Non potevo resistere alla tentazione di scrivere un post sull’esperienza gastronomica di questi quattro giorni, dando così una mano al cronista ufficiale dell’avventura.
Oltre al fattore geografico – abbiamo attraversato quattro stati – è contato molto anche l’aspetto logistico, per non parlare delle realtà molto diverse che abbiamo scoperto. Si parte quindi con Chicago, considerata una delle capitali della cucina statunitense.
Sicuramente non ci ha deluso, grazie anche alla grande professionalità di Fernando Marfìl con la sua esperienza nel settore alberghiero di lusso. Lo show cooking organizzato al World of Whirlpool era sicuramente spettacolare, ma anche e soprattutto di qualità. Accolti con un bicchiere di Merlot californiano (volendo era a disposizione un’ampia selezione di birre nazionali) e delicate sfoglie alle verdure appena sfornate, gli ospiti si sono visti servire una rapida successione di impeccabili stuzzichini, culminati con irresistibili miniature di hamburger da boccone. Tra le pietanze preparate sulle futuristiche cucine del World of Whirlpool svettava un inarrivabile controfiletto, brasato fino alla caramellatura e così tenero che si sfaldava a guardarlo. Azzeccato l’abbinamento, optional, con un’aerea mousse di crème fraiche e rafano. Dignitosa la selezione di formaggi, tutti americani, tutti da scoprire, in abbinamento a frutta e vari tipi di pane. I dolci erano una teoria completa sul cioccolato in tutte le sue forme. Divino.
Giorno 1: Chicago – Benton Harbor- Brandy Wine –
Sorvolando il breakfast, pantagruelico ma fortunatamente a scelta, si giunge al pranzo dell’indomani, ahimè non classificabile poiché costituito da panini e patatine in busta, come se non bastasse consumati sul pulmann e annaffiati dalla micidiale, ben nota e universale bibita gassata nazionale. Comunque, per dovere di cronaca, ecco l’autopsia del contenuto della mia invitante e carinissima “schiscetta” ricevuta in dotazione all’uscita del World of Whirlpool: panino-stoppa molliccio XXL farcito allo stremo con salumi vari non identificati, maionese o simile, foglia d’insalata anemica e fetta di pomodoro; un biscotto affetto da gigantismo, non male; un sacchetto di snack simil-patatine al gusto bacon; una mela (la mia salvezza). Il contenuto di sale sarebbe bastato a conservare il pescato di un’intera stagione di acciughe di Monterosso, ma aveva il pregio di mascherare il reale sapore degli alimenti.
Le cose migliorano alla sera, con la cena servita alle 18.30 secondo l’usanza statunitense. Ottima introduzione con vini bianchi e rossi californiani. Degno di nota il pinot nero, generoso e senza pretese. A tavola, in un ambiente caldo e accogliente da mountain lodge, ci attende la classica insalata mista, presentata però con qualche ricercatezza. Garba all’occhio e rinfresca il palato ancora arso dalla salatura forzata del pranzo. Il “main course” rientra nella categoria “surf ’n turf” ovvero “mare e monti”, con una grigliata mista di carne e pesce accompagnata da un’ottima spadellata di verdure miste. Non mi pronuncio sulla forzatura delle capesante abbracciate al pollo, entrambi ineccepibili, ma compatisco il povero salmone sock-eye di grande lignaggio afflitto da una eccessiva cottura. A conclusione, un irresistibile monolito di cioccolato nella più classica delle interpretazioni della torta “foresta nera” salva la partita.
Giorno 2 – Brandywine – Benton Harbor – Greenville
Breakfast buono, consistente, abbondante nella bella sala del lodge. A pranzo siamo ricevuti dal presidente Fettig nella “executive dining room” del quartier generale mondiale. Siamo un po’ in soggezione e l’interesse non va certo al cibo, ma alla discussione sui grandi temi dell’innovazione e della strategia dell’azienda. Le domande sono un fuoco nutrito, ma il presidente risponde instancabilmente, riuscendo anche a mangiare senza che ci si accorga. Tutta un’arte. L’aspetto gastronomico risente dalla necessità di non fare aspettare neanche un secondo l’uomo più importante della squadra, quindi gli spiedini di pollo e manzo, accompagnati da riso pilaf e verdure grigliate, sono un po’ legnosi. Soffrivano già di anonimità, e l’attesa li ha depressi ulteriormente. Niente primo e il dessert è una monoporzione, a scelta, tra un’ottima torta al limone e un delicato clafoutis ai mirtilli. A tavola niente alcolici, questo prima di tutto è un luogo di lavoro.
Giunge la sera, e pure giunge a Greenville il nostro pulmann. Ad attenderci nel nuovissimo negozio “KitchenAid Experience” un impagabile gruppo di pensionate della fabbrica, pronte a coccolarci con gli stuzzichini che hanno realizzato con le loro mani. Tenerissime nonnine, benedette casalinghe che ci regalano con un sorriso l’America profonda e rurale, in un piatto. Sorprendenti involtini di castagne d’acqua e bacon in salsa barbecue; formaggio al forno in crosta di noci di pecan e zucchero di canna, da mangiarsi spalmato sul pane; gamberoni in salsa di pomodoro, rafano, tabasco e worcester; formaggio fresco alle erbe e verdure, tutte a me sconosciute, anch’esso da spalmare; verdure fresche di ogni tipo. Una boccata di aria fresca, una piccola scoperta gastronomica, con semplicità e soprattutto con il cuore.
La cena vera e propria ha luogo al “Bistro off Broadway” situato nell’edificio che ospitava la fabbrica originale dei leggendari mixer. L’ambientazione è quella del mid-west diner, con i colorati neon a pubblicizzare tale o talaltra marca di birra, le luci soffuse, il pavimento in legno e il lungo bancone. Ceniamo in compagnia del sindaco e di un politico della contea. D’obbligo l’assaggio della carne, nei vari tagli autoctoni, sconosciuti alle nostre tavole. Mi avventuro con un flat iron, taglio particolare di anteriore, mentre Marco si limita ad un più prudente “new york” (roast beef tagliato “nell’altro senso” rispetto a noi). Immancabili, e buone, le patatine. Abbondante, e gelata, la birra. Impossibile affrontare il dessert, le porzioni USA sono poco gestibili per i nostri stomaci europei.
Giorno 3 – Greenville – Clyde- Detroit
Breakfast al “Comfort Inn” senza intoppi, con la simpatica variante dei wafer “fai da te”. In realtà siamo assistiti da una arzilla nonnina del west. Qui sono tutti così gentili, e sempre pronti a farsi in quattro per farti stare più comodo, servirti quello che vuoi come lo vuoi…
A pranzo ricompaiono i lugubri panini, d’altronde il programma è talmente serrato che non vi è alternativa. Ci sostentiamo con un classico “sub” (da “subway”, metropolitana, per la forma oblunga) da un piede (33cm di lunghezza) nelle varianti prosciutto, formaggio, o “club” ovvero un po’ di tutto. Optiamo per quest’ultima soluzione. Di nuovo i biscotti giganti, davvero buoni ma un po’ stufagenti. Da bere sempre lei, la “soda” di Atlanta nella sua lattina rossa inconfondibile.
La cena la consumiamo in aeroporto, a Detroit. C’è solo l’imbarazzo della scelta. Marco è attirato da un messicano, a dire il vero invitante. Cediamo. Mi accorgo che il direttore di Varesenews in realtà non sa nulla di pico de gallo, fajitas, jalapeños, chipotles e chili con carne. A dire il vero sul cibo si è espresso poco, se non per niente, durante questo viaggio. Questa è la parte meno avventurosa del suo carattere. Occorrerà rimediare, non può un viterbese autentico mancare di opinioni culinarie. Ci sarà modo in un prossimo futuro, spero. Intanto gli ordino in emergenza un “classic bacon barbecue burger” corredato da solide patatine. La cameriera chiede di vedere la mia carta d’identità alla mia richiesta di una Budweiser alla spina. Vuole controllare che abbia 21 anni!! Paradossi del regolamento seguito alla lettera!
Si conclude così nel più classico dei modi la nostra avventura gastronomica nel mid-west americano, con un hamburger perfetto e ahimè stracalorico, sognando già linguine, ravioli e risotti. Incorreggibili.
Pierre Ley
Ah, meraviglioso! anche inquietante, però…specie nella spiegazione dei panini xxl… :-)) (le sciure della kitchen aid invece non è che si possono esportare? :-)