Non capisco il noir: a volte, addirittura, m’infastidisce. Non riesco a digerire il fatto che si possa fare della morte violenta uno strumento morboso per una narrativa fine a se stessa. La morte sanguinaria come passatempo per i lettori, in una società in crisi su tutti i fronti. La morte e il delitto scabroso come giochi enigmistici.
Avanti scrittori, spiegatemelo: se volete, fatelo qui, in questo spazio, nella tana del topo, a vostra disposizione.
Solo a Varese e provincia, gli scrittori thriller, i giallisti insanguinati spuntano come funghi, si contano a decine: senza delitti, malvagità e sangue, insomma, non si scrive più, o quasi.
Siamo una generazione di narratori decisamente poco sereni, ma davvero le fantasie letterarie non riescono a fare a meno del sangue gratuito e della paura?
Non è un fenomeno varesino, bensì globale: ovunque, insomma, l’assassinio, la strage, i delitti sono oggetti di esercizi di enigmistica o quasi, per libri intrisi di sangue. Una morte buttata lì sulle pagine, spiattellata come spettacolo macabro, ma senza suggerire riflessioni profonde. Sarà perché ormai siamo bombardati da fiction tv in cui la morte è essenziale? Ma non chiamiamolo realismo e nemmeno “specchio della società”: piuttosto, specchio della tv che, è bene ricordarlo, non è una finestra sulla realtà.
A volte penso a quell’esercito di scrittori che per anni insegue il sogno di pubblicare, che cerca l’occasione di proporsi a un pubblico vero di lettori: l’occasione della vita. E quando l’occasione, finalmente, si concretizza, magari pure pagando per pubblicare, il debutto letterario che cos’è? Quasi sempre una storia di morti ammazzati, una deformazione, una trasposizione su carta di fantasie oggi assorbite più dalla tv che da altro, più dagli effetti speciali e dalle fiction che da Edgar Allan Poe. Ma perché, mi chiedo, gettare alle ortiche la grande occasione? Spiegatemelo, scrittori!
Perché ai lettori piace, direte voi: perché il pubblico è assetato di delitti, di perversioni, di storie malate.
Ecco, cari lettori e scrittori, vorrei raccontarvi io una storia, non inventata in una notte insonne, ma vera: era il 13 agosto 1944, quando la piccola Maddalena venne portata in piazza, nel piccolo abitato di Borgo Ticino, non lontano dal Lago Maggiore. Maddalena fu portata in piazza a forza, obbligata da militari tedeschi: dovevano mostrarle una cosa, dovevano mostrarle lo spettacolo della morte. E la piccola Maddalena, assieme agli altri abitanti del paese, fu costretta a veder morire tredici uomini scelti a caso. Tredici prescelti dalla crudeltà nazista e fucilati in piazza: per cosa? Rappresaglia. E Maddalena vide tutto: la disperazione degli uomini davanti alla morte, la freddezza dei giustizieri, i fucili, il sangue uscire da volti sfigurati. E vide anche i corpi sbalzare da terra, quando i soldati li colpirono una seconda volta, per il colpo di grazia. E vide altro sangue. Poco prima ebbe la forza di dire: “Guarda, uccidono lo zio” e si beccò un ceffone. Era stata la nonna a rifilarglielo, forse per distrarre la bambina e farla pensare ad altro che non fosse quell’orrenda mattanza, nella quale quella nonna stava perdendo un figlio.
Ora Maddalena è una nonna, ma da quel giorno dorme sempre con la luce accesa, e prende gocce di tranquillante, per provare ad addormentarsi senza quell’incubo che, da allora, l’accompagna.
Oggi, dopo 68 anni, quella strage, una delle tante stragi di guerra di casa nostra (solo nei dintorni del lago Maggiore ce ne furno almeno altre tre, da quella di Meina, a quella di Castelletto, a quella di Fondotoce), quella strage avrà il suo processo: a Verona, infatti, il tribunale militare ha rinviato a giudizio l’unico superstite tra gli assassini, il tedesco Ernst Wadenpfuhl, che oggi ha 97 anni.
Ecco, cari scrittori, vi ho raccontato questa storia (riportata molto bene anche dal quotidiano La Stampa, nell’edizione del 15 febbraio) per invitarvi a uno sforzo: la morte non inventiamola per sfogare pruriti morbosi, con la superficialità di un telefilm. C’è chi la morte violenta l’ha vista davvero e se la porta dentro da tutta la vita: torniamo ad ascoltare i nostri vecchi, quelli che hanno vissuto certe tragedie. Facciamo presto, prima che le loro memorie spariscano, facciamo tesoro delle loro testimonianze, fidiamoci di loro: e da loro impareremo a dare il giusto peso a ogni cosa. E, magari, a versare meno sangue nelle pagine di narrativa. Chissà, forse eviteremo certe cretinate.