Ugo serve il brasato ai pendolari, ma Zaccaria, oggi, non è in fila con gli altri: è appoggiato al vetro del bancone delle pietanze, non ha fame, ha soltanto voglia di parlare. L’oste, invece, ha una fila lunga così, quanto il tram 14 che passa lì di fronte, di gente da sfamare, con la pancia vuota e i minuti contati: «Uè, non venir qua a menare il torrone, se ce l’hai col Milan lassa perd».
«Ma no, il calcio non c’entra, questioni di cuore».
«Oh Signùr, per il cuore spetta più tardi che smaltisco la coda degli affamati, per il fegato, invece, ciapa qui un piatt: è alla veneziana», e gli porge la pietanza. Mangia nell’angolo, Zaccaria, mastica lentamente e non riesce, quasi a inghiottire.
Ugo lo scruta dall’alto verso il basso, quella faccia da pesce lesso non lo convince proprio. Finita l’ora di punta della pausa pranzo, l’oste gli si piazza seduto di fronte e lo osserva, faccia a faccia. Zaccaria deglutisce e attacca il discorso: «Ti sentiresti offeso se trovassi una bistecca cruda nella borsetta?».
L’ex terzino prestato alla cucina meneghina strabuzza gli occhi e tossisce: «Dipende se la borsetta è di coccodrillo o pel da logia».
«Non sto scherzando, Ugo. Ti arrabbieresti a sentire la fettina umida dentro la borsetta?».
«Dai sputa tutto, che razza di domanda è questa…».
Era la risposta che attendeva, Zaccaria è come un fiume in piena: abbassa gli argini e si svuota di tutte le amarezze. Deluso in amore, è un recidivo col cuore infranto: non fa a tempo a ricucire le ferite che si procura un nuovo strappo. Sulla soglia dei quaranta, scapolo a oltranza, ormai punta ragazze nubili a tappeto, è diventato un corteggiatore da sfinimento. «Non è la qualità che conta, ma la quantità: a un certo punto». Già, la quantità è uguale a zero, la qualità è ormai un concetto astratto nei suoi pensieri. E vendicare i due di picche è diventato il suo secondo passatempo, perché le ferite aperte fanno ormai fatica a rimarginarsi, a quell’età, per uno che non si rassegna alla pace dei sensi o al sesso a pagamento. «Io sono un sentimentale, non un mercenario di carne da macello», ha sempre sostenuto con orgoglio. Anche se la carne, in realtà, la maneggia tutto il giorno, come aiuto macellaio al piccolo supermercato sulla strada verso Pero: e fu proprio lì, mentre maneggiava un pezzo di biancostato, che gli venne l’idea.
La sua prima vittima fu Irma Vanetti, un’impiegata delle poste che una mattina si ritrovò una cotoletta al sangue nella pochette di Gucci, mentre si concedeva un caffè: infilando la mano per estrarre la moneta, proprio davanti alla cassa del bar, sentì tra le dita una flaccida consistenza e quasi gli prese un colpo. Come colpita da raptus, istintivamente, tirò fuori quella roba informe e la lanciò: la bistecca, solo in quel momento capì di cosa si trattava, andò a spiaccicarsi sulla parete dietro al flipper, lasciando una striscia di sangue sul muro: come nei delitti da film horror.
Da allora, le vendette che si compirono furono a decine: come un giustiziere seriale, si prendeva quella rivincita anonima, a ogni due di picche. E agiva con la stessa abilità di un grande borseggiatore, ma al contrario. Tanto che, al comando della polizia locale, il vendicatore della bistecca era diventato un mito: e il comandante Sgarzon non vedeva l’ora di beccare il colpevole con le mani nel sacco (già proprio così) per vedere in faccia, il volto di quel sanguinario affettabovini.
Un’altra volta, infilò un osso da lesso nella borsa di Carmen Spataro, napoletana emigrata al Musocco, ma innamorata di Evandro, il ragazzo dogsitter, proprio al primo appuntamento, al parco di Trenno: e fu un disastro. Alla vista della ragazza, Evandro si sentì come trasportato dagli eventi: in balìa di quattro doberman che teneva al guinzaglio, terminò la sua corsa a cavalcioni della povera malcapitata, svenuta per la paura. Tremendissima vendetta, quella di Zaccaria.
Come quel giorno in cui colpì la povera Benedetta Lafava, dopo essersi negata a un mese di avances: scoprì soltanto dopo, il malandrino, che la ragazza aveva una totale avversione per gli uomini e i loro attributi, per via di un trauma adolescenziale, ovvero la valanga di sfottò rimediati a scuola, per via del nome. La Benedetta, quella triste mattina, fini al pronto soccorso in preda a un attacco di panico: l’allergia non le dava pace e a furia di starnuti si ritrovò a soffiare il naso dentro una fetta di carpaccio, scambiata, nella foga, per un fazzolettino umido, riposto nella sua borsetta, proprio accanto al portafoglio.
Ora confessa tutto, Zaccaria: vuota il sacco, davanti all’amico ristoratore, abituato costui a celebrare la bistecca in ben altro modo. E chiude, con un sospiro e un avvertimento: «Lo so, è questione di pochi minuti e verranno a prendermi. Con la Jole, non ce l’ho fatta a resistere, mi ha beccato».
Ugo sta lì a bocca aperta, come uomo di pietra, investito da una frana.
La Jole è la titolare di un negozio di lapidi e monumenti funerari che si trova a due passi dalla trattoria: per un mese Zaccaria l’ha corteggiata e sognata ogni notte. Le ha scritto lettere d’amore, poesie strappalacrime che, in realtà, hanno sortito soltanto uno sputo: proprio così, la Jole, esausta per i suoi continui assalti, non ne poteva più e ha pensato di liberarsi del suo spasimante con un gesto estremo, sfrontato. Uno sputo in faccia, sparato a bruciapelo, assolutamente imprevedibile, mentre le si avvicinava a lui con fare suadente, in tailleur rosso e con il volto truccato da balera e capelli raccolti dietro la nuca. Lui l’aveva guardata, pregustando il bacio e la resa, ma si è ritrovato con l’onta peggiore nell’occhio destro. Centro pieno, cuore distrutto.
Soffrire per amore, ci stava, ma umiliato no: la rappresaglia doveva essere pazzesca. Degna di Zaccaria. Ma non più con una semplice fettina, bensì con una frisona di prima qualità, chiesta a prestito all’allevamento di zio Cino, un parente uno po’ svitato per colpa di uno zoccolo in fronte rimediato durante la mungitura, anni fa. Zaccaria era arrivato a piedi, dalla cascina vicino a Bollate, e aveva fatto il suo ingresso nel locale esposizioni della Jole, tirandosi dietro quello splendido esemplare di vacca, proprio mentre si stava ultimando il pagamento di una tomba lì in bella mostra, da parte dei parenti del Callisto del Musocco: la moglie Adelina lo aveva abbandonato portandosi via la foto di Mariolino Corso, il suo idolo. E lui da allora, non fu più in sé: decise di farla finita con un’arma impropria, il fast food in fondo al cavalcavia, a colpi di hamburger e crocchette di pollo.
Callisto si era spento come una candella consunta, nel silenzio del locale deserto: il suo respiro era venuto meno al cospetto della quarantaduesima pepita impanata, inzuppata nel ketchup. Senza figli e con la moglie chissà dove, poteva contare ora soltanto sulla benevolenza della cognata Clotilde e di quattro pronipoti che, di fronte alle proposte in stile teleimbonitrice della sciantosa Jole, non avevano battuto ciglio: secondo il parentado, al Callisto sarebbe bastata quella tomba in finto marmo bianco già lì esposta e pronta all’uso, niente di meglio di un’offerta last minute, degna di una vittima del fast food.
Proprio nell’atto di regolare le ultime formalità, davanti al bancone del negozio, il piccolo capannello di parenti veniva interrotto da un muggito in stereofonia, suono terrificante, amplificato dalle pareti vuote del locale. Nel voltarsi verso l’ingresso, i cinque malcapitati aprirono uno scorcio di visuale alla Jola che, riconoscendo Zaccaria accompagnato dal quadrupede, aveva cominciato a strillare come una posseduta dal demonio.
L’innamorato non corrisposto e umiliato si era limitato a una sola frase di rivalsa: «Chi vosa pussé la vaca l’è la soa. E allora sputa sul muso a sta bestia». E se n’era andato abbandonando il bovino in vetrina, tra le lapidi in esposizione.
Fine del racconto: Ugo ha le mani nei capelli e guarda ancora impietrito Zaccaria, lasciandosi sfuggire un “tesemàtt”. «Aspetto che vengano a prendermi, lo so che sono qui. Ho saputo che è anche un reato sta cosa qui, la chiamano in inglese, una parola tipo staching», conclude il matto ripudiato dall’amata.
«Per me è scemenza, altro che staching», replica l’amico.
Ecco, poco dopo, due gendarmi in trattoria a chiedere di un tipo strano: Zaccaria si alza e si consegna, con la testa bassa, come il peggiore dei malfattori. «Vai dalla Jole a riprendere la mucca di zio Cino, per favore», dice all’oste.
Ugo rispetta le consegne, per compassione più per la povera bestia che per quell’idiota di Zaccaria. Al discount del caro estinto, la frisona aveva già sparso panico e sterco ovunque: al suo ingresso, Ugo avverte l’odore della tragedia, che sa stalla più che dell’incenso che si usa di solito in quel posto. Anche le immagini non sono da meno: la Clotilde, nonostante la sciatica e il mal di schiena, è avvinghiata alle spalle di un Cristo benedicente in bronzo di tre metri, il rifugio più sicuro per sfuggire alla terribile creatura della campagna. I quattro pronipoti, invece, sono in ginocchio attorno alla Jole, svenuta e a terra: litigano per chi deve farle la respirazione bocca a bocca, anche se lei tenta di respingerli con le mani. Sulla tomba bianca del Callisto, spicca ora un’enorme torta similcioccolato e fumante. Ugo scuote la testa e recupera la corda la collo della povera bestia e la aiuta a uscire da quel pandemonio. Ha un solo pensiero: «Eh Callisto Callisto, se fossi venuto da me, invece di andare a mangiare dagli americani, saresti ancora qui a litigare per l’Inter».