Stefania prende il treno ogni mattina alle sei e mezza. E sta per sposarsi, ha già fissato la data delle nozze: il 31 luglio. «Per quella data è tutto ok, anche al mio capo andava bene». Al mio capo? E al futuro marito? «A entrambi».
Stefania ha studiato una vita intera nell’università più “in” di Milano, ora lavora in un gruppo finanziario in zona Loreto. E che fa? «Analista datastage». Cosa, scusa? «Perché ho maturato una buona esperienza in ambienti di datawarehouse». Ah ok, adesso è tutto chiaro.
Stefania entra in ufficio alle 8 di mattina e ci esce alle 19: «Ma non faccio pausa pranzo, per fare prima». E perché? «Perché altrimenti rientrerei in provincia alle 10 di sera, sai con questi treni». Già, i treni. Nel frattempo, viaggiando sulle carrozze semisfaciate dei treni locali, messaggia a manetta con il suo promesso sposo. E lui che fa? «Lavora in Svizzera, ci si vede dal venerdì alla domenica». E dopo, da sposati? «Idem». Stefania sogna di avere bambini, ma sa che non potrà permetterseli… Perché se lo sapesse il capo…
Anche Giusy prende il treno alle sei e mezza e sono dieci anni che prende treni. Prima per andare a studiare, ora per andare a lavorare. Che fa? «Programmatrice business objects». Ah ok, idem come sopra, tutto chiaro. La data del suo matrimonio è fissata per il 4 luglio «ma non posso permettermi il viaggio di nozze, lo farò ad agosto, quando la mia azienda mi lascia». Eh già, perché l’azienda oggi conta. Chiude l’ufficio ogni sera alle sette e mezza, Giusy, e poi si fa un’oretta di treno, prima di entrare in casa: «Doccia, cena e un quarto d’ora di televisione con il mio cucciolo. Poi sveniamo nel sonno, entrambi sul divano». Il cucciolo, un cagnolino? «No, il mio lui, viviamo già insieme da un annetto». E lui che fa nella vita? «Il sales account in una società finanziaria anche lui a Milano. Solo che lui non ha orari e viaggia in auto». Perfetto: e a quando casa a Milano? «Mai. Costano troppo». Giusy è preoccupata perché quando si sarà sposata, la sua azienda aprirà un nuovo brand, e sarà lei a occuparsene: potrebbe lavorare dodici ore, una in più di adesso.
Sullo stesso binario, alla stessa ora, c’è Carla che è già sposata e un figlio lo ha partorito due anni fa: lo lascia ogni mattina all’alba da sua madre che lo porterà all’asilo nido, dal quale, sempre sua madre, lo preleverà nel pomeriggio. Lei, Carla, rivedrà il suo bimbo alle otto, per cena: «Poi alle nove, va a nanna, il mio frugolino». E lei stira e fa il bucato. Il marito c’è stato fino a un anno fa: «Poi se n’è andato». Dove? Non è dato a sapersi, ma con chi lei lo sa bene. Storia finita. Ora Carla sogna di aprire un negozio di abbigliamento al suo paese, a un’ora da Milano: «Ma non posso permettermelo, mi toccherebbe fare un mutuo, e per iniziare un’attività commerciale, in Italia, paghi troppe tasse. E poi ci sono gli studi di settore: se non lavori, paghi lo stesso. Perché, secondo lo Stato, se un commerciante non guadagna, significa che evade le tasse… E ti danno della disonesta». E allora che fa? «Addetta al servizio it per una compagnia assicurativa». E che vuol dire? «Faccio da interfaccia verso gli outsourcer». Urca, roba seria. Per undici ore al giorno. «Così è la vita»
Tre storie di donne pendolari, che oggi sono molto diverse da quelle della generazione precedente che facevano le ragioniere, le sarte, le segretarie. Dottori e dottoresse escono a migliaia dall’università con lauree a pieni voti e le lacrimucce di mamma e papà. E con un pezzo di carta in mano, un titolo che deve per forza contare, ora: e li trasformerà in alieni.
Ci sono nella mia azienda, donne così, e non solo neo-laureate. Anche persone che lavorano da anni, sposate con figli, che a un certo punto hanno scoperto che per la nostra società che si riempie la bocca di attenzione alle persone, in realtà una spremitura ulteriore di un lavoratore è sempre possibile e sono passate da 8 a 12 ore in azienda (straordinari non pagati, ovvio).
Non solo: debbono anticipare di tasca propria le spese di viaggio (trasferta, albergo se capita, gasolio dell’auto) che l’azienda rimborserà con comodo il mese successivo (se non quello dopo, causa “problemi tecnici”).
Però bisogna tacere, perché fuori ci sono persone disposte a stage fasulli per mille euro al mese, o contratti temporanei da rinnovare ogni pochi mesi con una diversa agenzia. Non parliamo di raccoglitori di pomodori, parliamo di persone che lavorano su attività che valgono centinaia di migliaia, quando non milioni di euro. Bene così?