Nuova Delhi è la capitale dell’India e dista da Varese 6.153,55 chilometri. Il Taj Mahal situato ad Agra, nell’India settentrionale, è un mausoleo fatto costruire nel 1632 dall’imperatore moghul Shah Jahan in memoria della moglie Mumtaz Mahal, ma è anche uno dei simboli dell’India, inserito dal 2007 tra le 7 nuove meraviglie del Mondo.
Ma fate attenzione perchè se il vostro viaggio verso il Taj Mahal dovesse partire dalla provincia di Varese, il navigatore potrebbe portarvi ben presto a destinazione… nel centro di Lozza.
E a Lozza ad aspettarvi potreste trovare i fratelli Harminder e Gurminder pronti, insieme allo chef indiano Harpreet Singh, ad accompagnarvi in un vero e proprio tour gastronomico attraverso la penisola indiana. Un viaggio esaltante per i sensi che l’arte culinaria indiana coinvolge attraverso i colori accesi , i profumi intensi e i sapori speziati.
Sebbene sia una cucina ricca di piatti vegetariani, non viene disdegnato l’uso del pollame e dei latticini ma le protagoniste indiscusse rimangono le spezie, che se usate con sapienza riescono ad esaltare i sapori più nascosti dei cibi.
Il Coriandolo, il cumino, il pepe nero, ma anche la curcuma, la cannella e il cardamomo sono solo alcune delle principali spezie utilizzate dalla cucina indiana ma anche, come mi spiega Garminder, dalla medicina ayurvedica, una medicina perfettamente integrata nel sistema sanitario indiano e che trova le proprie radici nella mitologia. E così scopro che il curry, che sarebbe più corretto chiamare “masala“, può essere utilizzato per risolvere i problemi allo stomaco ed all’intestino con le sue doti stimolanti e disinfettanti, mentre il cumino è ottimo nella prevenzione dell’osteoporosi ma anche del diabete.
Nel frattempo al mio tavolo è arrivato il “Mango Lassi”, una bevanda tipica della parte settentrionale dell’India, fresca e profumata a base di yogurt e mango, il frutto simbolo dell’intera nazione, prima produttrice del Pianeta. Anche il Mango Lassi contiene una spezia , il cardamomo, ed è ideale per accompagnare tanto i piatti piccanti quanto quelli speziati nei quali favorisce l’equilibrio dei sapori.
Nel mio caso il Mango Lassi è un ottimo compagno di viaggio per il piatto di chicken e jheenga tandoori, del pollo e delle code di gamberi marinati nello yogurt e insaporiti con spezie quali la paprika, il peperoncino di Cayenna e il fieno greco, prima di essere cotti nel tandoori, un forno in argilla tipico di tutto il subcontinente indiano. Il cibo, riceve una doppia cottura favorita dell’esposizione diretta alla fiamma e dal calore irradiato dal forno stesso che scalda l’aria facendo arrivare le temperature a quasi 500 gradi.
In questo forno viene anche cotto il papadam, una buonissima cialda croccante di lenticchie e semi di finocchio servita con salse come quelle che Harminder mi ha fatto assaggiare, a base di tamarindo, yogurt e menta.
Altro alimento alla base della cucina indiana è senza dubbio il riso basmati, che viene bollito in acqua e usato come companatico per i piatti principali come il Vegetable Masala, un misto di verdure, curry e latte di cocco. Il pane, che in India si chiama Nan ed ha una forma appiattita e che viene spesso aromatizzato con aglio e consumato insieme a salse quali la Raita (yogurt, cetriolo e ginger), costituisce una colonna portante dello street food indiano. La strada resta il ristorante più grande dell’India e mangiare ad una delle tante bancarelle che propongono piatti a base di carne , pesce o verdure con l’immancabile presenza di spezie è per l’indiano la normalità.
La Samosa, che al Taj Mahal servono semplicemente con una fetta di limone, è forse il piatto più rappresentativo dello street food indiano. Sebbene la base sia costituita da un “panzerotto” ripieno di patate, piselli, con aglio e spezie varie, in strada ogni ambulante vende la propria versione arricchita in base alla ricetta che ciascuno custodisce gelosamente. Così come segreta è la ricetta che ogni famiglia possiede del Masala (che noi chiamiamo curry) e che altro non è che un mix di spezie i cui dosaggi , insieme agli inserimenti o alle esclusioni di una spezia piuttosto che un’altra, ne modificano il sapore a seconda delle esigenze e dei gusti.
E mentre giungo al termine di questo viaggio assaporando alcuni dolciumi indiani a base di cocco o caramello, scopro che da queste parti (perchè ormai mi sembra di essere nel cuore di Bombay, che oggi ha cambiato nome in Mumbay) a tavola è gradita, per chi non ha divieti legati al credo religioso, la birra ma soprattutto dell’ottimo whisky indiano. Devo ammettere che anche il Rum di produzione nazionale, ottenuto da melasse prodotte con canne da zucchero indiane,è davvero buono e non ha nulla da invidiare ai blasonati rum caraibici.
E’ arrivato il momento dei saluti e le mie “guide” Harminder e Gurminder mi lasciano con la convinzione che la cucina indiana abbia un non so che di sacro. Uno dei concetti più frequenti di alcuni testi religiosi e filosofici indiani è che “tutto è cibo”, cibo per il corpo, cibo per la mente e cibo per il cuore. La divinità Shiva discutendo con la dea Madre Parvati, sua moglie sosteneva che il cibo fosse mera illusione. Pārvatï decisa a provare il contrario, scomparve dal mondo, portando con sè la fertilità della terra. Tutto divenne arido e gli uomini rimasero senza cibo. Quando Pārvatï riapparve, e con lei la fertilità della terra, gli uomini ricominciarono a mangiare e a Shiva non restò altro che ammettere il suo errore: il cibo non è illusione, il cibo è realtà, anche all’ombra del Taj Mahal, nel cuore di Lozza.
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