Storie da treno: la leggenda di un venditore di polipropilene

Polipropilene, l’invenzione del secolo, quella che gli porta il pane. E quel senso di potere su bambini, burattinai e giocattolai: un potere da riempirsi le tasche di caramelle. Come una sorta di cleptomania da dolci. L’ultima volta aveva ceduto proprio nell’ufficio del giocattolaio, il suo miglior cliente: un attimo di distrazione generale e zac, si era già riempito mani e tasche di gommose alla frutta, tanto gli sembravano lì per lui. E per chi sennò?
Rughe seminascoste da una barba spelacchiata, come il più randagio tra i gatti, a colorare di grigio un volto che, per ogni istante in cui gli balena un pensiero folle, si colora a festa, seguito da una risata secca tipica del venditore che ha fumato parecchio. Vendere polipropilene è come vendere la rivoluzione del Novecento: “Ci fai tutto: a cominciare da palette e secchielli, formine e racchettoni, e tanto altro, tutto quanto fa giocare i bambini d’estate” e ghigna da solo, sulla carrozza di un treno che lo porta, appunto, dal cliente prediletto: l’ultimo giocattolaio, l’ultimo donatore di sogni in un’Italia che ha smesso di giocare con la fantasia più innocua.
Tra i pendolari, sghignazza e pensa a un’offerta da mettere sul tavolo: si beccherà del pirla, pirla a ripetizione, lo farà sbraitare il giocattolaio, ma alla fine il prezzo lo decide lui. O così, o la Cina: il suo polipropilene muove un’economia, ma non la strozza. Non fa comodo a nessuno, a cominciare dalla sue tasche piene di caramelle.
Sacchi, bancali di polipropilene: lui ridacchia e l’altro, il giocattolaio, mugugna e già pensa a una nuova invenzione, a qualcosa da provare sul mercato. Un mercato che dipende dai sorrisi dei più piccoli, dalle loro manine protese verso oggetti colorati, dai loro occhietti illuminati a tal punto da far cedere mamma e papà. Egli, il venditore spelacchiato, si nutre della debolezza dell’ultimo giocattolaio, di quella tenerezza che, già sa, gli farà guadagnare a monte. E lascia sfogare il suo cliente, si prende del pirla e, una volta fuori dall’ufficio festeggia, con le caramelle che strabordano dai pantaloni e una stravaganza improvvisata: una bella verticale, fatta lì sulla strada, appoggiato alla saracinesca di un negozio. Come il più folle tra i giullari: a 65 anni, gli riesce ancora bene e se ne vanta spesso, anche coi clienti che gli danno del pirla. Ma che gliene importa, ha già il contratto firmato e il biglietto di ritorno, su quel treno in cui ridono in pochi. Chissà perché si ride così poco sui treni, pensa ogni volta. Dal giocattolaio, invece, si ride eccome, anche se amaramente, mentre fa la verticale e scatena litanie di “se l’è, matt?” dalle labbra di pettegole di paese nascoste dietro le persiane.
Il contratto è firmato, il giocattolaio è ai suoi piedi, anche se gli ha dato trenta volte del pirla. Sul treno, ora, eccolo là, è risalito al suo posto, ma dentro a un vagone che non ride: e, allora, gracchiando come una cornacchia, con la rapidità di un felino, balza a testa in giù in grande equilibrio, nel corridoio della carrozza, sul treno lanciato a gran velocità. Occhi sgranati, applausi e sorrisi. Compresi quelli della procace signora, scollacciata e accaldata, seduta lì accanto: era triste e annoiata, dentro alla sua abbondanza, ora ride, sì ride proprio come sperava lui… il venditore della rivoluzione.
«Dovrebbe passare col piattino, ora, a raccogliere monete» si allarga la signora.
«No, mi basta molto meno. Lei avrebbe qualche caramella?» domanda lui, con lo sguardo che indugia non alle sue grazie, bensì alla sua borsetta.
«Certo, gommose alla frutta, ma è roba che piace ai bambini»
«Non si preoccupi, sono perfette. Sentivo che c’era del feeling, tra me e lei». Complicità di sguardi, pensieri impuri che durano un istante, ma già pregusta il vizio che, questione di un minuto, andrà a consumare.

L’apparenza non inganna, convince

Milano col sole, anche a Natale, eppure non mi entusiasma. Il cielo longobardo, così bello quando è bello, non mi piace perché è pur sempre offuscato dalle flatulenze della metropoli. Rubo l’idea a un grande scrittore che si chiama Bianciardi, ma io topo di campagna sono e sorcio resto, anche a fine anno, abituato a sgraffignare croste, in mezzo a tutta questa gente imbellettata, che scondinzola da un negozio all’altro. Anche la stazione è diventata un centro commerciale: e pare che oggi non si riesca a partire senza prima comprarsi un paio di mutande o un reggiseno, a giudicare dalla gran quantità di negozi di lingerie, in Centrale. Io, sorcio di campagna, le mutande me le compro al mercato, anzi me le faccio comprare, perché quando c’è mercato, su al paese, io sono in città a lavorare: sono fuori moda, ma pazienza, alla stazione vado a prendere il treno e basta.
A fine anno, è tempo di esercizi di memoria e pensieri: ma devono essere per forza politically correct, altrimenti il mondo non ti prende nemmeno in considerazione. A meno che non sei talmente bravo a sparar cazzate, da risultare molto originale e, quindi, di tendenza. Mentre si celebrano i funerali di Giorgio Bocca, la città si esibisce in tutto questo: Bocca, chi era costui? Un italiano. E come tutti gli italiani veri ha vissuto a cavallo di contraddizioni e contrasti, a volte sbagliando, altre volte facendo discutere. E questo è il pane dei tanti crapapelada che, sui seggioloni in pelle di una redazione, trovano spunto parlar di sé, al cospetto del morto. Un po’ come fanno i corvi con le carcasse…
Ma topo, come sei duro, oggi… direte voi. È il pensiero ai crapapelada che più mi manda in bestia: quelli che parlano di crisi con la tredicesima da cinquemila euro e fanno i giornali a colpi di comunicati stampa. Quelli che non è mai colpa loro, sono incapaci, ma ben referenziati. Ma come fa un sorcio, ultimo nella scala gerarchica del pollaio, a diventare un rivoluzionario? L’apparenza è tutto? A volte, penso di sì: ieri per esempio, sui sedili del mio solito scompartimento eravamo in tre, ognuno a pochi centimetri dall’altro. C’ero io, sfatto e pulcioso, e di fronte a me c’era un tenebroso trentenne con la faccia da fotomodello: la mia era barba sfatta, la sua di tendenza, la mia cresta era da stravolto, la sua era di moda. Giacca firmata, i-pad, i-phone e un gran portamento per tenere in mano tutti quei gioielli tecnologici e, al tempo stesso, guardare l’orizzonte (in fondo al treno o chissà) dall’alto di una cassa toracica da palestrato. E accanto, il terzo viaggiatore era una bionda signorina, che sembrava uscita da un sogno: l’occhio azzurro, il corpo da favola, la rendevano la studentessa perfetta per qualsiasi poeta. A un certo punto, alle porte della stazione di Gallarate, si diffonde un odore inequivocabile, pungente, intenso, imbarazzante. Da dietro le mie letture, alzo lo sguardo e fisso lui: tanto lo so che sei stato tu a scorreggiare, ho una gran voglia di dirgli. Mentre lui, fiero del suo apparire, resta impassibile, nel suo ruolo di cavaliere senza macchia. E, al tempo stesso, penso: ecco, la bionda signorina si sarà fatta l’idea più facile, al sorcio avrà attribuito le colpe della perfida loffa, non certo al manager trendy. Insomma, la mia platonica storia d’amore era già finita lì, al gioco di sguardi: per colpa delle apparenze.
Poi, però, scendendo dal treno, dopo aver cercato invano d’incrociare per l’ultima volta lo sguardo della signorina, mi è sopraggiunto un dubbio. E se fosse stata lei? Compra la lingerie in stazione, mia bella, ma se lasci il pancino troppo al vento… zac. Insospettabile, a detta delle apparenze: ma le apparenze sono tutto, in questo mondo e, alla fine, mi rassegno ad abbandonare la carrozza con appiccicato addosso il titolo di scorreggione.
Ecco, forse la rivoluzione di un topo di campagna deve cominciare da lì: dallo smascherare le apparenze, quelle apparenze che sembrano contare più della sostanza dei fatti. Anche tra un viaggio in seconda classe e una corsa su una scala mobile guasta, c’è molta apparenza: poi, però, a fine giornata, ci si ritrova nella tana, con la voglia di ripensare a tutto quanto, con la voglia di guardare oltre. Forse questo blog è troppo stretto, è ora di fare un passo avanti.

Parole da treno: quattro matrimoni e un funerale

Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di quelli che ritrovo in treno. Topo di campagna scende prima e le sue cronache milanesi sono proiezioni di una realtà che s’intravvede all’orizzonte, dove la skyline del Portello cresce di giorno in giorno.
Giù in centro, all’ombra del Duomo, regalano abbracci, mentre a piazza Affari offrono ceffoni. Un cardinale fa le valigie, un altro sta per arrivare.
Crisi nera, lavoro a rischio, tasse da pagare, Tremonti e Berlusconi che prelevano altri soldi ai soliti italiani: ma i sopravvissuti da Milano, i compagni di viaggio che potrebbero riportare testimonianze di guerra o di gloria dalla città, di che parlano?
Di matrimoni. Di questi tempi, l’argomento clou più ricorrente nella conversazioni da treno è un invito a nozze: di una cugina, di una nipote, di un’amica, di un collega. Settembre andiamo, è tempo di sposarsi, si potrebbe dire.
Sprofondata sul sedile, in fondo a destra, una neolaureata parla al telefonino di una festa imminente: da secchiona sciatta e timida si trasformerà in avvenente pescatrice di uomini. Perché a ogni matrimonio che si rispetti c’è sempre chi gioca le proprie carte nella seduzione d’ignari ex compagni di scuola dello sposo. L’elemento determinante, a quanto pare, non è la laurea, benedetto foglio di carta, bensì la scollatura che la ragazza descrive nel dettaglio all’amica in ascolto dall’altra parte del telefono. La strategia è fondamentale e va preparata in anticipo.
Poco più dietro, invece, si scatena il dibattito tra un ragioniere senza sex appeal ma con tanta bella pancetta e un’un impiegata con girovita e petto larghi due fermate di tram: parlano di antipasti, di tortini al formaggio e salmone in crosta, quelli divorati pochi giorni prima alle nozze di una cugina. M’immagino la loro storia d’amore: un ragioniere e un’impiegata uniti in un’unica palla di lardo, mentre si riempiono la bocca a vicenda a colpi di tagliatelle al ragù.
Non c’è privacy sul vagone affollato e nemmeno la si pretende: e così, accanto ai ciccioni, si rivelano segreti di un’altra corsa all’altare di settembre, si gettano nel vento le storie di due sconosciuti innamorati incappati in una notte di troppa passione e in un preservativo bucato. Tra risatine e battute di finto gossip, mezza carrozza sembra inebriata da quel fatto che non li riguarda, che non riguarda nessuno di loro. O forse sì.
“Una mia amica che non trova marito, ha invece scoperto l’amicizia di un fisioterapista”, rivela sottovoce un’altra pendolare alla compagna di viaggio. “E come è andata a finire?”
“Che il massaggio dura un quarto d’ora in più, senza preliminari, ma con una piccola aggiunta sulla tariffa oraria”. Il matrimonio che non c’è e la sua consolazione misera: più che un pettegolezzo, sembra una morbosa confessione, ma tutto il resto si confonde nel brusìo generale della carrozza.
E lì accanto, c’è anche un bancario che parla di un suicidio, un colpo di pistola alla tempia, esploso alla fine delle vacanze. Settembre è il mese dei matrimoni, agosto quello dei suicidi. Un collega se n’è andato con un gesto estremo, senza un perché. A quanto pare.
I treni tornano a riempirsi di odori, di corpi stanchi e di storie: nel lento procedere delle solite giornate, Milano sembra più o meno quella che m’immaginavo. E si parla di vita e di morte.

Un uomo solo al binario

Un uomo solo al binario, la sua giacca è grigio talpa, ma i primi raggi dell’alba la illuminano e le danno colore. Fermo come un lampione spento illuminato dal sole, guarda nel vuoto, mentre lo scampanellìo annuncia l’imminente arrivo del treno: quello delle 6,43, in ritardo come ogni giorno. Sta per sopraggiungere con quel cigolìo che lo fa sembrare un’antichità e con quelle carrozze polverose e i suoi sedili che odorano di cane bagnato.
Un uomo solo al binario, guarda nel vuoto e gli viene da piangere: perché non sa spiegarsi cosa ci faccia in quel posto, di sabato. Se n’è reso conto soltanto da un minuto, gettando l’occhio sul quotidiano appena acquistato. Tra i titoli sulle tragedie internazionali e le telenovele di governo ha scorto anche una notizia sul Milan, lì in prima pagina: e il Milan non gioca mai di venerdì. Sabato: il giorno che il pendolare dovrebbe santificare, mentre lui è lì, “a causa di un errore nelle procedure”, come direbbe un portavoce della Nasa per spiegare che il conto alla rovescia, prima di un lancio nello spazio, non si è fermato.
Una banalissima dimenticanza del giorno prima, una sveglia non spenta che, fedele al padrone, ha fatto il suo lavoro anche quando non doveva, anche di sabato: un doppio trillo, il primo subito spento con un rapido gesto, quello dopo, impietoso e puntuale, cinque minuti più tardi, senza possibilità di replica.
Quando la sveglia chiama in seconda convocazione, le procedure sono quelle accelerate: ma, dopo anni, anzi decenni di esperienza, tutto viene in automatico, tutto è parte di un meccanismo che non tradisce quasi mai. Doccia di 25” che rimane semifredda, strappa un corpo dal sonno e lo riempie di adrenalina: indumenti che quasi s’indossano da soli, mentre il rasoio elettrico passa su quel volto ancora rigato dal cuscino.
Uno scatto verso la cucina, dà giusto il tempo per un caffè bevuto a metà: con la procedura accelerata, tocca berlo bollente, non c’è il tempo per farlo raffreddare. Il primo sorso va giù lo stesso, il resto lo si abbandona nella tazzina, mentre si cerca di rianimare la lingua ustionata.
Un uomo solo, come ogni giorno, si è scaraventato fuori di casa verso il binario, con il colletto della camicia stropicciato e segni di dentifricio sulle labbra: è salito in macchina e si gettato in una strada, stranamente deserta. Una lunga striscia verso l’orizzonte arancione, da dove il sole stava per sorgere. Ma la poesia non è roba da giorni feriali, lui aveva la testa già al parcheggio della stazione. Solito posto auto, scelto con cura, dopo anni di frequentazione del luogo: l’angolo ideale per guadagnare quella manciata di secondi che gli consente di raggiungere l’edicola, prima di salire sul treno.
Tutto calcolato, come un domino, ma il treno è in ritardo. Fatto che si ripete ogni volta, ma fuori controllo, che destabilizza, manda in bestia e, a caldo, fa tirare un boiavacca verso il cielo.
Un uomo solo al binario, ora, ha il tempo per pensare: “ho perso due ore di sonno, adesso che faccio?”. C’è un treno cigolante, polveroso e puzzolente che si sta avvicinando, ma non è quello di ieri: è, invece, lo stesso che, da bambino, vedeva passare con suo padre, la domenica. “Ohh, quanto è bello il treno, quanti vagoni ha il treno!” Questo sì, è uno vero, ma poi si andava di corsa a casa, a far girare quello in miniatura, dentro una stanzetta piena di giochi.
Il 6 e 43 in ritardo è fermo in stazione e un uomo solo al binario sceglie di salirvi sopra, mentre i merli cinguettano già alla primavera: c’è una carrozza enorme tutta da conquistare.
C’è aria di fiaba, senso di libertà, lì dentro, mentre il treno riparte: destinazione Milano per un pendolare che, quando è sabato, gli sembra di viaggiare gratis. Che gran città è Milano, di sabato.
Pochi minuti e gli sembra di volare sospeso nel cielo, sul ponte altissimo, che da Vergiate porta a Somma Lombardo: giù in fondo, c’è il monte Rosa che oggi il sole dipinge davvero di rosa. Pensare che ieri, quell’uomo solo, non l’aveva proprio notato. E in basso, guardando dalla carrozza sul ponte, una distesa verde, un immenso bosco si perde fino all’orizzonte che è seghettato di montagne.

“Ma intanto corre, corre, corre la locomotiva
e sibila il vapore e sembra quasi cosa viva” (F.Guccini)

Hotel stazione

Sono le 23 e Zoran guarda su, dal parcheggio verso i binari e la stazione. C’è l’ultimo treno che scarica tre sagome imbacuccate, raggiungono le rispettive auto ghiacciate sotto il lampione, all’uscita del sottopassaggio. Motori accesi per qualche minuto, quanto basta per sbrinare il parabrezza. E se ne vanno. L’ondata dei pendolari è finita, anche oggi.
Si torna a udire solo il vento, gelido, che trasporta fiocchi di neve. Zoran, allora, accende il fuoco: rami trovati nel boschetto lì vicino e ammucchiati in un angolo del parcheggio deserto. Si scalda le mani piene di calli, gonfie di freddo e lavoro, dopo una giornata passata in cantiere, a fare il cemento. A fargli compagnia, a profumare l’aria, anche una salsiccia, che cuoce su quello stesso fuoco, e un po’ di caffè solubile e fumante. L’ora di cena dura il tempo di far diventare brace quella poca legna: Zoran la raccoglie, poi, in una vecchia scatola di metallo, come quelle che le nonne utilizzavano per i biscotti. E la mette in auto, una vecchia Skoda, dove s’infila pure lui, velocemente. La brace diventa scaldino, in quella notte severa, sì, ma non quanto quelle a cui era abituato negli inverni in Ucraina. Zoran vi appoggia i piedi e intanto accende il motore: deve razionare il carburante, per farlo durare tutta la settimana. Ha calcolato che il riscaldamento può permetterselo per venti minuti circa, ogni sera, così non rimane a secco. Tra maglioni e vecchie coperte, abbassa il sedile e si appresta a sognare, in fondo a un parcheggio.
Un istante più tardi, due occhi illuminati, in fondo alla strada, si avvicinano sempre più: Zoran apre appena gli occhi, ma non ha paura, è una scena alla quale è abituato. Sa che in quell’auto c’è Tonio: spegne il motore sul lato opposto dello spiazzo, alza la mano per salutare, e si mette a dormire pure lui, in un sacco a pelo. La sua famiglia è andata in crisi, a casa non ci può più stare e l’unico albergo che si può permettere è quello accanto a Zoran, con vista sul binario tre. Domani tornerà in ufficio, sarà il primo a salire sul treno delle sei e quarantatré.

Zorro e una “benedetta” scarpa made in India

Zorro, pendolare che sogna. Ha la mascherina per non vedere, per non rassegnarsi allo spazio stretto e deprimente di una carrozza, per darsi una speranza nel sonno. All’alba è il primo a salire sul treno, quando la stazione è ancora sovrastata dalla luna che tramonta: scatto felino per il posto migliore, quello non troppo vicino alle porte, lontano dagli scocciatori che, sul locale del mattino, di solito hanno le sembianze di segretarie affrante e in acido con le suocere, pettegole interregionali, turisti al primo giorno di ferie, nonni con bambini fuori orario e pertanto in euforia molesta. Tutta gente che, insomma, non ha motivi per tacere e parla, blatera, irrita, emette suoni di ogni tipo: umanità che non apprezza il valore di un’ora di sonno.
Zorro, invece, si affida a quella mascherina sgraffignata all’Alitalia durante un viaggio aereo aziendale, roba di molti anni fa. Si siede e si nasconde sotto quella pezza sintetica, nera: e lì dietro immagina spazi di un’altra realtà. Ma a ogni fermata, in viaggio per Milano, c’è sempre qualche scocciatore che osa violare quella sua dimensione onirica. Il lunedì mattina, poi, tiene banco il campionato: e non c’è carrozza che non abbia un angolo di opinionisti sul 4-4-3 e su Benitez.
Zorro si spazientisce, prova a farsi valere, non con la spada, ma a colpi di “ssssst”. Niente da fare. Passa, allora, alla sbuffata energica, alla mimica facciale, alla mimica corporale. Infine, gesto estremo, emette un “basta, silenzio!”. Così temibile da ottenere una risata.
Alternative? Tappi nelle orecchie o i-pod acceso su un concerto di Vivaldi. Zorro sceglie i tappi: e la musica ha deciso di sognarsela. Più economico, di questi tempi. La riconquista della fase rem non è più un miraggio: fermata dopo fermata, lo stridìo dei freni e la ripartenza si fanno sempre più ovattati. Busto, Legnano, Canegrate, Parabiago, fermate sbiadite, come viste da una nuvola. Fino a immergersi in un altro mondo: un ufficio con vista spiaggia, palme e pappagalli ai lati, poltrona ergonomica e massaggiante, assistenti e colleghe in bikini, capufficio dalle sembianze di Pamela Anderson, caipiriña servita alla scrivania, olio di cocco da spalmare contro lo stress da precariato, sindacalisti con l’ukulele, braccialetto all-inclusive per il servizio mensa rigorosamente vista mare, corso di balli caraibici retribuiti come aggiornamenti professionali. Peccato soltanto per quella strana sensazione sotto il piede destro: come se, in tutto quel “lavorare”, avesse lasciato il piede troppo tempo sulla sabbia calda.
«Capolinea!». Anche i tappi lasciano filtrare la voce della realtà. Pronti, via: non c’è tempo da perdere se si vuol saltare al volo sul metrò e timbrare in orario, su, al quinto piano di un palazzo del centro. Zorro ha già riposto la mascherina nella valigetta e, come un don Diego qualsiasi, si appresta allo scatto giù, sul marciapiede, quando… «La scarpa! Sabotaggio». Come l’effetto cicca bomba sull’asfalto in un giorno di luglio, la suola mollemente si affloscia tristemente sullo zoccolino laterale della carrozza, quello del riscaldamento: rovente, come il nocciolo di un reattore nucleare. Il mistero dei vecchi treni è in quegli zoccolini laterali, capaci di sopportare temperature da alto forno, in grado di trasformare un vagone in una sauna. Mezza suola rimane lì, il resto si prende libertà impensabili e impreviste, modellando una triste scarpa made in India, come una canoa. Zorro è un uomo senza più rincorsa, con il metrò ormai perduto e il ritardo irreparabile. Zoppicando, ancora sul treno, scorge in fondo, come fosse in un deserto, il capotreno, di spalle: lo raggiunge, inviperito con il mondo, ma con qualcuno a tiro cui dare addosso. «Ma che razza di treni! Roventi da far sciogliere le scarpe! Chiederò i danni». La sagoma in divisa Fs e cappello rosso si volta: Pamela Anderson, in persona, scollatura compresa. «L’ufficio reclami è sul molo in fondo alla spiaggia, signore».

Signor Vargas Llosa mi perdoni

Un premio Nobel non si discute, lo si dovrebbe solo citare: “La letteratura è impegno, non intrattenimento”, ha detto Mario Vargas Llosa in una recente apparizione in Italia. Ha ribadito un cardine del suo pensiero. Tuttavia, visto da una carrozza viaggiatori intrisa di sporco, l’impegno è qualcosa di più complicato. Innanzitutto, per un topo di campagna, il primo impegno in letteratura è economico: infatti, non c’è uno straccio di editore che sia pronto a scommettere su un roditore pendolare, a meno che questi non sia disposto a pagare di tasca propria. La dice facile, Vargas Llosa, ma qui in basso, l’impegno ha ben altro sapore. Basta uscire dai salotti snob e dai talk show, per essere scrittore impegnato? No e non basta nemmeno scrivere dalle trincee di chissà quale periferia degradata.
Bisognerebbe prima cominciare a pubblicare… E il virtuale, purtroppo, è troppo evanescente, impalpabile. Lo sanno bene certi pendolari tutta ferraglia e tatuaggi, con bombolette e pennarelli, così come insegnano i grandi saggi della narrativa contemporanea… Chi? Scrittori impegnati? No, bensì writer da toilette, quelli che intrattengono il lettore nei momenti più intimi, con poesie, aforismi, massime impresse e pubblicate sulle pareti più luride di Milano (e non solo).
Che illusione, allora, la vita quotidiana di un topo di campagna in cerca di mecenati. Un pendolare roditore che vuol fare lo scrittore: non ha via di scampo, caro signor Vargas Llosa, se non premunendosi di pennarello indelebile. Come l’anonimo poeta che, sul finestrino di un interregionale con capolinea Domodossola, ha scritto e sottopone a lettura quotidiana il suo componimento: “Avvicinati, dai, avvicinati, ancora un po’, di più….. Ora appiccica la fronte perché se ti frena il treno ti pigli ‘na craniata”.
Ognuno ha il salotto che si può permettere, ogni salotto ha i propri scrittori impegnati.

Esercizi di resistenza quotidiana

Sì, dai, basta silenzio. Un topo di campagna, dal basso della sua costituzione, non può certo tirarsela e diventare snob. Se la narrativa tace, da quando Nebbia è partito con il circo, un blog, o meglio un controblog, non può non comunicare.
Se oggi non hai un blog non sei nessuno, almeno sembra: proprio per questo avevo pensato a un controblog. Se i blog sono quasi sempre fiction camuffati presuntuosamente da realtà, sembrava giusto far sapere fin da subito che un topo altro non poteva che scrivere di finzione verosimile. Ma questo pallino del controblog ha poi finito stupidamente per prendere una piega sbagliata: se il blog è comunicazione, il controblog stava diventando silenzio. Ma allora, che ci sto a fare qua dentro, a occupare preziosi spazi virtuali? Lo spazio sul web è un privilegio che un roditore pendolare non può permettersi di sprecare. Si torna a viaggiare, un inverno è alle porte, come sempre in mezzo ai pendolari trafelati, a mille, centomila vite che s’incrociano e si sfiorano per un istante, qualche minuto, un’ora, su un treno o su un autobus. Direzione Milano metropoli, il gran Milan che tutto ingloba, hinterland compreso, ma che si distingue da un altro mondo che sta fuori, la provincia ipocrita e un po’ invidiosa, un enorme dormitorio che si anima soltanto poche ore, la sera e la mattina, il sabato, la domenica e le feste comandate.
E nei pochi spazi di libertà, dentro e fuori la metropoli, si lotta ogni giorno contro l’alienazione. Altro che silenzio! Un controblog, scritto da un topo, non può che essere un esercizio di resistenza quotidiana. Anche quando non c’è poesia. Ma stasera, sul locale per Varese, la poesia c’è: si chiama Mario e ha quattro anni, dorme profondamente sulla spalla della mamma. Lei cerca di svegliarlo, in vista della loro fermata, ma il piccolo Mario dorme e sogna chissà quale mondo: lontano da tutto, dalla mediocrità di noi adulti e dalla monotonia dei pendolari. Anche questo è un piccolo, grande, gesto di resistenza.

Fiaba per bimbi cresciuti

Un mese con una sola illusione; la vincita ultramilionaria intergalattica. Insomma la soluzione di tutto, in un biglietto della lotteria o in pochi numeri estratti… illusione da spiaggia, cullata col pensiero, a metà tra il sonno e la veglia, sotto un ombrellone. Voglia di provare una sensazione liberatoria: che farò con una montagna di denaro? Il gioco consiste nel fare decine di ipotesi, tutte meravigliose, per alimentare un sollievo virtuale, mentre il sole riscalda le ultime giornate di fannullismo.
Illusione finita anche quest’anno nella rincorsa al treno, al primo treno di settembre, quello del ritorno al lavoro: la sveglia che s’inceppa, le gambe imballate, gli occhi che sembrano non aprirsi. Insomma, niente gira per il verso giusto, al primo giorno: è come se il corpo si rifiutasse di tornare al solito, alienante, viaggio. Colazione saltata, lanciato a digiuno verso un binario che sembra decretare la sconfitta: fuori tempo massimo, ha vinto il treno. Il localaccio puzzolente e polveroso, quello della 6 e 43, se ne va, scorre e scricchiola mentre al volante entro in parcheggio come un pilota di rally.
A quel paese tutti quanti, la lotteria e il primo giorno di lavoro. Ma ora c’è il tempo per prendere fiato e guardarsi attorno: e là, in fondo al parcheggio, c’è un auto con le portiere aperte e un tizio dal volto noto. Charly, il consulente finanziario che lavora giù a Lambrate, prova a farsi la barba alla fontanella della stazione: «Ecco il mio nuovo domicilio» ci scherza su. Fuori di casa per una storia finita, cacciato dalla moglie, ma senza il coraggio di tornare dalla madre: «Sistemazione temporanea, servizio di bed & breakfast incluso». Breakfast al bar della stazione, caffè e brioche: bed con vista cielo stellato su quattro lati, anzi quattro ruote e sedili ergonomici. Charly non corre più per prendere il treno, ce l’ha fuori casa, ora. E anch’egli culla il suo sogno virtuale, per prendere sonno: in fondo si resta bambini, a ognuno la sua favola.

Aria condizionata

Il segno del progresso non è bene nasconderlo. Sui treni, in particolare, quando c’è tecnologia, quelli delle ferrovie dello stato la ostentano: e così, l’aria condizionata che non funziona mai, quando invece funziona, viene sparata a zero gradi come un vento di tormenta su pancini scoperti di decine e decine di pendolari, tra i quali anche ex majorettes che si ostinano a mostrare l’ombelico. Tutto è apparenza, in una società di viaggiatori, e di questi tempi l’apparenza passa anche per la scollatura “golfo ligure” e la vita bassa “rigatanga”. Ma in un frigorifero, anche la più sgamata tra le la pendolarsoubrette è un animale a rischio.
Treno ad alta frequentazione, ovvero, pieno come un uovo: il localaccio per Varese, da qualche tempo si è rifatto il look, a cominciare da questo nome ad effetto. L’alta frequentazione porta a una condivisione totale per un tempo variabile quotidiano di: titoli e didascalie di quotidiani, suonerie telefoniche, confidenze riservate e piccanti al telefono, pettegolezzi sulle suocere, odori animaleschi, deodoranti afrodisiaci, peti malcelati, aliti da notti brave, rumori corporei di ogni tipo, fino alle pulci e altre bestiole gentilmente ospitate …
E così, sul Varese dell’ora di punta, capita spesso di vivere promiscuità impreviste con nemici del sapone, oppure con uomini/bufali da traversata del deserto. Soltanto in rari casi, tuttavia, capita di vivere esperienze memorabili con sacerdotesse di lambada: e in quei giorni da grande occasione, vorresti che il treno ci mettesse una vita ad arrivare a casa. La normalità è il treno in ritardo spinto dalle parolacce di chi ci sta sopra, ma quando ci si trova a tu per tu con la Jessica Rabbit della quinta carrozza capita anche di dimenticare il tempo che sfugge…
Ma un giorno infausto, una sera nel freezer su rotaia, un sogno s’infrange contro una porta sempre chiusa, quella della toilette. Fuori trenta gradi umidissimi, tutti assorbiti da un corpo sofferente e un po’ sformato sulla banchina della stazione, dentro ci sono i pinguini pronti a ricordarti che, la prossima volta, è meglio non mangiarsi la peperonata a pranzo, quella che resta per ore ed ore allo stato magmatico nel pancino di ognuno. E il vulcano islandese, a confronto, è innocuo.
Tu fuori con l’ascella unta, mentre là dentro nello scompartimento, c’è lei, Jessica tutta curve, accanto ai pinguini: e, incurante dei possibili rischi, giochi il tutto per tutto e vai a metterti proprio tra lei e i pinguini a dieci centimetri dalle sue curve. Ha il viso abbronzato lei, ma non ci fai caso perché preferisci ripassare una lezione di anatomia, grazie a un vestitino a guaina che risparmia tessuto ovunque. Come una regina della lap dance, è avvinghiata al palo centrale dello scompartimento, quello che fa da sostegno ai pendolari temerari che sfidano il macchinista più brusco del west. E a meno di dieci centimetri da quella fantasia collinare c’è la tua mano, nella speranza che la frenata sia più brusca del solito…
L’illusione di una favola, sul treno freezer, tuttavia, dura meno di una fermata: la peperonata si ripropone in maniera subdola. Vorresti aver dato retta a tua madre, la predicatrice della canottiera di lana sempre e comunque, ma hai preferito far di testa tua: e ora sei lì, di fianco a una creatura che la natura ha disegnato come un rigoglioso bassorilievo barocco, ma con un dramma che prende forma dentro di te. Lo stomaco ti si contrae e sul viso ti appare tutta la tensione del momento che precede una tragedia: ma come farà lei, con tutta quella carne al fresco, a non mostrare nemmeno un po’ di pelle d’oca?
La via di scampo è troppo lontana: la intravedi giù in fondo alla carrozza, dietro a una porta blu con la scritta wc. Porta sempre e irrimediabilmente chiusa per guasto: lì, avvinghiato a quel palo gelato, con la tormenta che fa imbizzarrire la peperonata, ti senti spacciato. Vorresti essere un bimbo che, con innocenza, vive la colichetta con disarmante naturalezza: strilla un po’, ma poi sonoramente si libera… Tu, invece, non hai scampo e vorresti scomparire da lì, da quella posizione favorevole con panorama da urlo: ma dove andare? È tutto pieno su questa carrozza.
E il treno si avvicina a quella curva con semaforo, dopo la stazione di Rho, quella che tante volte hai stramaledetto per via della frenata da ribaltamento che, puntualmente, il macchinista ti regala. Un colpo sordo, gente che sobbalza sulla carrozza e lei, Jessica, che come una pantera ti finisce addosso con tutta la sua perfezione rotonda. Nel giorno e nel momento sbagliato. Lei dice “mi scusi” e tu sommessamente tossici cercando di soffocare tutto il resto. Un colpo di tosse per mascherare l’irrimediabile fine del sogno.