Polipropilene, l’invenzione del secolo, quella che gli porta il pane. E quel senso di potere su bambini, burattinai e giocattolai: un potere da riempirsi le tasche di caramelle. Come una sorta di cleptomania da dolci. L’ultima volta aveva ceduto proprio nell’ufficio del giocattolaio, il suo miglior cliente: un attimo di distrazione generale e zac, si era già riempito mani e tasche di gommose alla frutta, tanto gli sembravano lì per lui. E per chi sennò?
Rughe seminascoste da una barba spelacchiata, come il più randagio tra i gatti, a colorare di grigio un volto che, per ogni istante in cui gli balena un pensiero folle, si colora a festa, seguito da una risata secca tipica del venditore che ha fumato parecchio. Vendere polipropilene è come vendere la rivoluzione del Novecento: “Ci fai tutto: a cominciare da palette e secchielli, formine e racchettoni, e tanto altro, tutto quanto fa giocare i bambini d’estate” e ghigna da solo, sulla carrozza di un treno che lo porta, appunto, dal cliente prediletto: l’ultimo giocattolaio, l’ultimo donatore di sogni in un’Italia che ha smesso di giocare con la fantasia più innocua.
Tra i pendolari, sghignazza e pensa a un’offerta da mettere sul tavolo: si beccherà del pirla, pirla a ripetizione, lo farà sbraitare il giocattolaio, ma alla fine il prezzo lo decide lui. O così, o la Cina: il suo polipropilene muove un’economia, ma non la strozza. Non fa comodo a nessuno, a cominciare dalla sue tasche piene di caramelle.
Sacchi, bancali di polipropilene: lui ridacchia e l’altro, il giocattolaio, mugugna e già pensa a una nuova invenzione, a qualcosa da provare sul mercato. Un mercato che dipende dai sorrisi dei più piccoli, dalle loro manine protese verso oggetti colorati, dai loro occhietti illuminati a tal punto da far cedere mamma e papà. Egli, il venditore spelacchiato, si nutre della debolezza dell’ultimo giocattolaio, di quella tenerezza che, già sa, gli farà guadagnare a monte. E lascia sfogare il suo cliente, si prende del pirla e, una volta fuori dall’ufficio festeggia, con le caramelle che strabordano dai pantaloni e una stravaganza improvvisata: una bella verticale, fatta lì sulla strada, appoggiato alla saracinesca di un negozio. Come il più folle tra i giullari: a 65 anni, gli riesce ancora bene e se ne vanta spesso, anche coi clienti che gli danno del pirla. Ma che gliene importa, ha già il contratto firmato e il biglietto di ritorno, su quel treno in cui ridono in pochi. Chissà perché si ride così poco sui treni, pensa ogni volta. Dal giocattolaio, invece, si ride eccome, anche se amaramente, mentre fa la verticale e scatena litanie di “se l’è, matt?” dalle labbra di pettegole di paese nascoste dietro le persiane.
Il contratto è firmato, il giocattolaio è ai suoi piedi, anche se gli ha dato trenta volte del pirla. Sul treno, ora, eccolo là, è risalito al suo posto, ma dentro a un vagone che non ride: e, allora, gracchiando come una cornacchia, con la rapidità di un felino, balza a testa in giù in grande equilibrio, nel corridoio della carrozza, sul treno lanciato a gran velocità. Occhi sgranati, applausi e sorrisi. Compresi quelli della procace signora, scollacciata e accaldata, seduta lì accanto: era triste e annoiata, dentro alla sua abbondanza, ora ride, sì ride proprio come sperava lui… il venditore della rivoluzione.
«Dovrebbe passare col piattino, ora, a raccogliere monete» si allarga la signora.
«No, mi basta molto meno. Lei avrebbe qualche caramella?» domanda lui, con lo sguardo che indugia non alle sue grazie, bensì alla sua borsetta.
«Certo, gommose alla frutta, ma è roba che piace ai bambini»
«Non si preoccupi, sono perfette. Sentivo che c’era del feeling, tra me e lei». Complicità di sguardi, pensieri impuri che durano un istante, ma già pregusta il vizio che, questione di un minuto, andrà a consumare.
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Cronache milanesi: seiequaranta
Binario due, seiequaranta: prendi un foglio bianco e mettici sopra decine di penne a sfera che scarabocchiano i propri itinerari e convergono tutte nel medesimo punto. Al binario due: col vento in faccia alzato da un treno che fuori puzza di gomma bruciata e dentro ti strangola con uno stagnante odore stantìo di cane bagnato.
Scene quotidiane di una stazione di provincia, per la trama di un capitolo che ognuno ha ancora da scrivere. Troppo impastati di sonno, i pendolari del seiequaranta non hanno tutto chiaro in mente già dal primo minuto, lì sulla banchina: la loro trama emerge stazione dopo stazione. E in fondo al viaggio, ecco Milano: un mito se sei adolescente, un frullatore se sei un lavoratore. A Milan gh’è al pan, ma è un pane che ha un prezzo…Un pan che al g’ha sett crust: e intanto sulle carrozze del seiequaranta Milàn si porta via i sogni di tutti, il resto è mancia.
Agnese ha una laurea in economia da far fruttare: Milano vive di pil, Agnese l’han fatta studiare nel nome del pil e per farsi una posizione. La sera, a letto, sogna di sposarsi e di avere figli, ma la mattina c’è il pil che si ruba tutta la scena: centodieci e lode alla Bocconi, la sua famiglia ha speso una fortuna per quel pezzo di carta. Dai da mangiare all’economia e lei nutrirà anche te… ma a quale prezzo? Intanto è già in prima fila, Agnese, davanti alle porte del treno: perché non c’è tempo. Per cosa? C’è da fare in fretta: perché? A Milano c’è il pil che comanda, si va di fretta e basta.
Said, invece, non sa cos’è il pil e non capirebbe perché gli economisti di gran moda vanno al governo convincendo il mondo che se dai da mangiare in continuazione a una capra, questa crescerà all’infinito. Non ha capre e nemmeno di che nutrirsi tutti i giorni, Said, ma forse oggi mangerà: perché va a fare il magùtt di nascosto, giù al cantiere accanto alla stazione. E un kebab, male che vada, lo mette sotto i denti comunque, con un paio di sacchi di cemento scaricati in nero: ma se va bene, anche qualcosa in più lo porta a casa, pure un’aranciata salta fuori. Il biglietto lui lo paga, non è mica un accattone, ci tiene a non sembrarlo: e comincia la giornata con sotto una nuvola di deodorante acquistato in un discount. Aroma mughetto, per un magutt magrebino, è un segno di distinzione. Inesorabilmente, anch’egli andrà ad alimentare la grande puzza, la somma di milioni di odori che produce una metropoli.
L’ingegner Tibiletti, seduto al suo fianco, punta tutto sul dopobarba al profumo di ginepro, roba che arriva dalla Svizzera: «Sa, perché io ho lavorato una vita, mica per andare al discount. La roba buona la compro ancora». Spera di andare in pensione, ma non gliela daranno per un bel po’… Non ci vuole pensare, lui finge di sentirsi inossidabile, ma non ne può più di far ‘sta vita. Fa il pendolare da più di trent’anni, da quando i treni avevano gli scompartimenti e poteva capitare di trovarsi solo, a tu per tu con la donna dei sogni. Una donna di cui ci s’innamorava per tre fermate e poi ci si lasciava senza platonici rancori. Oggi, per stare al passo con i tempi, l’ingegnere unge a colpi di ditate lo schermo di un’i-pad: «Perché l’informazione, ormai, l’è cambiada. Ormai la carta non si usa più, il futuro è questo qui»… e fissa lo sguardo su quello schermo.
Non son più i tempi dei quotidiani, l’edicolante giù in stazione lo manda a quel paese sottovoce, ogni volta che lo vede passare e si ricorda di quando, ogni mattina, l’ingegnere si portava in treno una mazzetta di giornali alta così: e oggi, in nome della nuova informazione tecnologica, tutto finito. «Vadavialcù, ingegnere», e non dimentica di quando al mercoledì, dentro al Corriere gli metteva anche il porno, altro genere finito fuori moda nelle stazioni. Oggi tette e culi, l’ingegnere li clicca, non li sfoglia più. Ma non gli fanno più l’effetto di allora: sarà l’età, ma anche rincoglionirsi davanti a un’i-pad contribuisce alla sua impotenza. Un’università del Minnesota, presto, studierà anche questo.
Sparisce la carta, sparisce ogni dialogo in carrozza: seduti nei vagoni, i pendolari dell’ultima generazione sembrano automi radiocomandati, tutti con fili e auricolari, con la testa già bombardata da un regista occulto, che non ama chi se ne sta in silenzio a pensare… Potrebbe accadere che, nel silenzio, a qualcuno venga voglia di tornare a sfogliare quel Pratolini che odorava di muffa, ma che tra le pagine ti portava dentro tutto il treno: tutto il treno sembrava trasformato in via del Corno, nella Firenze anni Venti… Sparisce la carta, spariscon le carte, quelle delle partite a briscola che infiammavano le mattinate di viaggio, spariscono i termos pieni di caffè e le schiscette, simbolo dell’amore coniugale di provincia, quando ancora non si sapeva cosa fosse il brunch.
Lunga vita ai sacerdoti della tecnologia: “Stay hungry, stay foolish”, solo che a Milano non si sogna più ciò che si vuole, ma ciò che è imposto dal destino. Sei dentro a un frullatore: non sei più tu a decidere in quale senso far girare il mondo. Resti a tu per tu col destino, che quando apre una porta, ne chiude un’altra. Dati certi passi avanti, non è possibile tornare indietro. Filosofia non quotata in borsa, ma anche tutta roba che non capirà mai l’ultima generazione del libro elettronico, quella che trionfa con la logica del pil … vallo a spiegare a Kevin, primo anno di giurisprudenza, cosa vuol dire sfogliare Dickens, aprirlo e chiuderlo quando cacchio ti pare, tra i sobborghi di Busto Arsizio e le prime case di Legnano: immaginarsi Londra, oltre il finestrino, è un atto di libertà. Vallo a spiegare a Kevin, lì seduto che mastica un chewing gum gusto fragola, sotto una cresta scolpita da un chilo di gel. Kevin mastica e ha già in mente dove vuole arrivare, alle seiequaranta del mattino. Su Facebook lo ha già scritto: “ciao raga, oggi mi faccio il piercing, stasera ve lo taggo”.
Kevin, primo anno di giurisprudenza, alla scoperta della legge, quella che col tempo gli ammoscerà la cresta e gli farà risparmiare sul gel: e pure il piercing, prima o poi, lo getterà in una latrina. Una Milano che sforna migliaia di avvocati, non può che affogare nelle carte bollate senza senso: Kevin sogna gli ultimi assoli di chitarra, ma presto a suon di diciotto su trenta, si ritroverà a tu per tu con quel seiequaranta, sempre lo stesso, a fissare il finestrino senza guardare oltre. Incazzato col mondo. Andata e ritorno, si va e si torna, senza piercing, ma in giacca e cravatta. “Porca troia se fossi il figlio di un segretario di partito! Porca troia, sarei consigliere regionale e mi farei una donna al giorno”. Altro che codice civile, fanculo pure agli assoli di chitarra, da qualche parte si dovrà pur uscire da ‘sta vita in gregge.
La mandria sale e scende, la governa il capotreno Caruso, partito da Aci Trezza, finito a Domodossola, in una casa popolare che è più grigia del suo treno: partenza all’alba, ritorno che è già notte. Una giornata a litigare con carrozze fatiscenti, porte incastrate, impianti di riscaldamento costantemente guasti, finestrini rotti e sedili lerci. Il seiequaranta non è un treno per signori, il capotreno Caruso sa già che si prenderà insulti gratuiti dai soliti imbestialiti, gente ammassata nei vagoni sempre troppo pieni. Ma giù all’ultima carrozza sa che troverà la Tilde, di professione receptionist, con l’hobby di fare innamorare uomini sempre troppo soli, catturati tra un’andata e un ritorno. Tutti a indugiare dentro a quella scollatura infinita, che sembra una finestra sul paradiso.
Caruso, capotreno innamorato, pregusta ogni giorno quel suo viaggio dalla prima all’ultima carrozza, fin dentro la scollatura: e dove lo sguardo non arriva, prosegue con l’immaginazione, così che anche Vanzago Pogliano, da quel punto di vista, gli sembra bella più di Taormina.
L’unico a non distrarsi è Treves l’intellettuale: nemico del sapone e del sistema. Frustrato che sognava di diventare il più grande giornalista di Milano, l’uomo nuovo del reportage, la voce della verità, il cane da guardia del potere, finito a correggere bozze per i raccomandati che affollano le redazioni di quei giornali che nessuno legge più. Treves sul seiequaranta è sempre fisso accanto alla Tilde, il suo odore muschiato si confonde col parfume francais della signora. Treves la marca stretta, non per corteggiarla, bensì per sfuggire al controllo biglietti di un Caruso preso da ben altre prospettive. Treves, l’intellettuale che sognava il premio Pulitzer, viaggia a scrocco per risparmiare: sia lodato il seno della Tilde, ma nel frattempo progetta il romanzo che gli cambierà la vita. Immagina un capitolo per ogni fermata, ma poi Milano gli offuscherà ogni idea, come un cancellino passato sulla lavagna: l’indomani, tuttavia, quella lavagna sarà pronta per una nuova storia tutta da scrivere. In fondo, è così che nascono i libri da treno.
La pendolare modenese e il suo blog “terapia”
Le invidio la freschezza, quella che ti fa cogliere spunti narrativi e persino poetici del viaggiare in treno. Ma io “topo di campagna” non viaggio come lei, nella dolce pianura emiliana: la “mia” Milano-Domodossola logora le menti più illuminate, il viaggiare in treno è un’esperienza letteraria solo in certi momenti.
Katia Pendolante modenese, invece, condivide in modo più costante la sua sensibilità su un blog che è davvero una terapia per pendolari stressati. Un’altra Italia, forse, che la rete web rende così vicina anche ai topi di campagna che da e per Milano.
Un’idea diventata realtà da pochi mesi…
«Da sette anni, per lavoro, percorro una breve tratta tra le province emiliane: casa/lavoro in un’ora sola e sul treno non ci salgo mica subito, prima c’è l’automobile, poi, una volta scesa, divento ciclista, sperimentando così diversi mezzi di trasporto. Ho iniziato a scrivere il mio blog da pochi mesi perché ero stanca di prendere appunti su biglietti volanti, liste della spesa, taccuini, rubriche e quant’altro. E di appunti ce n’è sempre da prendere perché la gente m’interessa e, ad osservarla, si possono cogliere segni di originalità degni di nota, o scoprire una serena e tranquillizzante normalità, o un’inquietante ed allarmante banalità. E c’è da dire che noi pendolari, come oggetto di studio, offriamo il vantaggio di restare fermi nello stesso posto abbastanza a lungo per essere osservati».
C’è anche un retroscena tenero, nel blog di Katia…
«Le vicende di pendolari, poi, si trasformano nelle avventure di una viaggiatrice per la mia bambina di 5 anni che, a gran voce, quando torno a casa, mi chiede di quella volta che le porte del treno mi si sono chiuse sul naso, o quando il controllore mi ha risparmiato la multa sull’abbonamento scaduto… ammetto che qualche volta, per lei, invento».
Viaggiare in treno, osservare, riflettere e condividere. Katiasi è trasformata in blogger, anche a scapito di un’altra sua passione, la lettura in treno:
«L’appuntamento col blog ha trasformato un hobby in un impegno, così l’attività di osservatrice va a scapito di quella di lettrice, anche se di libri, in treno, ne ho letti molti. Potrei dire che il miglior libro da treno è quello che pesa poco, o che non produce sonore risate o copiose lacrime, ma fuori di battuta, se ne devo indicarne uno solo, mi sono entusiasmata per e con il protagonista tredicenne di Ci sono bambini a zigzag di David Grossman, che del treno fa un luogo d’incontro di personaggi meravigliosi e del viaggio una metafora di scoperta».
Dai miei “deliri umoristici”, dal mio viaggiare, osservare e scrivere in treno, è nato Dove finisce Milano, una raccolta di racconti che sono semplici bozzetti, caricature, esperimenti narrativi, messi su carta per valutarne l’effetto sul pubblico. Katia, con la sua penna fresca e, a volte, anche tenera, non è tentata da un libro?
«Ammetto di aver pensato a una raccolta dei miei post su Pendolante, magari da ciclostilare in cantina, ma ho scoperto diverse iniziative editoriali di altri che mi hanno preceduto. Ho iniziato a leggerle (e le proporrò) col timore di essere influenzata, ma ho scoperto che se gli episodi possono essere simili, è lo sguardo di chi scrive che è diverso. Così, non mi scoraggio e continuo a postare ciò che vedo. In futuro si vedrà».
Katia osserva, riflette, scrive: e la sera tutto diventerà una fiaba per la sua piccola. Mi piace immaginarmi quel momento dolce, quando i treni entrano in mondi dove tutto è possibile, perché il viaggio è sempre un’avventura che andrebbe raccontata.
Mi raccomando seguite il suo blog:
Parole da treno: quattro matrimoni e un funerale
Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di quelli che ritrovo in treno. Topo di campagna scende prima e le sue cronache milanesi sono proiezioni di una realtà che s’intravvede all’orizzonte, dove la skyline del Portello cresce di giorno in giorno.
Giù in centro, all’ombra del Duomo, regalano abbracci, mentre a piazza Affari offrono ceffoni. Un cardinale fa le valigie, un altro sta per arrivare.
Crisi nera, lavoro a rischio, tasse da pagare, Tremonti e Berlusconi che prelevano altri soldi ai soliti italiani: ma i sopravvissuti da Milano, i compagni di viaggio che potrebbero riportare testimonianze di guerra o di gloria dalla città, di che parlano?
Di matrimoni. Di questi tempi, l’argomento clou più ricorrente nella conversazioni da treno è un invito a nozze: di una cugina, di una nipote, di un’amica, di un collega. Settembre andiamo, è tempo di sposarsi, si potrebbe dire.
Sprofondata sul sedile, in fondo a destra, una neolaureata parla al telefonino di una festa imminente: da secchiona sciatta e timida si trasformerà in avvenente pescatrice di uomini. Perché a ogni matrimonio che si rispetti c’è sempre chi gioca le proprie carte nella seduzione d’ignari ex compagni di scuola dello sposo. L’elemento determinante, a quanto pare, non è la laurea, benedetto foglio di carta, bensì la scollatura che la ragazza descrive nel dettaglio all’amica in ascolto dall’altra parte del telefono. La strategia è fondamentale e va preparata in anticipo.
Poco più dietro, invece, si scatena il dibattito tra un ragioniere senza sex appeal ma con tanta bella pancetta e un’un impiegata con girovita e petto larghi due fermate di tram: parlano di antipasti, di tortini al formaggio e salmone in crosta, quelli divorati pochi giorni prima alle nozze di una cugina. M’immagino la loro storia d’amore: un ragioniere e un’impiegata uniti in un’unica palla di lardo, mentre si riempiono la bocca a vicenda a colpi di tagliatelle al ragù.
Non c’è privacy sul vagone affollato e nemmeno la si pretende: e così, accanto ai ciccioni, si rivelano segreti di un’altra corsa all’altare di settembre, si gettano nel vento le storie di due sconosciuti innamorati incappati in una notte di troppa passione e in un preservativo bucato. Tra risatine e battute di finto gossip, mezza carrozza sembra inebriata da quel fatto che non li riguarda, che non riguarda nessuno di loro. O forse sì.
“Una mia amica che non trova marito, ha invece scoperto l’amicizia di un fisioterapista”, rivela sottovoce un’altra pendolare alla compagna di viaggio. “E come è andata a finire?”
“Che il massaggio dura un quarto d’ora in più, senza preliminari, ma con una piccola aggiunta sulla tariffa oraria”. Il matrimonio che non c’è e la sua consolazione misera: più che un pettegolezzo, sembra una morbosa confessione, ma tutto il resto si confonde nel brusìo generale della carrozza.
E lì accanto, c’è anche un bancario che parla di un suicidio, un colpo di pistola alla tempia, esploso alla fine delle vacanze. Settembre è il mese dei matrimoni, agosto quello dei suicidi. Un collega se n’è andato con un gesto estremo, senza un perché. A quanto pare.
I treni tornano a riempirsi di odori, di corpi stanchi e di storie: nel lento procedere delle solite giornate, Milano sembra più o meno quella che m’immaginavo. E si parla di vita e di morte.
Un uomo solo al binario
Un uomo solo al binario, la sua giacca è grigio talpa, ma i primi raggi dell’alba la illuminano e le danno colore. Fermo come un lampione spento illuminato dal sole, guarda nel vuoto, mentre lo scampanellìo annuncia l’imminente arrivo del treno: quello delle 6,43, in ritardo come ogni giorno. Sta per sopraggiungere con quel cigolìo che lo fa sembrare un’antichità e con quelle carrozze polverose e i suoi sedili che odorano di cane bagnato.
Un uomo solo al binario, guarda nel vuoto e gli viene da piangere: perché non sa spiegarsi cosa ci faccia in quel posto, di sabato. Se n’è reso conto soltanto da un minuto, gettando l’occhio sul quotidiano appena acquistato. Tra i titoli sulle tragedie internazionali e le telenovele di governo ha scorto anche una notizia sul Milan, lì in prima pagina: e il Milan non gioca mai di venerdì. Sabato: il giorno che il pendolare dovrebbe santificare, mentre lui è lì, “a causa di un errore nelle procedure”, come direbbe un portavoce della Nasa per spiegare che il conto alla rovescia, prima di un lancio nello spazio, non si è fermato.
Una banalissima dimenticanza del giorno prima, una sveglia non spenta che, fedele al padrone, ha fatto il suo lavoro anche quando non doveva, anche di sabato: un doppio trillo, il primo subito spento con un rapido gesto, quello dopo, impietoso e puntuale, cinque minuti più tardi, senza possibilità di replica.
Quando la sveglia chiama in seconda convocazione, le procedure sono quelle accelerate: ma, dopo anni, anzi decenni di esperienza, tutto viene in automatico, tutto è parte di un meccanismo che non tradisce quasi mai. Doccia di 25” che rimane semifredda, strappa un corpo dal sonno e lo riempie di adrenalina: indumenti che quasi s’indossano da soli, mentre il rasoio elettrico passa su quel volto ancora rigato dal cuscino.
Uno scatto verso la cucina, dà giusto il tempo per un caffè bevuto a metà: con la procedura accelerata, tocca berlo bollente, non c’è il tempo per farlo raffreddare. Il primo sorso va giù lo stesso, il resto lo si abbandona nella tazzina, mentre si cerca di rianimare la lingua ustionata.
Un uomo solo, come ogni giorno, si è scaraventato fuori di casa verso il binario, con il colletto della camicia stropicciato e segni di dentifricio sulle labbra: è salito in macchina e si gettato in una strada, stranamente deserta. Una lunga striscia verso l’orizzonte arancione, da dove il sole stava per sorgere. Ma la poesia non è roba da giorni feriali, lui aveva la testa già al parcheggio della stazione. Solito posto auto, scelto con cura, dopo anni di frequentazione del luogo: l’angolo ideale per guadagnare quella manciata di secondi che gli consente di raggiungere l’edicola, prima di salire sul treno.
Tutto calcolato, come un domino, ma il treno è in ritardo. Fatto che si ripete ogni volta, ma fuori controllo, che destabilizza, manda in bestia e, a caldo, fa tirare un boiavacca verso il cielo.
Un uomo solo al binario, ora, ha il tempo per pensare: “ho perso due ore di sonno, adesso che faccio?”. C’è un treno cigolante, polveroso e puzzolente che si sta avvicinando, ma non è quello di ieri: è, invece, lo stesso che, da bambino, vedeva passare con suo padre, la domenica. “Ohh, quanto è bello il treno, quanti vagoni ha il treno!” Questo sì, è uno vero, ma poi si andava di corsa a casa, a far girare quello in miniatura, dentro una stanzetta piena di giochi.
Il 6 e 43 in ritardo è fermo in stazione e un uomo solo al binario sceglie di salirvi sopra, mentre i merli cinguettano già alla primavera: c’è una carrozza enorme tutta da conquistare.
C’è aria di fiaba, senso di libertà, lì dentro, mentre il treno riparte: destinazione Milano per un pendolare che, quando è sabato, gli sembra di viaggiare gratis. Che gran città è Milano, di sabato.
Pochi minuti e gli sembra di volare sospeso nel cielo, sul ponte altissimo, che da Vergiate porta a Somma Lombardo: giù in fondo, c’è il monte Rosa che oggi il sole dipinge davvero di rosa. Pensare che ieri, quell’uomo solo, non l’aveva proprio notato. E in basso, guardando dalla carrozza sul ponte, una distesa verde, un immenso bosco si perde fino all’orizzonte che è seghettato di montagne.
“Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva” (F.Guccini)
Zorro e una “benedetta” scarpa made in India
Zorro, pendolare che sogna. Ha la mascherina per non vedere, per non rassegnarsi allo spazio stretto e deprimente di una carrozza, per darsi una speranza nel sonno. All’alba è il primo a salire sul treno, quando la stazione è ancora sovrastata dalla luna che tramonta: scatto felino per il posto migliore, quello non troppo vicino alle porte, lontano dagli scocciatori che, sul locale del mattino, di solito hanno le sembianze di segretarie affrante e in acido con le suocere, pettegole interregionali, turisti al primo giorno di ferie, nonni con bambini fuori orario e pertanto in euforia molesta. Tutta gente che, insomma, non ha motivi per tacere e parla, blatera, irrita, emette suoni di ogni tipo: umanità che non apprezza il valore di un’ora di sonno.
Zorro, invece, si affida a quella mascherina sgraffignata all’Alitalia durante un viaggio aereo aziendale, roba di molti anni fa. Si siede e si nasconde sotto quella pezza sintetica, nera: e lì dietro immagina spazi di un’altra realtà. Ma a ogni fermata, in viaggio per Milano, c’è sempre qualche scocciatore che osa violare quella sua dimensione onirica. Il lunedì mattina, poi, tiene banco il campionato: e non c’è carrozza che non abbia un angolo di opinionisti sul 4-4-3 e su Benitez.
Zorro si spazientisce, prova a farsi valere, non con la spada, ma a colpi di “ssssst”. Niente da fare. Passa, allora, alla sbuffata energica, alla mimica facciale, alla mimica corporale. Infine, gesto estremo, emette un “basta, silenzio!”. Così temibile da ottenere una risata.
Alternative? Tappi nelle orecchie o i-pod acceso su un concerto di Vivaldi. Zorro sceglie i tappi: e la musica ha deciso di sognarsela. Più economico, di questi tempi. La riconquista della fase rem non è più un miraggio: fermata dopo fermata, lo stridìo dei freni e la ripartenza si fanno sempre più ovattati. Busto, Legnano, Canegrate, Parabiago, fermate sbiadite, come viste da una nuvola. Fino a immergersi in un altro mondo: un ufficio con vista spiaggia, palme e pappagalli ai lati, poltrona ergonomica e massaggiante, assistenti e colleghe in bikini, capufficio dalle sembianze di Pamela Anderson, caipiriña servita alla scrivania, olio di cocco da spalmare contro lo stress da precariato, sindacalisti con l’ukulele, braccialetto all-inclusive per il servizio mensa rigorosamente vista mare, corso di balli caraibici retribuiti come aggiornamenti professionali. Peccato soltanto per quella strana sensazione sotto il piede destro: come se, in tutto quel “lavorare”, avesse lasciato il piede troppo tempo sulla sabbia calda.
«Capolinea!». Anche i tappi lasciano filtrare la voce della realtà. Pronti, via: non c’è tempo da perdere se si vuol saltare al volo sul metrò e timbrare in orario, su, al quinto piano di un palazzo del centro. Zorro ha già riposto la mascherina nella valigetta e, come un don Diego qualsiasi, si appresta allo scatto giù, sul marciapiede, quando… «La scarpa! Sabotaggio». Come l’effetto cicca bomba sull’asfalto in un giorno di luglio, la suola mollemente si affloscia tristemente sullo zoccolino laterale della carrozza, quello del riscaldamento: rovente, come il nocciolo di un reattore nucleare. Il mistero dei vecchi treni è in quegli zoccolini laterali, capaci di sopportare temperature da alto forno, in grado di trasformare un vagone in una sauna. Mezza suola rimane lì, il resto si prende libertà impensabili e impreviste, modellando una triste scarpa made in India, come una canoa. Zorro è un uomo senza più rincorsa, con il metrò ormai perduto e il ritardo irreparabile. Zoppicando, ancora sul treno, scorge in fondo, come fosse in un deserto, il capotreno, di spalle: lo raggiunge, inviperito con il mondo, ma con qualcuno a tiro cui dare addosso. «Ma che razza di treni! Roventi da far sciogliere le scarpe! Chiederò i danni». La sagoma in divisa Fs e cappello rosso si volta: Pamela Anderson, in persona, scollatura compresa. «L’ufficio reclami è sul molo in fondo alla spiaggia, signore».
Topi di campagna, imbarcatevi!
Non più un binario, bensì un molo. Un giorno, che ancora è prematuro definire bello o brutto, un topo salirà su un pontile e si metterà in viaggio. Destinazione Milano centrale. Già, la terza via sarà il futuro: non a destra, non a sinistra, ma sull’acqua, galleggiando a seconda della corrente. E ci si ricorderà di un illuminato arciduca che, in tempi non sospetti, l’aveva detto e fatto, il gran progetto: «L’imperatore ci taglia i fondi, noi fermiamo i treni. Anzi, li renderemo più cari di un volo Alitalia». E così fece.
Tuttavia l’arciduca, memore dei fasti di un predecessore, tal Giangaleazzo del Biscione, pensò che fosse immorale tagliar ogni comunicazione tra la provincia e la sua Milano, sua in quanto signore di tutta la regione, benché feudo di una dama dal cuor gentile che, tuttavia, l’arciduca sospettava di lei quale perfida megéra.
E così, mentre alla corte romana l’imperatore s’intratteneva con saltimbanchi, nani, giullari, giocolieri, ballerine e cortigiane, il savio arciduca progettava il futuro, attorniato dai gran visir dell’urbanistica e dalle confraternite più laboriose, fedele al voto di castità ed estraneo a qualsivoglia pensiero lubrìco. Viva Leonardo, che per primo ci pensò e viva l’arciduca che secoli dopo ci ripensò. E per realizzare tal progetto, mise a dimora, dapprima, intere piantagioni di alberi degli zecchini d’oro. Interrava il magro contributo dell’imperatore e ne traeva frutti rigogliosi, svariati milioni di zecchini.
E di quel tempo, ancora si racconterà di quell’imprudente funzionario che, al cospetto dell’arciduca, volle sottoporre una questione: «Mio signore, i treni sono al collasso, si fermeranno presto. Tutto va in rovina, benché il popolo chieda i treni… Non sarebbe più opportuno, qualora lo ritenesse, che i frutti degli alberi degli zecchini vengano impiegati per i treni, anziché per i canali?».
Ma la risposta dell’arciduca non si fece attendere, dura, ma illuminata: «Taci tu che i trasporti non sai nulla. La via d’acqua, la terza via, sarà la panacea di tutti i mali di questa città e della mia regione. Così l‘imperatore vedrà, lui che non mi volle a Roma, di quale maestrìa sono capace». Il funzionario degradato a mozzo non parlò mai più.
E quel topo di campagna sarà là con il suo computerino portatile a scrivere aggrappato a un pontile, a bordo di un meraviglioso barcone: placido, il Naviglio, ispirerà ben altre storie e poesia di un modesto, arrugginito e puzzolente binario… morto.
Esercizi di resistenza quotidiana
Sì, dai, basta silenzio. Un topo di campagna, dal basso della sua costituzione, non può certo tirarsela e diventare snob. Se la narrativa tace, da quando Nebbia è partito con il circo, un blog, o meglio un controblog, non può non comunicare.
Se oggi non hai un blog non sei nessuno, almeno sembra: proprio per questo avevo pensato a un controblog. Se i blog sono quasi sempre fiction camuffati presuntuosamente da realtà, sembrava giusto far sapere fin da subito che un topo altro non poteva che scrivere di finzione verosimile. Ma questo pallino del controblog ha poi finito stupidamente per prendere una piega sbagliata: se il blog è comunicazione, il controblog stava diventando silenzio. Ma allora, che ci sto a fare qua dentro, a occupare preziosi spazi virtuali? Lo spazio sul web è un privilegio che un roditore pendolare non può permettersi di sprecare. Si torna a viaggiare, un inverno è alle porte, come sempre in mezzo ai pendolari trafelati, a mille, centomila vite che s’incrociano e si sfiorano per un istante, qualche minuto, un’ora, su un treno o su un autobus. Direzione Milano metropoli, il gran Milan che tutto ingloba, hinterland compreso, ma che si distingue da un altro mondo che sta fuori, la provincia ipocrita e un po’ invidiosa, un enorme dormitorio che si anima soltanto poche ore, la sera e la mattina, il sabato, la domenica e le feste comandate.
E nei pochi spazi di libertà, dentro e fuori la metropoli, si lotta ogni giorno contro l’alienazione. Altro che silenzio! Un controblog, scritto da un topo, non può che essere un esercizio di resistenza quotidiana. Anche quando non c’è poesia. Ma stasera, sul locale per Varese, la poesia c’è: si chiama Mario e ha quattro anni, dorme profondamente sulla spalla della mamma. Lei cerca di svegliarlo, in vista della loro fermata, ma il piccolo Mario dorme e sogna chissà quale mondo: lontano da tutto, dalla mediocrità di noi adulti e dalla monotonia dei pendolari. Anche questo è un piccolo, grande, gesto di resistenza.
Scelte evangeliche del prete di oggi
Povertà, obbedienza, castità. Zac, l‘ex sindacalista di Cantù, canticchia: “Te vist cusè? Un vescovo! Ah bé sì bé, dai dai cunta su”. Il cardinale predica laggiù in centro, all’ombra del duomo. Anzi, ha già prodotto un probabile best seller. In libreria e in conferenza stampa pare che gli uomini siano tutti uguali. E anche nella predica del cardinale. Davanti a chi? A Dio. E i preti sono più uguali degli altri. “Ma non di fronte a un capotreno“, pensa tra sé Khaled, muratore senegalese con il broncio davanti all’imperturbabile Concetta, la capotreno, che l’ha scovato senza biglietto. Non ha i soldi né per l’abbonamento, né per altro, Khaled, ma sui treni ci sale lo stesso perché non sa come fare per arrivare al cantiere in orario, giù dove si lavora ai grattacieli. Preferisce correre il rischio e puntare sull’inefficienza del servizio delle ferrovie, punta tutto sulla carenza di personale. Ma quando sul treno c’è uno straccio di controllore è spacciato: mai che chiedano il biglietto a un prete, lo vanno a cercare da lui, che la risposta alla sua povertà la sente ogni giorno: “Tornatene a casa, negher”.
Povertà, obbedienza, castità. E intanto Fatima torna dalla giornata passata a studiare in Cattolica e sa che dovrà passar l’esame di teologia per rimanere in media. Ieri, dopo la lezione, al gruppo di preghiera, qualcuno l’ha pure criticato, il vescovo… «Ma è fin troppo comunista, questo qui», perché secondo loro il Vangelo non va letto, va prima interpretato. Fatima è d’accordo, ma da tre settimane in crisi, non sa che fare, forse non lo dirà nemmeno in confessione: «Ho avuto un pensiero impuro», confida al cielo a mani giunte, come se il Cielo non lo sapesse già e non la vedesse con quella faccia smorta da paura dell’inferno, quando invece è soltanto un’anima in pena su una carrozza viaggiatori. Anche sta storia della castità che aiuta ad amare non l’ha mai capita, ma preferisce non aggiungere altri pensieri impuri. Certe cose non si pensano. E se si fanno, non si dicono. Ma sono cose che non la riguardano, per lei la castità non è una questione di scelta.
Povertà, obbedienza e castità. E lì sul vagone c’è Pino che costruisce ascensori, anzi pezzi di ascensori in periferia di Milano. Da quando l’azienda è in crisi non lavora più di notte e prende pure il treno. Come un colletto bianco. Eppure ha lo stomaco contratto per la rabbia: per buon senso vorrebbe produrre più pezzi, ma i capi hanno detto che non si può. Lui che aveva il record del reparto, si sente a mezzo servizio. Le consegne sono in ritardo, ma i manager preferiscono rallentare, “per far pagare un po’ lo Stato, per fare qualche porcheria in più”, pensa. Obbedisce, anche Pino.
Fa caldo sul treno delle sei, che sembra viaggiare dentro il sole, il cielo quasi non ha colore, è una nuvola di favore, ha una sua consistenza, come la cotta bianca di un prete indossata in una sauna. Anche Zac, l’ex sindacalista ha cantato nel coro di don Saverio, molti anni fa.
“E sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”
Aria condizionata
Il segno del progresso non è bene nasconderlo. Sui treni, in particolare, quando c’è tecnologia, quelli delle ferrovie dello stato la ostentano: e così, l’aria condizionata che non funziona mai, quando invece funziona, viene sparata a zero gradi come un vento di tormenta su pancini scoperti di decine e decine di pendolari, tra i quali anche ex majorettes che si ostinano a mostrare l’ombelico. Tutto è apparenza, in una società di viaggiatori, e di questi tempi l’apparenza passa anche per la scollatura “golfo ligure” e la vita bassa “rigatanga”. Ma in un frigorifero, anche la più sgamata tra le la pendolarsoubrette è un animale a rischio.
Treno ad alta frequentazione, ovvero, pieno come un uovo: il localaccio per Varese, da qualche tempo si è rifatto il look, a cominciare da questo nome ad effetto. L’alta frequentazione porta a una condivisione totale per un tempo variabile quotidiano di: titoli e didascalie di quotidiani, suonerie telefoniche, confidenze riservate e piccanti al telefono, pettegolezzi sulle suocere, odori animaleschi, deodoranti afrodisiaci, peti malcelati, aliti da notti brave, rumori corporei di ogni tipo, fino alle pulci e altre bestiole gentilmente ospitate …
E così, sul Varese dell’ora di punta, capita spesso di vivere promiscuità impreviste con nemici del sapone, oppure con uomini/bufali da traversata del deserto. Soltanto in rari casi, tuttavia, capita di vivere esperienze memorabili con sacerdotesse di lambada: e in quei giorni da grande occasione, vorresti che il treno ci mettesse una vita ad arrivare a casa. La normalità è il treno in ritardo spinto dalle parolacce di chi ci sta sopra, ma quando ci si trova a tu per tu con la Jessica Rabbit della quinta carrozza capita anche di dimenticare il tempo che sfugge…
Ma un giorno infausto, una sera nel freezer su rotaia, un sogno s’infrange contro una porta sempre chiusa, quella della toilette. Fuori trenta gradi umidissimi, tutti assorbiti da un corpo sofferente e un po’ sformato sulla banchina della stazione, dentro ci sono i pinguini pronti a ricordarti che, la prossima volta, è meglio non mangiarsi la peperonata a pranzo, quella che resta per ore ed ore allo stato magmatico nel pancino di ognuno. E il vulcano islandese, a confronto, è innocuo.
Tu fuori con l’ascella unta, mentre là dentro nello scompartimento, c’è lei, Jessica tutta curve, accanto ai pinguini: e, incurante dei possibili rischi, giochi il tutto per tutto e vai a metterti proprio tra lei e i pinguini a dieci centimetri dalle sue curve. Ha il viso abbronzato lei, ma non ci fai caso perché preferisci ripassare una lezione di anatomia, grazie a un vestitino a guaina che risparmia tessuto ovunque. Come una regina della lap dance, è avvinghiata al palo centrale dello scompartimento, quello che fa da sostegno ai pendolari temerari che sfidano il macchinista più brusco del west. E a meno di dieci centimetri da quella fantasia collinare c’è la tua mano, nella speranza che la frenata sia più brusca del solito…
L’illusione di una favola, sul treno freezer, tuttavia, dura meno di una fermata: la peperonata si ripropone in maniera subdola. Vorresti aver dato retta a tua madre, la predicatrice della canottiera di lana sempre e comunque, ma hai preferito far di testa tua: e ora sei lì, di fianco a una creatura che la natura ha disegnato come un rigoglioso bassorilievo barocco, ma con un dramma che prende forma dentro di te. Lo stomaco ti si contrae e sul viso ti appare tutta la tensione del momento che precede una tragedia: ma come farà lei, con tutta quella carne al fresco, a non mostrare nemmeno un po’ di pelle d’oca?
La via di scampo è troppo lontana: la intravedi giù in fondo alla carrozza, dietro a una porta blu con la scritta wc. Porta sempre e irrimediabilmente chiusa per guasto: lì, avvinghiato a quel palo gelato, con la tormenta che fa imbizzarrire la peperonata, ti senti spacciato. Vorresti essere un bimbo che, con innocenza, vive la colichetta con disarmante naturalezza: strilla un po’, ma poi sonoramente si libera… Tu, invece, non hai scampo e vorresti scomparire da lì, da quella posizione favorevole con panorama da urlo: ma dove andare? È tutto pieno su questa carrozza.
E il treno si avvicina a quella curva con semaforo, dopo la stazione di Rho, quella che tante volte hai stramaledetto per via della frenata da ribaltamento che, puntualmente, il macchinista ti regala. Un colpo sordo, gente che sobbalza sulla carrozza e lei, Jessica, che come una pantera ti finisce addosso con tutta la sua perfezione rotonda. Nel giorno e nel momento sbagliato. Lei dice “mi scusi” e tu sommessamente tossici cercando di soffocare tutto il resto. Un colpo di tosse per mascherare l’irrimediabile fine del sogno.