Mattia Tavani: “Perché faccio musica oggi, quando tutto sembra scontato”
Conversazione con il musicista e produttore varesino Mattia Tavani
La musica, nel 2020, è un argomento scontato. Tutti possono fare i musicisti, per chiunque è possibile sfondare, diventare famoso. Non tutti hanno un reale talento. Per molti, infatti, non esiste più la faticosa scalata verso il successo: al giorno d’oggi basta avere un telefonino e una pagina social.
Abbiamo incontrato Mattia Tavani, un giovane musicista e produttore varesino che ci ha raccontato della passione che lo lega al suo lavoro, come è nato l’amore per la musica e cosa lo ha portato a diventare un produttore musicale.
Come hai scoperto il mondo della musica?
Io nasco come chitarrista, è partito tutto da lì. Mio padre ascoltava molta musica quando ero piccolo, che evidentemente con il tempo ho assorbito, portandomi ad appassionarmi sempre di più. Così ho deciso di buttarmi sullo studio della chitarra, passando poi alla batteria e alla tastiera. Crescendo, questo mi ha permesso di raggiungere quello che dovevo comprendere e approfondire per ottenere tutto il resto.
Cosa ti ha portato ad essere l’artista/produttore che sei oggi?
Sono diventato produttore per vari motivi. Prima di tutto, ad un certo punto della mia vita la chitarra non mi bastava più e tutt’ora limitarmi a suonare un solo strumento mi infastidisce e non mi appaga. A sedici anni ho iniziato a comporre musica da solo, aspetto che mi iniziato ad avvicinare alla produzione: siamo figli della nostra epoca e la musica si fa in cameretta con un pc portatile. Avendo fatto parte di varie band, in particolare i Belize, con i quali componiamo molta musica elettronica, involontariamente si diventa produttori di se stessi. Infine, uno sconfinato amore per la musica, che mi ha portato a voler aiutare altri artisti a creare e definire al meglio i loro progetti.4
Come si riconosce un talento?
Per me il talento appartiene ad un artista, un musicista che, senza troppi giri di parole, riesce a colpirti, ad impressionarti positivamente. Un artista può emozionare anche solo una persona su cento, ma per me rimane artista, rimane talento, perché anche se una sola persona resta colpita dal tuo lavoro, significa che il talento ce l’hai. Poi parlando di talento si possono toccare miliardi di sfaccettature: esiste il talento tecnico, di composizione, di visione artistica e molti altri ancora. A mio parere, in ogni caso, come denominatore comune resta sempre la capacità di saper comunicare”.
Partendo dal presupposto che il mondo della musica è diventato molto più accessibile, quasi facile, e chiunque può riuscire a proporsi anche senza possedere doti particolari o aspetti ricercati nel proprio stile, cosa significa per te voler far musica nel 2020?
Questa è una domanda quasi esistenziale per un artista. Più che altro bisognerebbe chiedersi che senso ha fare musica adesso che è tutto saturo, che la musica è ovunque: siamo continuamente bombardati da musica, canzoni, proposte. Il senso di far musica nel 2020, per quanto mi riguarda, significa appagare se stessi. Può sembrare un ragionamento egoista ma siamo talmente sommersi dalla quantità di lavori musicali che non vale più la pena buttarsi e cercare di piacere. Varrebbe di più facendo un lavoro sulla propria identità musicale, mettendo al primo posto cosa piace all’artista stesso. Io se faccio musica è perché quello che sto creando mi piace, lo voglio ascoltare, e so che l’ascolterei se fossi dall’altra parte, se fossi l’ascoltatore. Meglio buttarsi su un progetto personale che può piacere a pochi, allontanandosi da ciò che compiace la massa, perché quei pochi che apprezzeranno saranno persone che si sentiranno davvero rispecchiati in ciò che crei.
Che tipo di musica crei e quali contenuti porti?
Ho suonato con molte band, generi rock, funky, blues, la tipica musica che suoni quando sei giovane per farti le ossa. Parallelamente, mentre studiavo chitarra, ho sviluppato il lavoro delle produzioni. Ho anche lavorato per marchi importanti, come ad esempio Versace. Attualmente continuo a produrre e naturalmente a suonare. Come solista porto avanti un progetto che si chiama EXE composto da musica elettronica e sperimentale. I contenuti di questo lavoro sono molto intimi, personali: ciò che creo piace prima di tutto a me, mi sento a mio agio ascoltando la mia musica. Come parte della band Belize, portiamo contenuti ponderati, basati sui nostri flussi di pensiero e insiemi di idee. Cerchiamo di creare un’alternativa da tutto ciò che attualmente si trova nel genere dell’underground e dell’Indie cercando di far nascere musica che ci contraddistingua, che sia nuova sia per il suono che per i contenuti.
In che modo l’emergenza covid ha influito sull’ambiente musicale e in particolare sul tuo lavoro?
Il mondo della musica è stato dilaniato, soprattutto se si parla di live. È stato un vero disastro e speriamo di poter l’anno prossimo a suonare di nuovo e suonare tanto. A livello personale e lavorativo devo dire che tutto questo ha seguito una curva fisiologica degli eventi netta: nel senso che a inizio pandemia, a marzo, durante la prima quarantena, sono stato investito da una grande mole di lavoro. Gli artisti si sono messi a scrivere tanto, e di conseguenza a cercare produttori e tecnici. Quindi ho lavorato come mai nella mia vita, passando ogni giorno almeno 12 ore al computer, a scrivere, a mixare, a produrre e creare. Poi, finita l’estate e giunto questo secondo semi lockdown, tutti hanno smesso di scrivere, probabilmente perché gli artisti stanno aspettando di uscire a primavera dell’anno prossimo. Così mi sono dovuto trovare un lavoro momentaneo, qualcosa che mi permettesse di pagare l’affitto e di sopravvivere. Si tratta di un impiego sempre nel mondo dell’audio come tecnico, ma purtroppo non ha nulla a che fare con la musica.