L’autista che vuole cambiare il mondo

Metti un virus nel motore. E se improvvisamente la benzina non servisse più a nulla? Ecco la questione ecologica vista da Sante, autista di autobus, di giorno traghettatore di pendolari e sfigati di giorno, di notte procreatore: ed è già al quinto figlio. Sante, mani e scorza rudi, getta il cuore oltre lo smog stamane, oltre quella polvere invisibile che intacca i polmoni di chi sta giù ad aspettare, alla fermata sul marciapiede.
Quando è al volante fa il predicatore, alla testa del torpedone sembra un condottiero che istruisce la sua truppa. Alle sue spalle, ogni mattina e ogni sera due fedelissimi dell’andata e ritorno, l’Enea e la Giusy, centocinquant’anni in due; gli unici a partecipare al dibattito. Il resto dell’involontaria platea, che egli osserva dello specchietto retrovisore, è una variegata assemblea di dormienti che gli ricorda tanto la gente che seguiva messa alle 6 del mattino, quando da bambino, mamma lo mandava a schiaffoni a fare il chierichetto all’alba. Tutta gente con le palpebre semichiuse, sfatta da una giornata di lavoro, con la voglia di spegnere quel sermone quotidiano così come si spegne l’autoradio quando gracchia.

Ma Sante prende fiato e comincia, tutte le volte, implacabile:
«Ormai siamo condannati a fare una brutta fine.»
«Pensi che l’altro giorno mi è appassita persino la sterlizia. L’avevo pagata trenta euro.», ribatte la Giusy, vispa come una pettegola di paese.
«L’aria è pesante, cara la mea dona, la gente prende il tumore come niente. Tutte le capitali europee soffocano, non c’è scampo l’inquinamento sarà la nostra tomba se non cambiamo, non duriamo altri vent’anni.»
«Beh, io fino a settantanove anni son rivato. Per altri venti ci metto la firma», mette le mani avanti l’Enea.
«L’ha parlà al pussèe bun, ma tu non pensi ai tuoi nipoti? La gente mette al mondo i figli e poi cosa lascia in eredità? Un mondo che va a rotoli, pieno di veleni»
«Con tutta questa gente che chiede la carità dove andremo a finire…», sbuffa la Giusy.
«Non c’è mica da fidarsi sa, non dia confidenza alla marmaglia, sciùra. Poi li vedi ‘sti maruchini tutti a bere birra con il telefonino in mano. Dicono che hanno fame, ma non è mica vero, chiedono la carità e fanno i soldi senza pagar le tasse.»
«Caro Enea, sono troppi, ma che tornino a casa loro. Io sono vecchia mi fanno paura”.
«Perché in Italia, funziona così. Tutto concesso, tutto perdonato, l’è come il Bengodi, ma poi li manteniamo noi quelli lì.»
«A casa loro e di corsa! Sante hai un lavoro? Sì. Loro non hanno un lavoro? Non hanno una casa? Cosa stanno qui a fare.»
«Quando noi avevamo fame, non siamo scappati tutti in Svizzera. Adesso questi cosa pretendono?»
«E poi ci sono gli zingari, è un mondaccio.»
«Con quest’aria qui, non c’è futuro. Anche a Copenaghen hanno problemi.»
«Ma indové Copenaghen?»

Silenzio. Dieci chilometri di tregua, tanto per riflettere: non tanto sulla geografia, quanto sull’ipotesi che tanto assilla l’autista: «I computer vanno in tilt con i virus, ma se capitasse la stessa cosa con la benzina? Un domani potrei venirvi a prendere col cavallo. Pensa che bel mondo diventerebbe! Tutto come una volta. Se potessi pisciar dentro in ogni serbatoio…»

Inquinare la benzina per non inquinare più: tra Milano e la provincia, Sante cova nuove forme di terrorismo. E intanto è lì, fermo in coda, alla barriera di Lainate: «Ah guarda là quell’àsan cunt al suv, lui farà il manager, vardell là. Fermo come me con la mia balena, e col suo bolide al ga trà a sunàa. Quel clacson te lo metto n…»
«Sciur Sante, per misericordia!» la Giusy prova a censurare.
«No, a sa pò no. Non c’è soluzione siamo in troppi, anche noi» riattacca l’Enea.

L’ingorgo svanisce lentamente, il bus riparte, corre incontro al tramonto verso il monte Rosa. Ancora silenzio per altri dieci chilometri. E Sante guida con lo sguardo fisso all’orizzonte tutto rosso e sospira: «A noi provinciali, tutto il giorno a correr dietro a quei milanesi. Persino per mangiare l’hamburger facciamo la coda. Ma non può andar sempre così…»
«Bé el g’ha rasòn» riconosce Enea.
«Ah quella roba lì non fa per me. Ho già la gli asparagi, per stasera. Li faccio con le uova» si reinserisce la Giusy.
«Ah gli asparagi, quelli li mangerei tutti i giorni. Anche se li ho visti un po’ cari dal verdurée. Ma crepi l’avarizia, per certe cose»
«Ma sì, non bisogna stare a guardare tutto. Vadiaviaiciàpp anche all’inquinamento» sentenzia Enea.
«No, non bisogna guardare a tutto, no». Mentre guida e guarda il tramonto, Sante pensa agli asparagi e al sesto figlio. “No, non siamo in troppi, gh’è post anche per lui”, pensa tra sé
Non ha ancora deciso di cosa parlerà domani, della televisione o della violenza negli stadi, della mezza stagione che non c’è più. O forse delle banche: «Sì e indove andremo a finire con ‘sti tassi d’interesse?»