Nebbia è tornato

Irina dorme, l’inverno l’ha portata via con sé. Intanto, la città si riaccende. Dai forni delle panetterie esce un profumo antico, mentre i bar si riempiono di fagotti umani in cerca di un caffè. Altro che fitness, gli autisti hanno la loro bella ginnastica, nel grattare sui parabrezza congelati: bisogna ripartire, la giornata ricomincia con un raschietto in mano, mentre là in fondo, dietro il distributore di benzina, Irina continua a dormire, dentro a un cartone.
Anche il circo è tornato in città, come un rito fuori moda, ostinazione dei romantici: nascosto tra gli ultimi sognatori, condividendo un pezzo di vita con una trapezista, un piatto di minestra con un domatore, un pacchetto di sigarette con un fachiro pachistano, Nebbia rivede Milano dal predellino di una roulotte. Nomade per amore, se ne partì in treno, ritorna come uno zingaro: era la sua città, quella, ma da zingaro ora sa che non è bene accetto. Perché un uomo senza dimora sfugge a ogni regola e a tutte le convenzioni: Nebbia ha fatto la sua scelta, ora la gente non saprà più quale marchio attribuirgli e avrà paura di lui. In fondo, spera che qualcuno si ricorderà ancora delle sue risate sporcate di fumo: “Certo, ci sarà ancora qualcuno che non avrà dimenticato”, dice tra sé, mentre la sua sigaretta si consuma fuori da un tendone buio, ancora addormentato, dopo lo spettacolo della sera prima.
Stelle appese ai palazzi, sopra le strade, non cambiano un granché di questa Milano che, dall’energia che sta sprigionando, sembra avere miliardi di cose da fare, tutte più serie di ciò che farà lui, oggi, mentre alzerà lo sguardo verso i grattacieli tirati su dalle gru, oltre le luci del Natale. Tante parole, troppe, per una festa… «Va a finire che, anche quest’anno, tutti guarderanno il dito e non la luna, ma chissenefrega». Nebbia è tornato e presto darà fastidio a qualcuno: «Perché è sempre meglio che diventare invisibile» Anche a Milano arriverà Natale, ma tutte quelle luci, forse, non basteranno per illuminare milioni d’invisibili.
Intanto Irina dorme dentro un cartone e non si sveglierà più. Non dava fastidio a nessuno, ma presto, anche solo per un minuto, non sarà più invisibile.

“Mio Dio! Un intero minuto di beatudine! È forse poco, sia pure in una intera vita umana?”

Via da Milano, per non soffocare

Nebbia ha appena sfogliato il giornale, seduto al tavolino del bar dell’angolo, e si appresta a fare la valigia: “i pediatri prescrivono alle famiglie di portare i propri figli fuori da Milano”. Non un consiglio, ormai è una terapia. «L’aria è pesante. A me sembrava soltanto un po’ più fredda del solito – dice ad alta voce, di fronte al solito capannello di affabulatori del mattino -, si vede che ormai sono assuefatto. Ma ora che Clementina va via, la seguo anch’io».
Idealista senza briglie, con la sagoma di un cespuglio, nato e cresciuto con la voglia di libertà, quella che Milano ha mortificato e trasformato in alienazione, come accade a molti che approdano in periferia e rimangono intrappolati. Nebbia fa le valigie per seguire l’amore: proprio così, sotto chili di barba e capelli, c’è il volto di un innamorato. Un cuore che non batte più per la politica, ma per una trapezista del circo: Clementina ha vissuto a Milano per anni, esibendosi sotto questo o quel tendone, quello di ogni circo che passava di lì e in città si fermava. Artista stanziale di uno spettacolo ambulante, per anni trapezista precaria, a contratto settimanale.
Un amore, quello tra Nebbia e Clementina, sbocciato una mattina, proprio lì di fronte al bar della Certosa: la trapezista era in lacrime, seduta al tavolino, in attesa di un punch al gusto di rabarbaro. Nebbia vedendola così affranta le si fece incontro, con l’intenzione di consolarla con qualche sua parola. Ma Clementina non era delusa della vita, bensì piegata dalla congiuntivite: congiuntivite allergica, stessa patologia di migliaia di milanesi di questi tempi.
Una trapezista con la congiuntivite non può avere futuro in questa città. Meglio essere nomadi, dunque, con la valigia in mano, la polvere di gesso sulle dita e il collirio in tasca: Clementina ha scelto di partire, Nebbia con il cuore di un ragazzino al primo amore ora è deciso a seguirla. Anche in capo al mondo, molto più probabilmente fino al campo base di qualche piccolo circo stanziato nella campagna lombarda o piemontese, ai confini di un borgo silenzioso che odora soltanto di cenere di legna che fuoriesce dai camini e di letame che, di questi tempi, viene sparso nei campi circostanti.
Stamane Nebbia sembra ringiovanito, nonostante i suoi polmoni intasati dal tabacco: lui che ha scelto l’inquinamento come gesto volontario quotidiano, innamorato di un’artista che non può continuare a vivere in una città che soffoca. Leggeva Voltaire, ora è passato a Prevert.
Il mattino, in queste giornate di febbraio, ripropone in periferia gli stessi lenti fotogrammi di sempre. Sotto il cavalcavia di viale Certosa, uomini senza volto e senza identità, tremano e tossiscono sotto la cappa gelata della metropoli dopo aver passato la notte lì, sopra un materasso di cartone: uomini ombra o soltanto ombre di una società che non sa se allontanarli come clandestini o semplicemente dimenticarli, come chincaglieria da soffitta. La quotidianità va in scena, come sempre, anche nei giorni che a Nebbia sembrano diversi.
Scrive Antonio Scurati su La Stampa: “Vivo a Milano, come tutti. Appartengo all’umanità, una specie destinata all’estinzione, come tutte”. Nebbia legge e sospira: con Clementina prende un treno e prova a salvarsi. In contromano rispetto ai pendolari scampati alla crisi. A suo modo, parlerà della vita e della poesia alla donna cannone e al domatore delle tigri: loro sì, l’ascolteranno.

La fortuna è cieca o miope?

Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».

L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.

Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.

La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».

Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.

A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.

Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.

Non c’è crisi per l’idraulico

«Mille per mille e il libro di Marco Polo, tre orizzontale». Parole crociate in libertà, di prima mattina, condivise ad alta voce dal tavolino del bar dell’angolo e per tutto il marciapiede: ecco uno dei passatempi preferiti di Nebbia che corruccia lo sguardo, si passa la matita nel cespuglio che ha al posto della barba, conosce la risposta, ma tace per qualche istante. L’enigmistica a lui serve per socializzare, per sentire una voce che si unisce al gioco e poi, chissà, finisce a parlare della vita, delle donne o dell’Inter. E intanto fuma un pezzo di toscano.
Il primo di agosto, però, i cruciverba a Certosa sono cantilena nel deserto di un quartiere chiuso per ferie, non morto, ma assopito. Non in vacanza, ma ritirato chissà dove, dietro persiane semichiuse verso strade che sprigionano calore e umidità. C’è Sandro, il barista, ma è rintanato là dentro, in compagnia della sola aria condizionata, e c’è il ragionier Ponchio che sembra non aver voglia di giocare, ma la risposta gli vien fuori così, come d’istinto per uno come lui che con i numeri ha una certa dimestichezza: «Mille per mille fa un milione, quello che mi ci vorrebbe per mandare affanculo tutti». Nebbia risponde con una risata soffocata da un colpo di tosse, perché non gli era mai capitato di sentire la voce del Ponchio e mai si sarebbe immaginato che un signore così riservato potesse lasciarsi andare con simili espressioni. Sono quattro giorni che il ragioniere passa le giornate seduto al tavolino: arriva di buon mattino, alle otto. Sta lì seduto tra giornali e caffè, ogni tanto fuma, sbircia nella sua valigetta, guarda nel vuoto, si nasconde dietro a un cellulare microscopico e tace. Soprattutto, tace. Nebbia conosce la verità, non l’ha saputa da nessuno, l’ha semplicemente intuita: il ragionier Ponchio, da quattro giorni, non va in ufficio ed è un libro aperto al capitolo disperazione. «La situazione attuale, sa, ci costringe a scelte dolorose e lei capirà, il suo rapporto di lavoro con noi finisce qui. La ringraziamo e le auguriamo buona fortuna»: è andata, più o meno, così. Licenziato in due minuti, quanto basta per buttare nel cesso ventitré anni di sacrifici, per l’azienda, per la causa comune: «Già, ma ora come faccio da dirlo a mia moglie e ai miei figli?», sono state le sue parole intrise di magone pronunciate davanti al direttore del personale. Sono passati quattro giorni e la famiglia Ponchio non sa nulla. E un ex ragioniere continua a prendere il treno al binario uno di Canegrate, convoglio carrettone privo di ogni comfort e con fermata a Certosa: a seguire, dieci minuti a piedi tra fabbriche dismesse e un cavalcavia dell’autostrada e altri cinque lungo un viale che, invece di condurre al suo ufficio, ora si ferma prima, a quel tavolino tra i platani e il marciapiede. La moglie a casa, i figli all’oratorio e lui lì seduto a consultare annunci di lavoro.
«Ditzamo, guardi, ditzamo che lei Ponchio, qui, non conta un cazzo», era stato l’avvertimento di un perfido manager di origine emiliana, ma che della sua terra, ora, non conserva che la parlata. Era un messaggio chiaro, quello, dopo che il superiore aveva scoperto che il Ponchio si era incautamente confidato al collega Perelli, noto aziendalista e spione, dicendo di volersi iscrivere al sindacato. Poi, dopo qualche settimana, altri segnali poco confortanti. «Sa, la crisi, ditzamo che richiede un’attenta valutazione, ditzamo, che prenda in esame la congiuntura che porterà probabilmente, ditzamo, a un riassetto strutturale in attesa che il mercato, ditzamo, riprenda a dare segnali confortanti»: aria fritta mirabilmente modellata da un supermanager da ottomila euro al mese, più buona uscita da nababbo, in caso di affondamento dell’azienda. Si fregia del titolo di bocconiano, l’emiliano, mica come un ragioniere qualunque, qual è il Ponchio. Studente a pieni voti presso il santuario milanese del “fàa danée” e oggi autentico sacerdote dell’unico grande credo che esalta i cattedratici della finanza: gli utili a monte, le perdite a valle. A monte ci sta lui, a valle i poveri cristi con le loro famiglie. E il Ponchio era un povero cristo, anche se non completamente scemo, tant’è che aveva colto il senso del discorso: il riassetto strutturale sarebbe passato dalle chiappe di qualcuno, forse anche le sue.
«Il milione, ragioniere, la risposta esatta è proprio milione. E lei che ci farebbe con un milione?», prova a sdrammatizzare Nebbia, lontano da lui non più di tre metri e due tazzine di caffè.
«Prima bisogna averlo davvero in mano il milione, poi quando si è sicuri di avercelo, si può ragionare. Io comincerei con l’andare fino a quell’azienda là, nell’isolato qui vicino, salirei le scale e andrei da un certo signore: “ditzamo che ora lei se ne va a fare in culo, ditzamo, a fare in culo lei, la congiuntura e il riassetto strutturale”, sarebbe il primo sfizio, poi al resto ci penso».
«Se l’avessi io, forse glieli regalerei, sa. Non me ne frega, io ci ho paura dei trop danée, caso mai mi vadano alla testa. E a proposito di testa, già sono messo male così, figuriamoci se i soldi la guastassero ancora di più. Anzi no, magari del milione farei metà: una a lei e l’altra metà me la tengo per assumere una badante brasiliana superaccessoriata, “solo distinti”. Già perché con un milione sei un distinto, mica un puttaniere qualsiasi». Ci aveva provato a dipingersi come l’uomo del gran gesto, Nebbia, ma anche in sogno sbraca sulla gnocca: ecco il vero difetto che gli impedisce di passare per filosofo professionista.
Intanto, però, il Ponchio riprende morale: «Se la mettessimo sulla fantasia, allora avrei un sacco di idee anch’io. Intanto manderei i figli a studiare in America e io e la mia signora ci passiamo un bel periodo da coppia di mezza età. Eh, la mia signora… già che ci sono, la manderei anche dal carrozziere, ma uno di quelli buoni, quello dei vip, a rifarsi un paio di taglie o tre di seno: è un regaluccio che ogni tanto mi chiede, ma che indubbiamente farebbe piacere anche a me. Mia moglie dice che la signora Santucci, la donna dell’idraulico, ha trovato una clinica in Brianza che faceva pure gli sconti e già che c’era si è fatta gonfiare davanti e tirare su dietro».
«Eccola, la piccola borghesia che si perde nel silicone!».
«Sì, ma fare l’idraulico, oggi, è quasi come fare il gioielliere. Però ha la figlia che si droga».
«Con la mamma che vuol fare la soubrette, è il minimo…io che pensavo che voi in provincia avevate le mogli che pensano a fare la salsa di pomodoro, visto che siamo ad agosto».
«La passata la troviamo al discount, quanto al resto, da noi in provincia, l’importante è che sembri tutto normale, tutto perfetto».
E anche il ragionier Ponchio, egli lo sa bene, è uomo di provincia, di una provincia troppo vicina alla città e troppo lontana dalla campagna, troppo piccola per soffocare il pettegolezzo, troppo cresciuta per essere immune dai mali tipici della periferia di una metropoli: meglio tacere, non dire, non far sapere e tutto sembrerà come sempre. Ma a fine mese qualcosa accadrà, la verità verrà a galla… È più o meno così che scoppiano le tragedie di provincia. Ma un ragioniere non può perdere la testa, dice lui, gesti insani e folli non ce ne saranno. «Domani vedremo», dice sempre. Intanto sorseggia il suo caffè davanti a Nebbia, fissando un telefonino muto.
«Quasi quasi vendo questo aggeggio al marocchino là al semaforo. L’altro ieri mi ha offerto cinquanta euro… almeno con quello ci porto la mia signora in pizzeria anche domenica, come facciamo sempre».
«Ah, per me quella è chincaglieria, ma per lei, ragioniere… meglio che lo tenga da conto, caso mai arrivasse la telefonata della svolta».
«Ah, allora per me è già venduto».
La mattinata scorre lenta e appiccicosa, il pomeriggio ancora di più. Nel mezzo, una michetta col salame e spuma nera mischiata al vino rosso, come nelle vecchie osterie meneghine. L’indomani arriva comunque, presto, nonostante la noia.
Poche ore e un nuovo caffè è sul tavolino del ragioniere, che prima di sedersi si aggiusta la cravatta proprio come se stesse per appoggiarsi alla scrivania dell’ufficio, un gesto che non ha mai perso, è come un tic. Anche Nebbia è sempre là, dove l’aveva lasciato il giorno precedente, con il cruciverba sotto gli occhi, la matita che scrolla un po’ di forfora dalla nuca e un dodici verticale da completare. Ma stavolta è Ponchio a rompere il silenzio: «Oggi te lo faccio io l’indovinello: dove va a dormire un cornuto?»
«Quelli veri dormono sempre nello stesso letto, con la moglie. Che è successo, ragioniere?».
«L’idraulico, boiavacca…Ieri ho preso il treno prima perché mi annoiavo qui al bar e l’idraulico Santucci aveva un gran lavoro sulla nostra lavatrice. Ma tra lui e la lavatrice, c’era in mezzo la mia signora…. Chela troia!».
«Oh Madonna! E il telefonino, cosa cavolo lo tiene in tasca per fare? Lei non sa, ragioniere, che è sempre buona regola telefonare alla moglie prima di rientrare in casa? E che ha fatto quando ha scoperto il fattaccio?»
«Chi ha fatto cosa? Lei, come niente fosse, è andata a farsi la doccia e almeno quella funzionava. Io, invece, sono stato cacciato di casa perché le ho detto che mi hanno licenziato, ma l’ho chiamata zoccola. L’idraulico, invece, ha tirato su i pantaloni e prima di andarsene ha pure salutato. Perché l’educazione viene prima di tutto».
«Non se la prenda ragioniere. Certo che l’idraulico è un tipo strano… manda la moglie a gonfiarsi come un canotto in clinica, ma poi si riconverte alle tardone vecchia maniera. La riparazione della lavatrice almeno l’avrà fatta gratis e le persone per bene si vedono dal saluto».
Ragionier Gianantonio Ponchio, disoccupato reo confesso e pigro nell’utilizzare il telefonino, torna sul mercato e, nel frattempo, alloggia da mamma Esterina: «Ecco dove va a dormire un cornuto di provincia. Una pensione minima in due può bastare, almeno per un po’». La povera donnetta che l’ha allevato lo considera ancora un ragazzotto che deve farsi le ossa: quarantasei anni sono pochi per capire come vanno il mondo e le donne di oggi, dice lei. «Sicuramente mi metterà a zappare nell’orto, mi ha già detto che ci sono i pomodori da cogliere. Quando ha saputo che torno da lei, è rifiorita, dice che vuol fare la salsa come tanti anni fa».
Le mamme di provincia, ad agosto, cuociono e imbottigliano passata di pomodoro. Lo fanno ancora, ma soltanto quelle dai settant’anni in su. La metropoli è lontanissima per loro, lavano a mano e non hanno tempo per i cruciverba. Nebbia farà a meno delle risposte del ragionier Ponchio, ma sui pomodori è sensibile: «Lei è fortunato! Pensi che io ho dei gran pomodori giù in fondo, vicino al cimitero, ma non ho nessuno che mi faccia la salsa».
«Se lo sapesse mamma Esterina… c’è un treno locale che ferma alla mia stazione già di buon mattino. Portali su, i pomodori, che domani facciamo giornata».

La luna dietro ai cespugli

«Almeno lassù, il silenzio sarà vero, mica come quello di qui, che anche alle tre del mattino, la pace fa al massimo da sottofondo a un motorino con la marmitta che scorreggia». Nebbia guarda la luna stasera e vorrebbe vederla più da vicino, prendere una mongolfiera o mille palloncini gonfiati a elio. Perché su un’astronave non riesce a immaginarsi, non è capace di vedersi sposato alla tecnologia, è un poeta sempre e comunque: lo sbarco sulla luna è tornato di moda, tutti ne parlano e lo ricordano anche se, in quel 1969, non erano nemmeno nati, ma Nebbia ha un’idea “romantica” dello sbarco: «Per me si dovrebbe tornare là e farci un rifugio per quelli che si dissociano da sto mondo. Giusto un posto per riflettere un po’ e guardare la terra da lontano, prima di decidere se spararsi un colpo o tornare indietro. Uno sta lì, ci pensa un po’ e poi decide».
«Tass Nebbia, dì minga strunsà, bevi un Ramazzotti?», lo interrompe l’Alcide, per gli amici Gringo, vedetta all’ultimo avanposto di un’azienda ormai traslocata in periferia o, forse, in Cina. Se ne sono andati tutti dallo stabile del Musocco: impiegati, operai, fattorini, gran signori. Tutti tranne lui, che l’han lasciato lì a vegliare un dinosauro ormai deceduto, un palazzo che va in pezzi senza niente dentro: vive soltanto la sua stanza con un cucinino annesso. Gringo, portiere del nulla.
«No, leggo Voltaire, tu sei già al quinto di Ramazzotti, vai avanti così e ti fai tutto l’ellepi». Gringo non sa chi sia Voltaire è l’ultimo libro comparso nella sua portineria è stato un’edizione economica di aforismi, distribuito gratuitamente da un quotidiano, formato tascabile. Gli aforismi sono l’ideale per chi non regge la lettura di un capitolo al giorno e a Gringo la lettura proprio non piace: tuttavia, quel libretto lo tiene sempre in tasca, nei pantaloni, così ogni tanto tira fuori qualche frase che fa scena. Per reggere il confronto nelle discussioni «con i bauscia», dice lui. “Il riposo è una buona cosa, ma la noia è sua sorella”, trovata a casaccio sul momento. Per Gringo, è meglio l’azione: e per un portiere che vigilia sul vuoto è tutto dire. Come un soldato disperso al quale non hanno detto che la guerra è finita, l’Alcide si sfoga come può: la sua passione la s’intuisce dal soprannome, le pistole sono gli oggetti più venerati, feticci che conserva come reliquie. Arsenale tutto regolarmente denunciato e, qualche volta, riesce pure a sparare, nel parcheggio sotterraneo del suo dinosauro dormiente, ormai deserto: fabbrica munizioni in casa, scende nel parcheggio e spara, inebriato dal potere su tutto, sulla vita e sulla morte. «Per un decimo di secondo, quando premi il grilletto, sei l’essere più potente dell’universo».
«Te se matt, Gringo. Molla i cannoni, vieni con me in montagnetta, andiam su a vedere la luna», rilancia Nebbia con la poesia. E la proposta viene accettata: per noia più che per voglia.
Partenza da Certosa con un’unica Graziella, pieghevole anni Settanta, color grigio, senza cestino: pedala Nebbia e, come ai tempi della cicca bomba e della fionda, Gringo è in piedi sul portapacchi posteriore. Ma con l’inseparabile amica, la pistola, nascosta nei pantaloni.
La bici resta ai piedi della montagnetta di San Siro, la salita è a piedi, cinque minuti sotto un cielo che Milano non è abituata a trovarsi sopra la testa, con le stelle che brillano più dei lampioni e la luna, a spicchio, a dominare la scena. «Camminare su quella crosta là, mi dà l’idea di un enorme falce di borotalco…».
«Nebbia vivi proprio nel tuo mondo, qui a Milano il borotalco lo tirano su per il naso. Se si venisse a sapere che la luna è fatta di quella roba lì, l’avrebbe già comprata qualche mammasantissima». Gringo accarezza il ferro lucido dell’arma e fa venire i brividi all’amico: «E piantala con sta manìa delle pistolette, metti via sta roba che mi fai terrore».
«Ma va là che è pure scarica, anzi adesso che insisti, quasi quasi un colpo o due li metto dentro e ci sparo alla luna». Detto, fatto: con gli occhi da matto, carica l’arnese e fa partire un colpo nel cielo, verso lo spicchio argentato lontano migliaia di chilometri. Tra i due cala il silenzio.
Passa mezz’ora e Nebbia scende dal cucuzzolo, senza dire nulla, fumando quel che resta di un toscano acceso in mattinata. Gringo lo segue ciondolando sul sentiero, tra i cespugli del parco, per via del troppo Ramazzotti ingurgitato più o meno dallo stesso momento in cui Nebbia, stamane, inaugurò il sigaro. Ma con la pistola in mano.
«Vado a pisciare dietro la siepe», avvisa l’amico davanti a sé. Nebbia non si ferma, rallenta appena il passo. Si ferma a bocca spalancata dieci secondi dopo, nell’istante in cui uno sparo alle sue spalle lo fa sobbalzare dai sandali.
«Un urlo terrorizzato si alza nel cielo fino alla luna. Da dietro la siepe balza fuori un uomo completamente nudo, ma col cappello da vigile urbano. Alle sua spalle, si ricompone un donnone che sembra avere qualcosa in più tra le gambe e che fugge via in direzione opposta. Il vigile nudista ha il fiatone, ma trovandosi davanti a Nebbia, preferisce non farsi prendere dal panico e, con il piglio dell’autorità, lo redarguisce pure: «Che c’è da vedere?!! Mai visto un uomo sudato? Circolare!» e sparisce tra le piante.
Nebbia resta lì com’era un minuto prima, con la bocca spalancata, come una vignetta senza parole. Passano pochi secondi e un rutto precede, da dietro il cespuglio, l’incedere barcollante di Gringo. «T’è mia vist una léura?»«Una lepre?»
«Ho visto due orecchie agitarsi lì vicino, mi parevan due orecchie di lepre. Ho pensato al salmì, ma boiavacca, con tutto sto Ramazzotti in corpo, non so dove l’ho presa. Dal verso però ma pareva più un fasàn».
«L’hai ciccata Gringo, la léura l’è scapata e il fasàn l’hai mancato».
Dal mattino presto, il giorno seguente, sul posto operano carabinieri e cronisti, in un chiacchiericcio fatto di domande e risposte, mentre è in corso un sopralluogo: Nebbia è già tornato sul luogo del delitto, è lì sotto un platano, appoggiato alla Graziella e ascolta le voci che si sovrappongono, tra le panchine. «Un vigile urbano aggredito, ha denunciato lui stesso stamattina». «Ferito? No, denudato di tutto, dal cinturone alla divisa, tranne il cappello che ha difeso strenuamente». «E chi potrebbe essere stato?», «S’indaga nell’ambito della malavita degli spacciatori», «Testimoni?», «Nessuno», «E le mutande di pizzo rinvenute sul luogo dell’aggressione?», «Non comment». «Qualche dichiarazione sul borotalco rinvenuto nei pressi della mutandina?», «No comment», «E il libretto di aforismi rinvenuto lì vicino?», «Lo faremo analizzare, ma è visibilmente compromesso da sostanze organiche».
Un libretto bagnato, puzzolente e scolorito, ma aperto casualmente a pagine 17, alla frase: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. «Salvato dalla pipì», ridacchia Nebbia, ripensando a Gringo.

Il mestiere, la cassa integrazione e la resistenza

Pizzo e raso: Chantal nutre da sempre una passione quasi morbosa per questi dettagli, nella lingerie. E da una sottoveste di pizzo e raso, nella notte, ha ricavato un velo da chiesa, l’ha cucito con grande dedizione ed è venuto pronto per il mattino. Non entrava nella Certosa da molti anni, ma ora, pensa tra sé, è il momento di chiedere un intervento dall’alto, anzi «non resta che affidarsi all’Altissimo», ha sussurrato a Nebbia, incrociandolo sul marciapiede che porta al sagrato. Un minuto, non di più, per confrontarsi con la croce e accendere un cero e domandare una grazia, giusto il tempo per fare venire una vampata d’inquietudine a don Nicola, quanto basta per sollevare nell’aria il chiacchiericcio di due pettegole, come il borbottìo di una pentola di fagioli in una stanza vuota.
La litania sacra non la conosce, Chantal: intona il suo lamento profano poco dopo, al tavolino del bar, davanti al suo confessore pagano, il Nebbia, che finge di leggere una pagina delle Metamorfosi di Ovidio, con gli occhi su una frase che suona beffarda: “Apprendemmo troppo tardi dai contadini, in quella pianta si era nascosta, per sfuggire alle voglie oscene di Priàpo, la ninfa Loti, mutando aspetto ma non il nome”. La ninfa Chantal chiede rifugio a Nebbia e lui, invece, fa quel che può, tenendo a bada una ormai rara impennata di desiderio.«E ora che faccio, i saldi? Chi me la dà a me, la cassa integrazione? L’affitto lo devo pagare lo stesso». Chantal, capelli rossi raccolti, occhi verdi, curve sinuose che scendono fino ai piedi, mostrando pelle liscia che fuoriesce dai vestiti, ombre tra carne e tessuto, un ‘opera d’arte un po’ attempata, ma che ancora regge bene il confronto con ben altre gatte di vent’anni più giovani: una vita a vendere intimità, a lavorare sodo con emozioni e piaceri comprate o affittate da uomini soli, deboli che fanno i duri soltanto grazie a maschere di opportunismo, benestanti annoiati, operai e dirigenti, giovani e vecchi. Ha vissuto per anni all’ombra di un’economia discreta e ipocrita, tra fabbriche, uffici, grandi concessionarie di auto, ricevendo i suoi clienti in un dignitoso appartamentino a due passi dal cimitero Musocco. Ora, con la crisi, le aziende o hanno chiuso o sono in cassa integrazione, molte si sono trasferite all’esterno della città: palazzi e capannoni si sono svuotati in pochi mesi.
Al quartiere rimane soltanto l’economia del caro estinto, ovvero pompe funebri e dintorni. Ma, seppur brava nel suo genere, Chantal non è ancora in grado di resuscitare i morti: con loro, la scollatura non fa più effetto, non gli resta che qualche fedelissimo o pochi principianti sovraeccitati da un annuncio sul giornale, gente da cinque minuti compreso il bidé. Ottanta euro gettati sempre più di rado sulle lenzuola sfatte di un letto che, in altri tempi, ha visto ben altro. Ora anche il materasso sembra soffrire la carestia e sembra incurvarsi sotto il peso dell’usura, come la gomma piuma sulle reti di San Vittore. Chantal è dama di compagnia per uomini d’altri tempi, non certo per pornografi dopati dai siti internet, non ha futuro nella Milano bulimica del sesso che sa di cocaina. E sul marciapiede non ci vuole più tornare, sono vent’anni che non lo fa più così.
«La commessa? Potrò mai fare la commessa?»
«Ah, perché no? – la consola a suo modo Nebbia-. Ne cercano uno, di commesso, giù in ferramenta. Uomo o donna, non stiamo a sottilizzare, meglio donna, no? Secondo me, tu vai bene in ferramenta».
«In una ferramenta ci sono entrata una sola volta nella vita. Per una scommessa con la Wanda, quella che lavorava a piazza Firenze».
«E hai vinto?»
«Certo, ma erano solo diecimila lire. Dovevo entrare e mangiare una banana».
«E com’è andata?»
«L’ho fatto. Solo che la banana mi è un po’ rimasta sullo stomaco, non la digerisco bene».
«Potresti rifarlo. A scopo promozionale, diciamo così».
«Non rimedierei neanche una sveltina, in ferramenta girano certi calendari… con tutte quelle bambolone gonfiate dal silicone».
«Ah se non c’è partita in ferramenta, prova giù al centro anziani, con certe pilloline oggi si fanno i miracoli anche a settant’anni. Guarda cosa succede in Parlamento».
Chantal sorride e non dice nulla, si fuma una sigaretta lì al tavolino e, dopo il caffè, si alza e sparisce dietro l’angolo con un ancheggiare da ragazzina. Nebbia china di nuovo il capo su Ovidio “Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!”.
L’indomani, verso mezzogiorno, il silenzio unto di afa di una mattinata di luglio è rotto da sirene d’ambulanza. Nebbia, dal marciapiede del viale, allunga il collo e cerca di capire dove è diretta: proprio giù in fondo, all’altezza del condominio della Chantal. Centoventi passi, non di più per scoprire l’ennesima “tragedia sul lavoro”.
I portantini si affrettano a varcare l’uscio e a caricare sull’autolettiga le spoglie del povero Brambilla. Sì, proprio lui, il Vanni Brambilla, ex partigiano duro e puro, da anni asserragliato al circolo per anziani dietro bandiere di una rivoluzione mai avvenuta, vittima della sua unica debolezza: il veleno del capitalismo si è impossessato della sua mente con l’illusione dell’elisir di lunga vita e lunga durata, sottoforma di pastiglie azzurre acquistate sottobanco alla farmacia di Pero. Un solo errore, una sola volta, quella fatale. Vanni Brambilla saluta il mondo dalle lenzuola della Chantal. Nell’ultimo bagliore di luce ha visto e accarezzato morbide fantasie di pizzo e raso: caduto sul campo di battaglia, non sotto i colpi dell’artiglieria tedesca, ma per troppo ardore, per aver creduto in una finta giovinezza.
Nebbia sta lì, seduto sul marciapiede, guarda l’ambulanza allontanarsi senza più la sirena accesa. La strada del Vanni, verso l’obitorio è breve: «Tanto poi torni domani da queste parti, rifarai la strada fino giù in fondo». Pensa ad alta voce, guardando verso il cimitero Maggiore. Cinque minuti dopo scende Chantal con una valigia in mano e il magone negli occhi: «Nebbia, ciao Nebbia. Io glielo dicevo al Vanni di frenare. Va piano Vanni! Sta fermo! E invece al sa tegneva mia e l’è scoppiato».
«La resistenza. Tradito dalla resistenza. Segno dei tempi. Forse era meglio la ferramenta, con ‘sti vecchietti si corrono dei rischi».
Solo un cenno di saluto, prima di salire sull’autobus, con la valigia in mano: Chantal saluta Musocco e il suo mondo finito in cassa integrazione. Destinazione ignota, ma Nebbia non si rassegna: «Prima o poi torna. Finire come il Vanni, magari a 99 anni, sarebbe il mio sogno».

La disfatta dell’anarchico

«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato». (Matteo 28,19-20)
Nina Orapronobis ha una fede inattaccabile, non c’è tentazione che faccia breccia nel suo cuore. Nebbia ogni tanto la incontra lungo la strada che conduce alla fermata del tram e, ormai, ha smesso di discutere con lei di religione: qualche anno fa, ci passava svariate mezz’ore a contestare le certezze della donna, in materia di aldilà e profeti. È la colonna portante della sezione locale dell’Aziona cattolica, la Nina: inversamente proporzionale al suo aspetto, esile come un roditore, ma un gigante nei valori. Nebbia ce l’aveva in particolare con la vecchia storia della castità – non che la Nina l’avesse mai indotto in tentazione, ipotesi peraltro fin troppo audace per la fantasia di chiunque – e con l’influenza clericale sulla vita politica. Ma la Nina, nulla, aveva sempre replicato colpo su colpo a ogni provocazione, come un libro stampato e quando si ritrovava messa all’angolo, sfoderava un vecchio adagio, che le figlie di Maria, anni fa, sbandieravano come un grido di battaglia: «Sott al campanin sa fa mai cattiva fin».

Da qualche anno, però, il tarlo della politica aveva in qualche modo intaccato il suo integralismo, noto in tutto il quartiere. Lì c’era ancora da litigare, secondo Nebbia. Lo scudocrociato in decadenza non fa più breccia nell’affetto di una generazione, dopo cinquant’anni di battaglia contro una falcemartello che, all’ombra della Certosa, non si è mai capito bene cosa e chi insidiasse. Nina ha nel cuore la figura di un novello cavaliere della salvezza, che gli ha comunque permesso di salvaguardare il suo motto, che vive da cinquant’anni: «Il genio del male va respinto dai luoghi di potere, via i senzadio dai posti di comando», inculcavano dai pulpiti. E le angeliche portatrici del messaggio evangelico, delle quali Nina era la guida, erano in prima linea, con le loro voci eteree, nel trasmettere dai marciapiedi fino su, ai terrazzini più miseri di ogni condominio, il messaggio chiaro che veniva dal fronte bianco contro l’anticristo, in genere di colore rosso e con barba e capelli incolti. Nunc et semper, nelle case degli italiani, dai marciapiedi alle tivù.

Caso vuole che Nebbia rientri perfettamente nella fisionomia del maligno: la natura lo ha fatto troppo simile a Karl Marx, in quel suo irsutismo che non lo fa certo somigliare a una creatura angelica. Nebbia vive l’anarchia, è anarchia fatta persona, ma la gente lo crede comunista. E lui ci gioca, su questa ambiguità, soprattutto con la signora Orapronobis, immacolata anche nella cabina elettorale: «La rivoluzione può darsi che non avverrà mai, ma lei sarà travolta dall’esercito del presidente, cara Nina, un plotone di maggiorate chiappe al vento».
«Muccala Nebbia, lavati la bocca, sempre con questa calunnia montata ad arte. Ci vuol rispetto per chi lavora. Famiglia e lavoro, che ne sapete voi che vivete allo stato brado?».
«Ora et labora Nina, che il tuo presidente tromba… ma che ne sai tu di sta materia? Al catechismo non le insegnano queste cose, ma al night club da oggi si prendono i voti dei cattolici».
«Sempre il solito volgare, sei un panefanagott, sempre in giro a spese della società. E ringrazia che c’è la carità cristiana, altrimenti quelli come te… dritti all’inferno da un pezzo».
Parla così bene il presidente, è gentiluomo vecchio stile: «L’è anca un bel omm. Si vede che è uno che si è fatto da solo, che lavora. Ci piaccion le belle donne? Chissà quanto ricamano quegli invidiosi dei suoi avversari. Già, l’invidia è una brutta bestia. Il vescovo dice che bisogna difendere la famiglia, lui è il baluardo».
«Ma se il suo partito è un covo di divorziati!».
«Va, va Nebbia, lassum istàa, ti ghe madumà ball. A contare le frottole, vai all’osteria».
Tutto il cancan sulla politica di questi giorni, ha fatto venir voglia pure a Nebbia di andare a votare. Il certificato elettorale, immacolato e inviolato come la Nina Orapronobis, è presto ritrovato, sul fondo di un vecchio cassetto. Seggio 3, non si può sbagliare: «Vado là e mi diverto io, poi. Io sì che ho le idee chiare e mai le nascondo».

Dieci minuti in coda, non di più, carta d’identità alla mano. Piccole formalità burocratiche per sentirsi, con matita e scheda in mano, di contare qualcosa: «Lo Stato mi dà il potere per un giorno, io lo uso come mi pare», dice tra sé. Se un anarchico va dallo Stato, deve valerne la pena. E Nebbia ha deciso che oggi ne vale la pena, ribadendo un motto che ha fatto storia tra i contestatori: “viva la gnocca” scritto a caratteri cubitali. Ecco il suo voto, in disprezzo al sistema: dietro la tenda della cabina è pronto al suo gesto, come un terrorista delle piccole cose. Ma un terribile dubbio lo assale, imprevedibile: «Mund lader, ma viva la gnocca è la linea del presidente, non si può dar ragione a quello là». Bisogna pensare a qualcos’altro e, soprattutto, mai arrendersi alla scheda bianca, simbolo dell’inconsistenza: «Se io conto, qualcosa devo scrivere su sta scheda». Passano i minuti e alle sue spalle, là fuori, c’è chi mugugna.
Mai accaduto prima. Nebbia è nel panico e, in cerca di una soluzione, gli capita di fissare i simboli dei partiti: tanti disegnini, «qualcosa bisogna pur scegliere», gli balena per la testa. «Ma quanti sono? Ma chi c…, ma come cavolo». La mente è come un flipper in tilt, gli occhi vagano da un simbolino all’altro e, assalito da un senso di disperazione, quasi sfinito, mette la sua croce che sembra uno sbrego sulla scheda. Chiude il plico senza pensare, senza vedere, imbuca nell’urna e scappa via, in dieci secondi, senza dar peso agli altri che lo osservano perplessi. Fino al marciapiede, giù in strada, appoggiato al muro della scuola: voto regolare e conteggiato, il primo nella sua carriera di anarchico. Segno della resa. Rinsavisce e ricorda: una croce su quel tricolore su fondo azzurro… «Boiavacca, ma perché non sono andato a pescare!», impreca ad alta voce.
Il presidente ha vinto anche stavolta, l’esercito delle maggiorate sventola bandiere e poppe. La Nina, che il reggiseno non l’ha mai indossato perché non previsto dalla scritture, passa di lì e, senza sapere, rifila una battuta che sembra un gancio di Mike Tyson: «Che l’amore trionfi, figliolo. Ma voi comunisti sapete anche leggere, per votare?». La disfatta è compiuta: «In saecula saeculorum, amen», risponde Nebbia.
“Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi” (Niccolò Machiavelli, Il principe)

Erba, sangue e cani al Gallaratese

Dove finisce Milano oggi c’è un coltello insanguinato. Nebbia non ha voglia di scherzare, passa e va. Uomini e bestie non si distinguono più sotto la lurida skyline di una periferia. Trent’anni fa, i cattedratici applaudivano al Gallaratese come a un’opera dell’ingegno e dell’architettura ed è da quel giorno che, lì, dove finisce Milano, si è davvero cominciato a non distinguere più tra bestie e uomini. In un grigio parco di periferia c’è una primavera che non riesce a lavare via lo sporco di decine di cani in processione, tutti a cagare, sotto lo sguardo assente dei loro padroni, un vecchietto scatarra sull’erba bagnata dal sangue di una povera donna, poco più in là due studenti pomiciano, due ragazzine starnazzano con lo sguardo appiccicato ai loro telefonini, una signora fuma e richiama il proprio figlioletto mentre getta a terra, sul vialetto, il suo mozzicone in mezzo a miliardi di cicche. In centro e sui giornali s’infervora il dibattito sulla cultura, nomi illustri in prima fila, parole vuote, ma di bell’effetto. In un parco di periferia, invece, si respira aria putrida di una società in decomposizione: uomini e bestie, o forse solo bestie, tirano a sera per accendere la tivù. Un coltello insanguinato non arresta la lenta routine di un mondo indifferente, una donna assassinata su una panchina è fagocitata dalla noia quotidiana.

Asini e capre sulla via dell’esodo

Troppe insufficienze nelle scuole di Milano. Stamane Nebbia sente la primavera, ha voglia di scherzare: «Nel 1848 Dracula si sfamava soltanto con donne vergini, nel 2009 è morto di fame. Per sopravvivere gli sarebbe bastato accontentarsi degli asini». In fondo alla via che conduce alla Certosa, la famiglia Soldini esce di casa, mamma Concetta strattona il piccolo Kevin verso la scuola: «E che ti credi di diventare come a un tronista? Asbricate». Ma nel frattempo scatta una musichetta proveniente dalla borsetta, “Se mi lasci non vale” di Julio Iglesias, esclusiva suoneria per il cellulare last generation, degno accessorio per Concetta, di professione stiratrice: «A sei tu, Silvà?» Pausa. «Ma l’hai sentita a quella? A Veronica adesso fa la gelosa e già sapeva che aveva sposato a un presidente… Kevin asbricate che facciamo tardi a scuola». Altra pausa. «E come va la tua Sheila? Sempre sotto in matematica? Sempre quella stronza dalla Cangini, quella se la tira e fa le preferenze, e la chiamano professoressa. A quella! Il mio Kevin? Matematica sì è un po’ giù e anche con l’inglese non si sente a suo agio. Forse per lui era meglio il francese. Comunque lo sto facendo fare alle ripetizioni, così recupera. A giugno mio marito ha prenotato». Ennesima pausa. «Sì guarda, la Sardegna è meglio andarci a giugno, a luglio è come a Rimini». All’estremità opposta del viale, suona la campanella. Kevin corre dentro, non saluta e sputa un chewing gum sul marciapiede. Seduto al tavolino del bar, Nebbia fuma e osserva: «Istruitevi, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza; organizzatevi, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza. Teoria e pratica per le partenze alternative, nulla più».

Rubato un Pomodoro

«… mi sarei aspettato una melanzana». Il volto di Nebbia è corrucciato stamattina, dietro a una nuvola di fumo e a un foglio di giornale. «Un pomodoro del valore stimato di 50.000 euro. Ma l’arte, si dice, non ha prezzo… e se ce l’ha, secondo me, significa che non è arte, ma roba da ortomercato. Oggi tra le cassette scaricate dai camion ho rubato anch’io. Con questi prezzi, non si può fare altrimenti. Ma non c’è strada, bisogna arrangiarsi, io sto con Obama, ma Obama non sta con me, quando è il momento di mettere qualcosa sotto i denti».
È tempo di semina, negli orti abusivi ai confini della città: non esattamente il giardino della Casa Bianca, ma i muri di cinta imbiancati del Cimitero Maggiore fanno da riparo a un’improvvisata piantagione di clochard contadini: Nebbia ha le sue piantine di pomodoro ben nascoste, dall’altra parte della strada. Ci va a dare un’occhiatina ogni giorno, dopo pranzo. «Passo di là a concimare, tutto naturale e io sono regolare, come un orologio». E le piantine crescono bene. «Ma mai come quelle del Tarcisio, giù vicino al cavalcavia», si lamenta. Vengono da tutta Milano a comprargli i germogli, si dice: «E io mi chiedo, ma cosa cavolo mangia per averle già così alte? No non sarà questione di concime e nemmeno di terreno, li avrà prese dai cinesi quei semi, una qualità che resiste». Ma i suoi sospetti vanno oltre l’invidia per l’erba del vicino: «Stai a vedere che c’entra qualcosa anche il Tarcisio con quel pomodoro rubato? Ieri c’erano i carabinieri con la mosca al naso…, ma il Tarcisio corre veloce, è scappato, e le piantine migliori le ha già vendute ai signori con la Mercedes». Jack, il barista, lo guarda e non sa se ridere o preoccuparsi: «Nebbia, sei sicuro che non c’entri nulla? Guarda che poi ti chiamano a testimoniare!».
«E che me ne fotte, hanno visto di persona che io faccio l’orto bio e basta. Entrano nella mia vita senza chiedere permesso e poi cosa pretendono? Mi hanno cercato loro, nonostante fossi ben accovacciato. La volante si è fermata a bordo strada, i carramba hanno tirato giù il finestrino e uno mi ha chiesto: “che fa?”, “non vede? concimo”, gli ho risposto. E volevano denunciarmi per atti osceni. Poi, però, hanno detto di andarmene che dovevano lavorare».
Si indaga sull’orto dei miracoli, ma intanto le piantine continuano a crescere un po’ più in là, anzi quasi nell’aldilà. Oltre le mura imbiancate del cimitero, sotto la lapide del fu Osvaldo Rossi, classe 1903, c’è un gran viavai di ortolani. “L’amore per la patria, generò un eroe, l’Italia tutta esprime somma riconoscenza”. E anche la luna cresce, intanto, ma è presto per sapere se sarà una buona estate per i pomodori.