Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».
L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.
Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.
La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».
Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.
A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.
Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.