Il downshifting è un fenomeno emergente nelle società avanzate contemporanee. Significa letteralmente scalare la marcia, rallentare; scendere cioè dalla macchina in corsa e trovare un modo di vita più tranquillo, fatto di minor guadagno e di minor consumo, magari ai margini delle grandi città, in campagna o al mare o semplicemente un po’ fuori dal fuoco della produttività spinta. Molti manager, funzionari, lavoratori iper-sollecitati cominciano a sognare il downshifting: scendere dalla locomotiva in corso del lavoro, delle turbo-prestazioni, del fatturato crescente da realizzare, dagli obiettivi aziendali da raggiungere. La velocità, la performance, la sollecitazione ad andare più veloce e fare meglio del proprio competitor diventa la cifra del lavoro e il downshifting ne è la prima risposta. Forse un’utopia, forse un’indicazione di direzione inevitabile per un futuro prossimo. Chi lo sa? Però è un indicatore importante che qualcosa, nell’organizzazione del lavoro e nello stile di vita moderni non funziona più. Pochi possono veramente scalare la marcia e permettersi di scendere perché gli impegni presi sono troppi: i figli che studiano, il mutuo da pagare e la droga del consumo di cui siamo tutti fortemente dipendenti. Il downshifting non può essere una soluzione individuale, dovrebbe essere un esito collettivo, una sterzata da prendere tutti insieme per scoprire che le cose che contano sono altre: tempo libero per sé e per i propri cari, contemplazione di fronte alle vette o al mare, socialità gratuita, attività comuni senza scopo di lucro, passioni, sport, espressione e conoscenza Ora sembrano relegati negli interstizi del “poco” tempo libero poiché il desiderio di beni ci spinge ad inseguire il reddito per acquisirli. Ma se la prospettiva cambia in modo globale e collettivo, verso una società della “decrescita” (si veda Serge Latouche in questi giorni al festival della filosofia di Modena) come per incanto ci potremmo ritrovare in molti a vivere proprio quello che desideriamo.