali non si ferma mai, quel lago di Como è un continuo intreccio di piccoli misteri, Camilleri pare un a fonderia a ciclo continuo, con quella Sicilia tutta delitti. E a scendere, nella graduatoria delle hit parade, un gruppo immenso di piccoli Dumas. E io, topo narratore, dentro la miniera senza filoni buoni. Fermo al quinto capitolo: ma dopo un anno, tutt’altro che facile. Piano piano, il vuoto si colma: basta fermarsi e inseguire la voglia di ripartire.

Il pensiero di una nuova frontiera, o di una terra vergine tutta da scoprire, o di un’avventura tutta da vivere: insomma, la sensazione liberatoria che regala il voltare pagina, non ha eguali per chi scrive e legge, o legge e scrive. Niente panico, l’ispirazione arriverà. Ma arriverà? E se non arriverà?

Sembra così lontana, Milano, per queste cronache sempre più rintanate in un buco di provincia: eppure non è così. Ci ha pensato, ancora una volta, la mia piccola Anna a ricordarmelo: “Ma tu che a Milano ci vai spesso, quasi tutti i giorni, come fanno laggiù, le bambine come me a imparare ad andare in bicicletta? Come si fa a imparare ad andare in bici, se ci sono tutte quelle macchine, tutto quello smog, tutta quella gente che ha sempre fretta? Perché vorrei fare un disegno su questo, ma non saprei come”.

Geniale.  Basta guardarlo, il mondo, e non attraversarlo tutte le volte, giorno dopo giorno, senza voler vedere.

Il professor Smith, la rivoluzione e il fast food

16 ottobre 1968

Questo non è formaggio della mia dispensa… è un bel racconto del mio grande amico Gino Cervi, innamorato di sport, ma non inteso come attività esasperata dal denaro e dal doping. Sport inteso come scuola di vita e d’ispirazione narrativa. E con questo racconto, ci ricorda una “vecchia” storia accaduta un po’ di anni fa…

Il professor Smith guarda sconsolato Douglas che sale con fatica le scale. I suoi diciott’anni si portano addosso almeno un quintale di ciccia. I pantaloni calati bassi a mezzo culo e in testa un cappellino rosso da baseball di traverso. Sbuffa sugli scalini come fossero appigli di un’arrampicata di sesto grado. Uno sforzo enorme: però, salendo e ansimando, non smette mai di infilare la mano nel sacchetto di patatine per poi portarsela alla bocca. Un gradino, una chips, un gradino, due chips.

Il professor Smith lo sta aspettando davanti alla porta del suo studio, al secondo piano del building 4 del Santa Monica College. Lo guarda arrivare e scrolla il capo. Se la sarebbe immaginata diversa la sua America, quarant’anni e passa fa.

Il professor Smith è al suo ultimo anno di insegnamento al Santa Monica College. Ne sono passati ventisette da quando ci arrivò per la prima volta. Una vita fa. Ne ha visti di studenti, non solo in classe e in biblioteca, ma anche al campo sportivo, sulla pista di atletica.

Il professor Smith insegna sociologia dello sport. Ma è un prof un po’ speciale. Diciamo che la sua materia non l’ha imparata proprio solo sui libri. Sta aspettando Douglas per il primo incontro di preparazione per la tesina di metà anno. Douglas, anzi Hot Doug, come lo chiamano i compagni, per la sua irrefrenabile passione per il fast food, è un tipo sveglio. La lentezza e l’impaccio con cui affronta le scale, e qualsiasi altra attività fisica, non gli rendono giustizia. Se il suo corpo sbuffa a scavalcare anche un gradino, la sua testa corre veloce come un centometrista. Il professor Smith se n’è accorto fin dalle prime lezioni. Doug capisce tutto al volo, non gli scappa mai nulla e sa sempre rispondere a tono, spesso in modo divertente, a volte fin troppo sfacciato.

«Eccomi, prof! Com’è?»

«Come com’è? Non avevamo appuntamento alle undici? Sono le undici e mezza!»

«Eh prof, mi scusi. Dovevo terminare la mia sessione mattutina di addominali… Sa com’è, ci tengo alla forma…»

«Certo, si vede! Le chips sono il tuo integratore, eh?»

«Le chips? Quali chips?» risponde Doug passandosi  le dita unte sul di dietro dei bragoni neri.

«Lascia perdere, Doug. Basta scherzare. Entra.»

Lo studio del professor Smith è pieno di libri. Dietro la scrivania, appesa al muro c’è una foto incorniciata. È l’unica in tutta la stanza. È una foto di una premiazione. Ci sono due atleti di colore, hanno indosso la tuta USA. Entrambi a testa china, alzano il pugno, un pugno guantato di nero: quello sul gradino più basso, il sinistro; il destro, quello sul gradino più alto del podio, il vincitore. Tutti e due sono scalzi.

Una foto vista mille volte. Ma Doug la guarda come se la vedesse per la prima volta.

«Bella, prof, quella foto! Chissà perché ma mi sembra di averla già vista. Ma che stanno facendo quei due?»

Il professor Smith guarda Doug da sopra gli occhiali. Possibile che non sappia? Possibile.

«Premiazione dei 200 m alle Olimpiadi di Città del Messico. Era il 16 ottobre del 1968.”

«Sì, ho capito. Ma perché stanno così? Perché fanno il pugno e hanno un guanto nero? E sono a piedi nudi?»

«Perché protestano.»

«Protestano? Hanno vinto, perché protestano?»

«Doug, apri bene le orecchie. Non c’entra aver vinto o perso. Anzi, il fatto che avessero vinto e che tutto il mondo li stesse vedendo, lì, sul podio, era proprio la migliore occasione per far sapere come la pensavano.»

«Come la pensavano su cosa?»

«Doug, ne abbiamo parlato qualche settimana fa, a lezione, ricordi? 1968. La lotta per i diritti civili, contro la discriminazione razziale, contro la guerra in Vietnam. Le rivolte degli studenti nelle università, Berkeley, Parigi. Dopo di allora, il mondo non sarebbe stato più come prima …»

«Sì, ma che c’entra: questi stanno correndo alle Olimpiadi…»

«Certo. E correvano pure forte. Pensa che nelle semifinali avevano tutti e due migliorato il record dei giochi. E che in finale, quello che poi vinse, lo vedi quello col numero 307, fece il record del mondo, primo atleta a scendere sotto i 20 secondi nei 200 m: 19 secondi e 83 centesimi. Dopo di lui, ci sarebbero voluti anni per fare di meglio… Perché le gambe da sole non bastano, ci vuole la testa. Tu dovresti saperlo, mi pare…»

«Sì, sì, le gambe, la testa… Però continuo a non capire. Quelli fanno i record del mondo, vincono le medaglie e invece di festeggiare e cantare l’inno, se ne stanno lì incazzati, a piedi nudi e col pugno nel guanto nero…»

«Ehi Doug, guardali bene. Quei due incazzati sono due afroamericani. Come te, come me. Fermati e pensa. Forse oggi immaginare un presidente degli Stati Uniti afroamericano non è più un sogno, anzi sono sicuro che tra pochi anni succederà davvero. Ma immagina cosa fosse nel 1968. Pensa che soltanto sei mesi prima che quei due vincessero le Olimpiadi, a Memphis, avevano ammazzato Martin Luther King…»

«Sì, ma il guanto, il pugno, i piedi nudi…»

«Volevano attirare l’attenzione di milioni di persone sul fatto che per una volta gli Stati Uniti non avrebbero potuto mostrare a tutto il mondo la bravura dei loro campioni afroamericani, come se fosse la bandiera a stelle e strisce, mentre l’indomani tutto sarebbe continuato come prima: coi fratelli neri che continuavano a essere discriminati e trattati come cittadini di serie B. E sai, Doug: qui due ci riuscirono. Quei loro pugni alzati divennero un simbolo, come il volto di Che Guevara, che avevano fatto fuori giusto un anno prima… Certo, non fu facile farlo e ne pagarono le conseguenze…»

«E cioè?»

«Vennero immediatamente espulsi dai Giochi Olimpici. Il presidente del Comitato Olimpico, sir Avery Brundage era un vecchio arnese che era ancora convinto che lo sport fosse un ancora soltanto una specie di esercizio militare, di disciplina: più veloce, più alto, più forte . Avery dichiarò che quei due avevano infangato il sacro significato delle Olimpiadi. Già: perché secondo quello lo sport non doveva avere nulla a che fare con la politica… Anche la Federazione statunitense li squalificò e non disconobbe il loro successo. La carriera sportiva di entrambi finì in quello stesso istante, proprio nel momento in cui decisero di alzare il pugno al cielo, e di abbassare lo sguardo, invece di fissare ispirati e commossi lo sventolare della bandiera americana… »

«Ehi, però, ci voleva del fegato… E poi, come andò a finire?»

«Finì che si trovarono da soli. Molti li presero di mira, con pubblici insulti, addirittura con minacce. Altri si dimenticarono di loro, e fecero come se non esistessero più. Non furono molti quelli che dimostrarono la loro solidarietà. Perché il mondo dello sport non era ancora pronto per accogliere le libere scelte di pensiero dei suoi campioni. Ricorda, che in quegli stessi anni anche il grande Muhammad Alì venne arrestato, processato, e poi squalificato dall’attività per quattro anni per aver rifiutato la chiamata alle armi per andare a combattere in Vietnam. “Io non ho nulla contro i viet-cong: nessuno di loro mi ha mai chiamato negro!” diceva Alì, con i suoi occhi stralunati e la parola più veloce di un rapper.»

«Vero. Ricordo di aver visto un video in cui diceva “Ieri sera ero così veloce che mi sono alzato dal letto, ho attraversato la stanza, ho girato l’interruttore e sono tornato sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta”. Grandioso! Neanche Snoop Dogg saprebbe fare di meglio…”

«Ok, ora basta Doug. Parliamo della tesi che devi preparare per fine mese… Cosa mi dici?»

«Le dico che questo è un bell’argomento, no? I campioni dello sport e la società in cui vivono. Che dice prof? Potrei cominciare da qui, anzi da quei due lì, a piedi nudi e col pugno e il guanto alzato al cielo…»

«Perché no, Doug! Mi sembra una buona idea… Vediamoci nel pomeriggio e cominciamo col preparare una bibliografia. Ci vediamo alle 4 in biblioteca. Mi raccomando: puntuale, stavolta.»

«Ci conti, prof! Ci sarò! Ehi, ma è mezzogiorno passato: mi sembrava che il mio stomaco volesse dirmi qualcosa… Buon appetito, prof! Ci vediamo più tardi.»

«Doug! Non sarebbe ora di smetterla con hamburger, ketchup  e patatine?”

«Tranquillo prof! Sono a dieta… e ho perso mezzo etto in una settimana. È il mio record personale…» disse Doug alzandosi pesantemente dalla sedia e dirigendosi verso la porta. A proposito, prof: gran tempo quel  19 e 83. Complimenti! Peccato che abbia alzato le braccia dieci metri prima del filo di lana: avrebbe potuto fare nettamente meglio…”

Il professor Smith, senza levare il capo dal libro che aveva aperto, alzò lo sguardo da sopra gli occhiali e inquadrò Doug oltre la porta che lento si allontanava nel corridoio ondeggiando nelle sue braghe corte. Lo stava salutando alzando il pugno destro.

Questo è altri splendidi racconti li potete leggere su:

Gino Cervi, Storie a cinque cerchi. L’uomo molla e altri racconti, Editpress, 128 pagine, 16 euro

 

Ricomincio da Cyrano

Dov’è finito? Quel topo non è costante, non scrive più, ha altri pensieri per la testa, ma un blogger che si rispetti non può non aggiornare il suo diario. Un blogger a singhiozzo, tra Milano e la provincia, più che un topo una lumaca…

No, ragazzi, il topo ha voluto lasciar sedimentare molti, tanti, troppi pensieri di un periodo intenso, difficile, complicato, importante: e poi è tornato a pubblicare. Ispirazione ai minimi? Niente affatto, ero fermo per troppe idee, troppi pensieri.

Non sopporto i bulimici da scrittura, perché non riesco a concepire la parola in pubblico e la narrazione, come un esercizio fine a se stesso: detesto i diari imposti a interlocutori passivi. Mi dà l’idea di essere dentro una sala d’attesa di parrucchiere per signora, con blablà a nastro che si diffondono anche senza veri e interessati interlocutori. Concepisco la scrittura come l’esercizio per un ipotetico, ma reale, lettore, e non come un troppo virtuale esercizio per grafomani. Abusare dei lettori è troppo triste e, soprattutto, è un’operazione sterile. Troppo spesso la rete, ma anche le segreterie delle case editrici, si riempiono di bulimici della scrittura, gente che si ostina a volar raccontare a tutti i costi, anche quando forse varrebbe la pena di fermarsi e riflettere un po’: lo scrittore al tempo di internet viene troppo spesso confuso con i mille predicatori in cerca di un pulpito, o in cerca di un’illusione. Viva la libertà di espressione, sempre e comunque, ma concedetemi qualche limite. Voglio pormi limiti, ovvero quelli di scrivere solo quando penso di avere qualcosa che valga la pena di essere letto: pieno rispetto per voi, dunque, nel mezzo di un mare di parole che, chissà perché, la rete internet trasforma in un oceano senza confini. Io i confini le traccio. E dentro le frontiere della mia tana, la parola ha il suo valore, quello che mi hanno insegnato Hugo, Manzoni, Dumas, Verga e una lunga lista di fuoriclasse, forgiatori di scrittura che hanno sconfitto il tempo e sono diventati ossigeno puro, maestri che riempiono i polmoni e danno sollievo. Anche ora che, seppur ci sforziamo nel declamare i pregi dell’era del web e dei social network, viviamo in un tempo cupo che qualsiasi padre di buonsenso non può più accettare o subire: per il bene dei nostri figli, per quell’aspirazione alla bellezza che, se frughiamo bene nei meandri del nostro ego la scopriamo ancora autentica, impariamo dai maestri il valore della parola. Altro che scribacchini/pantegane in cerca del consenso di tutte le fogne.

Difficile capire tutto subito, ovvero secondo i tempi del web. Intanto eccomi qui, sono il primo topo che, a suo modo, magari bizzarro, vuol cambiare il mondo, partendo da una tana piccola piccola, sempre aperta a tutti.

Ricomincio da queste parole:

Cantare, ridere, sognare, essere indipendente, libero, guardare in faccia la gente e parlare come mi pare, mettermi, se ne ho voglia, il cappello di traverso, battermi per un sì per un no o fare un verso. Lavorare senza curarsi della gloria e della fortuna alla cronaca di un viaggio cui si pensa da tempo, magari nella luna!
Non scrivere mai nulla che non sia nato davvero dentro di te!
Appagarsi soltanto dei frutti, dei fiori e delle foglie che si sono colte nel proprio giardino con le proprie stesse mani!
Poi, se per caso ti arriva anche il successo, non dovere nulla a Cesare, prendere tutto il merito per te solo e, disprezzando l’edera, salire, anche senza essere né una quercia né un tiglio, salire, magari poco, ma salire da solo!

da Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand

Il mio secondo “primo giorno” di scuola

Rimasero immobili e in silenzio per un minuto, guardando quel foglio con espressione attonita. Poi i miei genitori cominciarono ad aguzzare lo sguardo, finché mia madre si sentì in dovere di dirmi un poco convinto «Bello! Proprio bello». Io ero di fronte a loro con quel foglio in mano, mostrato con orgoglio e in attesa di quella risposta, ma avevo intuito che difficilmente, da grande, avrei fatto il pittore.

Primo giorno di scuola, primo disegno: titolo dell’opera “ricordi d’estate”. E io di quell’estate 1977 mi ricordai di una gara di nuoto a cui avevo assistito per la prima volta nella vita, durante una breve vacanza in Liguria. Mai vista una piscina prima di allora e non immaginavo che si potessero inventare delle vasche così grandi e azzurre per nuotarci dentro…La disegnai vista dall’alto, la piscina, ovvero come un enorme rettangolo azzurro con dentro una fila di testoline che sbucavano dall’azzurro (l’acqua). Un’interpretazione quasi cubista, frutto di una fantasia che a 6 anni non conosce limiti. A me la gara di nuoto aveva colpito parecchio. Con mio padre, ero tra la folla in silenzio in tribuna, in attesa dello sparo dello starter e feci un ragionamento ad alta voce che creò qualche scompiglio: «Bé, avevano il mare qui vicino, potevano nuotare là, senza il problema di dover girare ogni volta, perché nel mare la vasca è davvero infinita». Ero fatto così, certe stranezze dei grandi mi suggerivano sempre qualche contestazione. Come la mia prima volta al circo, sempre tra il pubblico in religioso silenzio, questa volta di fronte a un lanciatore di coltelli e a una giovane donzella appoggiata rigida e tesa a un asse di legno: «Ma perché sta lì? Non può spostarsi? È pericoloso» E non capivo, invece, perché alle mie parole, tutto il circo sghignazzava, compreso il lanciatore, tranne la donzella.

Sono i ricordi di un’estate, quella, terminata in una scuola, dentro un’aula piccola e stretta, nella quale mi fecero entrare assieme ad altri dodici bambini, tutti con il grembiulino nero. Ognuno orgoglioso della propria cartella nuova: la mia era rossa e con le bretelline in pelle e l’avevo lucidata per tutto il giorno precedente. E la notte prima avevo fatto fatica a prendere sonno, poi ci riuscii, ma mi risvegliai con le mutandine bagnate di pipì: troppa l’emozione. Poi, finalmente a scuola: ero pettinato e profumato a dovere, di fronte alla maestra che fu la prima donna, dopo mia madre, di cui mi innamorai.

Trentacinque anni dopo, in quella stessa scuola, dentro quelle aule rimaste assolutamente identiche da allora, ci entrerà mia figlia: e mi piglia un groppo in gola, al solo pensiero. All’idea che quel cucciolo di donna si appresti ad entrare con sui piccoli passi, nel mondo dei grandi. E a suo modo comincerà a farsi un’idea di tutto. È l’alba, la mia bimba dorme ancora e chissà cosa starà sognando: forse le immagini di un’estate, questa, vissuta in modo spensierato. O forse di cosa farà da grande, dentro questa Italia che è molto diversa da quella di trentacinque anni fa.

Tuttavia, anche in un’Italia diversa, la genialità dei bambini è la stessa di sempre e la potrà salvare dalla mediocrità: se penso a quante cose, noi grandi, le vorremo insegnare e addirittura imporre, nel bene o nel male, mi auguro che non bastino per farle perdere quel modo di pensare assolutamente puro e innocente. Si è appena svegliata, intanto, la cucciola: «Chissà come si chiamerà, la mia maestra. Per fortuna, questa notte è stata cortissima, più corta delle altre» è il suo primo pensiero a voce alta.

Che fare a Ferragosto? Una pedalata letteraria!

“Quando per caso si hanno un cuore ed una camicia, bisogna vendere la propria camicia per vedere i dintorni del lago Maggiore”: queste parole sono state scritte da un certo Standhal, nell’Ottocento. I grandi scrittori ci aprono gli occhi per svelare un mondo nuovo là dove non ce lo aspettiamo: magari proprio il mondo quotidiano che non sappiamo più osservare con attenzione, scrutare, gustare a fondo.

Il Ferragosto che sta per arrivare potrebbe essere in coda, in luoghi affollati, oppure in bici lontano dal traffico, in compagnia di buone letture, paesaggi di lago e di terra e nuovi compagni di viaggio.

Noi lo vogliamo trascorrere così e ve lo proponiamo con la “Pedalata letteraria”, una passeggiata a pedali di 10 km (forse meno…) con soste in punti panoramici tra Ispra e dintorni (Angera e Ranco, in particolare). Saranno queste soste l’occasione per aprire qualche libro e scoprire cosa hanno visto in quei paesaggi i grandi autori.

Come ormai è tradizione, la pedalata termina con un fresco ed abbondante aperitivo a “chilometro zero”. … E chi ha detto che la cultura è noiosa?

Info e prenotazioni: La LibEreria nella Bottega del Romeo, piazza san Martino 63 – Ispra (VA) tel. 348 8516760

Facebook: http://www.facebook.com/#!/events/165076920294273

Sto con Kundera, per i libri e la memoria reali

Il problema è la memoria. Come il pil, assurdo concetto di ricchezza infinita, anche il mondo virtuale non ha ancora risolto e non è in grado di risolvere il problema della memoria: memoria reale, concreta e non virtuale (concretamente elminabile con un semplice click o con un black out). Una memoria che non si tocca con mano si tramanda come le vendite allo scoperto alla borsa di New York.

«Quel che mi sta a cuore in questo momento è una cosa più concreta: la biblioteca. Questa parola dà al premio che avete la bontà di accordarmi una strana nota nostalgica, perché il nostro tempo comincia a mettere i libri in pericolo. È a causa di questa angoscia che, da molti anni ormai, aggiungo a tutti i miei contratti, in qualsiasi Paese del mondo, una clausola in base alla quale i miei romanzi non possono essere pubblicati che sotto la forma tradizionale del libro. Affinché li si possa leggere solo su carta, non su uno schermo». Chi lo dice è un certo Milan Kundera, uno scrittore francese di origine cecoslovacca: uno che non ha bisogno di tane e blog per farsi ascoltare, come topo di campagna. È uno che può permettersi di scrivere e parlare al mondo intero e farsi ascoltare. Milan Kundera parla e i suoi concetti sono riportati da un giornalista del Corriere, che tuttavia, non resta imparziale, ma si sente in dovere di prendere posizione in favore della civiltà e del progresso (ce n’era bisogno? Boh). Io, umile topo, sta con Kundera: lo appoggio e lo difendo. Con questo, non significa che io sia retrogrado e contro gli e-book, ma rivendico il diritto di chiunque di difendere la propria memoria e la propria opera. Che, finché sarà messa a rischio solo da noi roditori, al massimo finirà rosicchiata su qualche scaffale.

L’articolo del Corriere della sera:

http://www.corriere.it/cultura/12_luglio_24/montefiori-no-kundera-libro-elettronico_34dab056-d577-11e1-8344-73c80d6dcb3d.shtml

Un maestro di giornalismo al Tour de France

Lo sport si prepara all’Olimpiade, ma questi sono giorni di ciclismo. Giorni di Tour de France: ciclisti supertecnologici, squadre iper programmate, tutto sembra robotizzato. Tuttavia, la fatica non è molto diversa da quella di sempre. Certo, notarlo è più difficile.

Ci sono maestri, però, che non dovrebbero passare di moda. E, infatti, sono senza tempo, immortali. IN questi  giorni ho riscoperto un libro meraviglioso di Albert Londres, quello che può essere considerato i padre del moderno reportage e del giornalismo d’inchiesta. Un vero maestro, un mio maestro. Anch’egli, nel 1924 si misurò con il Tour de France: e lo raccontò alla sua maniera. Un romanzo, un’opera d’arte.

 

È successo dopo Le Ciotat. Huot guida il gruppo, finisce con la ruota in una rotaia e cade. Noi veniamo dopo di lui. Con un colpo di volante riusciamo a evitarlo. La polvere nasconde tutto alla vista a un metro di distanza. Una vettura che viene dietro di noi trascina Huot. Ecco l’accaduto.

Ed ecco la causa.

Ciò che è successo oggi, da Perpignan a Tolone, non è stata una corsa, ma un vero e proprio atto di follia popolare.

Cento chilometri prima di Tolone, il Midi aveva portato sulle strade tutti i suoi veicoli. All’inizio, in queste vetture, la gente esultava, danzava e lanciava grida. Poi tutti persero le proprie sembianze umane: quei pazzi parevano usciti da un sacco di farina.

Dopo trecento chilometri e la traversata della Crau a mezzogiorno, i corridori finirono in quella bolgia. UN peccato. Erano circondati, imbottigliati; con la rabbia in gola gridavano:

«Largo! Largo! Fate attenzione, per pietà!».

«È un assassinio!»

La folla urlava più forte. Una folla in abito della festa, in tute di tela blu e persino in mutande di lana. C’erano persone sui camion dei traslochi, nei furgoni commerciali, sui sidecar, con le biciclette e, se il momento fosse stato gioioso, diremmo che erano stati tirati fuori persino i vecchi cavalli meccanici…

Le corse sono un divertimento per il pubblico. Non bisogna comunque confonderle con una corrida.

I corridori non sono dei tori, non si deve cercare di metterli a morte alla fine dello spettacolo.

Il fatto strano è che l’incidente non è che arrivato alla settima tappa.

Ieri avevamo segnalato che uno stradista, viste alcune automobili che gli ostruivano la strada lungo una discesa, aveva urlato: «Banditi! Banditi!».

Huot, questa sera, non ha potuto che gemere, con il sangue alla bocca.

Albert Londres

Tour de France, Tour de souffrance

Excelsior 1881

Tempi difficili, guai a frustrare la fantasia

Ora quello che voglio sono i Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!

Charles Dickens, Tempi difficili

Da un paio di giorni ho iniziato a leggere questo romanzo di Charles Dickens: geniale, sorprendente, non me l’aspettavo così stimolante. L’immaginazione e la fantasia sono fonte d’idee importanti, soprattutto in tempi difficili, sono spesso un’ancora di salvezza. Guai a tarpare le ali alla fantasia: l’utilitarismo miope non muove il mondo, anzi lo affonda sotto un peso insostenibile.

Biciclette di carta, una poesia di Mario Luzi

Ripropongo un tema che avevo suggerito tempo fa, quello dello sport che ispira letteratura e vi segnalo che, proprio in provincia di Varese, vive uno tra i maggiori esperti in Italia. L’amico Alberto Brambilla, di Busto Arsizio, è un importante ricercatore universitario (in Francia e in Italia), e tra le sue numerose pubblicazioni vi sono anche diversi libri dedicati alla letteratura e lo sport. Tra questi, c’è un bel volume uscito qualche anno fa (2009) per Limina, dal titolo “Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo” nel quale il bravo Alberto sviluppa un’accurata ricerca dedicata ai maggiori poeti italiani che si sono ispirati, almeno in qualche componimento, alla bicicletta. E da questo volume, vorrei proporvi una poesia di Mario Luzi che parla di salite e montagne. Così, in tempi di Tour de France, magari qualcuno di voi, davanti alla tivù, chissà, potrebbe trarre qualche ispirazione poetica nel guardare i corridori faticare sulle grandi vette. Un modo “alto” per sfuggire alle notizie dell’attualità, sempre macchiate di mediocrità.

Il termine, la vetta

di quella scoscesa serpentina

ecco, si approssimava,

ormai era vicina,

ne davano un chiaro avvertimento

i magri rimasugli

di una tappa pellegrina

su alla celestiale cima.

 

Poco sopra

alla vista

che spazio si sarebbe aperto

dal culmine raggiunto…

immaginarlo

già era beatitudine

concessa

più che al suo desiderio al suo tormento.

Sì, l’immensità, la luce

ma quiete vera ci sarebbe stata?

Lì avrebbe la sua impresa

avuto il luminoso assolvimento

 da se stessa nella trasparente spera

o nasceva una nuova impossibile scalata…

Questo temeva, questo desiderava.

 

Questa poesia s’intitola Il termine, la vetta, ed è contenuta nella raccolta di Mario Luzi del 2009, dal titolo Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime