Vivere è come essere in trincea

In Italia il consumo di antidepressivi, ansiolitici e stabilizzatori dell’umore è cresciuto in modo esponenziale negli ultimi anni. Dal 2000 al 2006 si registra, infatti, un consumo triplicato di questi psicofarmaci, soprattutto al Nord ma quello che più sorprende è che il consumo comincia a riguardare adolescenti e bambini. Statisticamente le persone più colpite dal disagio sono le donne. I dati, se analizzati anno per anno nell’ultimo decennio sono veramente inquietanti: solo per fare un esempio, dal 2000 al 2002 il consumo è aumentato di cinque volte. Secondo l’Osservatorio Nazionale sull’impiego dei medicinali (Osmed) dal 2000 al 2003 ha registrato un aumento del 75%; qualsiasi statistica fornisce dati esponenziali allarmanti.
Come mai se ne parla poco? Perché diviene fonte di riservatezza, paura, privacy e vergogna? E’ un fatto talmente diffuso, studiato, certificato e confermato che forse varrebbe la pena di essere messo al centro del dibattito e non relegato nelle rubriche “salute” delle riviste o nelle trasmissioni notturne.


Il fatto poi che i dati confermino che il disagio sia diffuso più nel ricco nord produttivo deve far riflettere.
Il problema è che se adottiamo un concetto “quantitativo” del vivere, rischiamo di lasciar fuori dai nostri criteri aspetti molti importanti della qualità della nostra vita. E’ vero che la medicina, la tecnologia, le scienze mediche in generale hanno fatto negli ultimi decenni dei “miracoli” per allungare la vita, curare malattie, aiutare patologie difficili. La scienza alimentare e un certo controllo sulla qualità del cibo hanno aiutato a correggere molti squilibri alimentari. Tutto questo ha portato sostanzialmente ad un allungamento quantitativo della vita. L’aspettativa di vita nei paesi occidentali si è decisamente allungata. E questo è un fatto. Ed è positivo. Ma è anche un fatto che la qualità della vita sembra essere peggiorato poiché l’incremento importante dell’uso di antidepressivi e ansiolitici ci restituisce un oggettivo, malessere, disagio, fatica di vivere. In un precedente intervento in questa rubrica dal titolo “I limiti della politica” mettevo l’accento sul fatto che se non si riesce a sviluppare un linguaggio adeguato dei bisogni fondamentali, non si riesce poi a farli diventare materia di rivendicazione e di lotta. In questo caso potremmo dire che non ci si trova d’accordo sulla diagnosi circa il diffuso malessere sociale, non si possono individuare i rimedi adeguati e necessari. A me sembra che il malessere diffuso sia da imputare allo stile di vita sotteso alla nostra società occidentale post-capitalista. Denaro, prestigio, potere, giusto per fare una sintesi utile al discorso. Cosa conta per davvero? Un buon livello di consumi, con tutte gli oggetti che corredano la nostra vita (auto, elettrodomestici, viaggi organizzati e suppellettili per la casa), una buona carriera che fornisca un posto di prestigio e una buona dose di potere che ci gratifichi nell’esercizio della nostra funzione. Se così funzionasse e restituisse benessere allora, coloro che hanno raggiunto questo standard dovrebbero essere i più felici. Invece sembra che siano i più esposti alla crisi perché il binario di questo modello di costruzione del successo si fonda su dinamiche “fredde”, utilitaristiche, strumentali che per definizione devono non tener conto degli altri ma perseguire l’obiettivo che è importante in quanto tale. Si assiste così allo smarrimento del senso profondo dell’agire. E’ spesso un correre nel traffico, competere con il rivale, cercare di essere più astuti, furbi, più scaltri dell’interlocutore, portare risultati, fare fatturato, fare cassa, distribuire dividendi agli azionisti, evitare di farsi fregare dal prossimo sempre in agguato dietro qualsiasi prestatore d’opera, che sia il meccanico, il medico, l’avvocato, il negoziante di turno, il funzionario o manager di turno.
Vivere diventa come essere in trincea e le richieste che ci vengono fatte sono sempre più pressanti: come padre di famiglia, come madre di famiglia, come manager, come responsabile di settore, come amministratore in un crescendo di sollecitazioni che sono giustificate e legittimate dalla richiesta del successo, del risultato, e remunerato finalmente con lauti stipendi e posizioni prestigiose nella scala sociale. Ma che fatica!
Quando la fatica è troppa, la psiche e il corpo parlano e il malessere viene fuori moltiplicando gli attacchi panico, la depressione, l’ansia e la perdita di senso della propria esistenza. Le persone sono sostanzialmente vittime di un meccanismo alimentato dal modello di mercato, orientato alla quantità di vita a scapito del concetto di qualità.
Ma cosa significa qualità della vita? Della qualità della vita, di cui è molto difficile parlare, proveremo a parlarne un’altra volta. Per ora fermiamoci qui, ricordandoci che sul nostro malessere diffuso ci sono molte imprese farmaceutiche che prosperano felici. I loro fatturati si, forse non tutti i suoi dipendenti.

1 pensiero su “Vivere è come essere in trincea

  1. E’una pagina meravigliosa che spiega magistralmente i vari conflitti dell’esistenza fisici e soprattutto psicologici che ci fanno vivere la propria vita come in trincea.Gli psicofarmaci non servono per guarire dal “mal di vivere” .occorre amore ,rispetto,solidarieta’da chi ti sta attorno e che invece molto spesso non si accorge della tua sofferenza .e questa e’ la fine……

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