Via da Milano, per non soffocare

Nebbia ha appena sfogliato il giornale, seduto al tavolino del bar dell’angolo, e si appresta a fare la valigia: “i pediatri prescrivono alle famiglie di portare i propri figli fuori da Milano”. Non un consiglio, ormai è una terapia. «L’aria è pesante. A me sembrava soltanto un po’ più fredda del solito – dice ad alta voce, di fronte al solito capannello di affabulatori del mattino -, si vede che ormai sono assuefatto. Ma ora che Clementina va via, la seguo anch’io».
Idealista senza briglie, con la sagoma di un cespuglio, nato e cresciuto con la voglia di libertà, quella che Milano ha mortificato e trasformato in alienazione, come accade a molti che approdano in periferia e rimangono intrappolati. Nebbia fa le valigie per seguire l’amore: proprio così, sotto chili di barba e capelli, c’è il volto di un innamorato. Un cuore che non batte più per la politica, ma per una trapezista del circo: Clementina ha vissuto a Milano per anni, esibendosi sotto questo o quel tendone, quello di ogni circo che passava di lì e in città si fermava. Artista stanziale di uno spettacolo ambulante, per anni trapezista precaria, a contratto settimanale.
Un amore, quello tra Nebbia e Clementina, sbocciato una mattina, proprio lì di fronte al bar della Certosa: la trapezista era in lacrime, seduta al tavolino, in attesa di un punch al gusto di rabarbaro. Nebbia vedendola così affranta le si fece incontro, con l’intenzione di consolarla con qualche sua parola. Ma Clementina non era delusa della vita, bensì piegata dalla congiuntivite: congiuntivite allergica, stessa patologia di migliaia di milanesi di questi tempi.
Una trapezista con la congiuntivite non può avere futuro in questa città. Meglio essere nomadi, dunque, con la valigia in mano, la polvere di gesso sulle dita e il collirio in tasca: Clementina ha scelto di partire, Nebbia con il cuore di un ragazzino al primo amore ora è deciso a seguirla. Anche in capo al mondo, molto più probabilmente fino al campo base di qualche piccolo circo stanziato nella campagna lombarda o piemontese, ai confini di un borgo silenzioso che odora soltanto di cenere di legna che fuoriesce dai camini e di letame che, di questi tempi, viene sparso nei campi circostanti.
Stamane Nebbia sembra ringiovanito, nonostante i suoi polmoni intasati dal tabacco: lui che ha scelto l’inquinamento come gesto volontario quotidiano, innamorato di un’artista che non può continuare a vivere in una città che soffoca. Leggeva Voltaire, ora è passato a Prevert.
Il mattino, in queste giornate di febbraio, ripropone in periferia gli stessi lenti fotogrammi di sempre. Sotto il cavalcavia di viale Certosa, uomini senza volto e senza identità, tremano e tossiscono sotto la cappa gelata della metropoli dopo aver passato la notte lì, sopra un materasso di cartone: uomini ombra o soltanto ombre di una società che non sa se allontanarli come clandestini o semplicemente dimenticarli, come chincaglieria da soffitta. La quotidianità va in scena, come sempre, anche nei giorni che a Nebbia sembrano diversi.
Scrive Antonio Scurati su La Stampa: “Vivo a Milano, come tutti. Appartengo all’umanità, una specie destinata all’estinzione, come tutte”. Nebbia legge e sospira: con Clementina prende un treno e prova a salvarsi. In contromano rispetto ai pendolari scampati alla crisi. A suo modo, parlerà della vita e della poesia alla donna cannone e al domatore delle tigri: loro sì, l’ascolteranno.

Lo stalking della bistecca

Ugo serve il brasato ai pendolari, ma Zaccaria, oggi, non è in fila con gli altri: è appoggiato al vetro del bancone delle pietanze, non ha fame, ha soltanto voglia di parlare. L’oste, invece, ha una fila lunga così, quanto il tram 14 che passa lì di fronte, di gente da sfamare, con la pancia vuota e i minuti contati: «Uè, non venir qua a menare il torrone, se ce l’hai col Milan lassa perd».
«Ma no, il calcio non c’entra, questioni di cuore».
«Oh Signùr, per il cuore spetta più tardi che smaltisco la coda degli affamati, per il fegato, invece, ciapa qui un piatt: è alla veneziana», e gli porge la pietanza. Mangia nell’angolo, Zaccaria, mastica lentamente e non riesce, quasi a inghiottire.

Ugo lo scruta dall’alto verso il basso, quella faccia da pesce lesso non lo convince proprio. Finita l’ora di punta della pausa pranzo, l’oste gli si piazza seduto di fronte e lo osserva, faccia a faccia. Zaccaria deglutisce e attacca il discorso: «Ti sentiresti offeso se trovassi una bistecca cruda nella borsetta?».
L’ex terzino prestato alla cucina meneghina strabuzza gli occhi e tossisce: «Dipende se la borsetta è di coccodrillo o pel da logia».
«Non sto scherzando, Ugo. Ti arrabbieresti a sentire la fettina umida dentro la borsetta?».
«Dai sputa tutto, che razza di domanda è questa…».

Era la risposta che attendeva, Zaccaria è come un fiume in piena: abbassa gli argini e si svuota di tutte le amarezze. Deluso in amore, è un recidivo col cuore infranto: non fa a tempo a ricucire le ferite che si procura un nuovo strappo. Sulla soglia dei quaranta, scapolo a oltranza, ormai punta ragazze nubili a tappeto, è diventato un corteggiatore da sfinimento. «Non è la qualità che conta, ma la quantità: a un certo punto». Già, la quantità è uguale a zero, la qualità è ormai un concetto astratto nei suoi pensieri. E vendicare i due di picche è diventato il suo secondo passatempo, perché le ferite aperte fanno ormai fatica a rimarginarsi, a quell’età, per uno che non si rassegna alla pace dei sensi o al sesso a pagamento. «Io sono un sentimentale, non un mercenario di carne da macello», ha sempre sostenuto con orgoglio. Anche se la carne, in realtà, la maneggia tutto il giorno, come aiuto macellaio al piccolo supermercato sulla strada verso Pero: e fu proprio lì, mentre maneggiava un pezzo di biancostato, che gli venne l’idea.

La sua prima vittima fu Irma Vanetti, un’impiegata delle poste che una mattina si ritrovò una cotoletta al sangue nella pochette di Gucci, mentre si concedeva un caffè: infilando la mano per estrarre la moneta, proprio davanti alla cassa del bar, sentì tra le dita una flaccida consistenza e quasi gli prese un colpo. Come colpita da raptus, istintivamente, tirò fuori quella roba informe e la lanciò: la bistecca, solo in quel momento capì di cosa si trattava, andò a spiaccicarsi sulla parete dietro al flipper, lasciando una striscia di sangue sul muro: come nei delitti da film horror.
Da allora, le vendette che si compirono furono a decine: come un giustiziere seriale, si prendeva quella rivincita anonima, a ogni due di picche. E agiva con la stessa abilità di un grande borseggiatore, ma al contrario. Tanto che, al comando della polizia locale, il vendicatore della bistecca era diventato un mito: e il comandante Sgarzon non vedeva l’ora di beccare il colpevole con le mani nel sacco (già proprio così) per vedere in faccia, il volto di quel sanguinario affettabovini.

Un’altra volta, infilò un osso da lesso nella borsa di Carmen Spataro, napoletana emigrata al Musocco, ma innamorata di Evandro, il ragazzo dogsitter, proprio al primo appuntamento, al parco di Trenno: e fu un disastro. Alla vista della ragazza, Evandro si sentì come trasportato dagli eventi: in balìa di quattro doberman che teneva al guinzaglio, terminò la sua corsa a cavalcioni della povera malcapitata, svenuta per la paura. Tremendissima vendetta, quella di Zaccaria.
Come quel giorno in cui colpì la povera Benedetta Lafava, dopo essersi negata a un mese di avances: scoprì soltanto dopo, il malandrino, che la ragazza aveva una totale avversione per gli uomini e i loro attributi, per via di un trauma adolescenziale, ovvero la valanga di sfottò rimediati a scuola, per via del nome. La Benedetta, quella triste mattina, fini al pronto soccorso in preda a un attacco di panico: l’allergia non le dava pace e a furia di starnuti si ritrovò a soffiare il naso dentro una fetta di carpaccio, scambiata, nella foga, per un fazzolettino umido, riposto nella sua borsetta, proprio accanto al portafoglio.

Ora confessa tutto, Zaccaria: vuota il sacco, davanti all’amico ristoratore, abituato costui a celebrare la bistecca in ben altro modo. E chiude, con un sospiro e un avvertimento: «Lo so, è questione di pochi minuti e verranno a prendermi. Con la Jole, non ce l’ho fatta a resistere, mi ha beccato».
Ugo sta lì a bocca aperta, come uomo di pietra, investito da una frana.

La Jole è la titolare di un negozio di lapidi e monumenti funerari che si trova a due passi dalla trattoria: per un mese Zaccaria l’ha corteggiata e sognata ogni notte. Le ha scritto lettere d’amore, poesie strappalacrime che, in realtà, hanno sortito soltanto uno sputo: proprio così, la Jole, esausta per i suoi continui assalti, non ne poteva più e ha pensato di liberarsi del suo spasimante con un gesto estremo, sfrontato. Uno sputo in faccia, sparato a bruciapelo, assolutamente imprevedibile, mentre le si avvicinava a lui con fare suadente, in tailleur rosso e con il volto truccato da balera e capelli raccolti dietro la nuca. Lui l’aveva guardata, pregustando il bacio e la resa, ma si è ritrovato con l’onta peggiore nell’occhio destro. Centro pieno, cuore distrutto.

Soffrire per amore, ci stava, ma umiliato no: la rappresaglia doveva essere pazzesca. Degna di Zaccaria. Ma non più con una semplice fettina, bensì con una frisona di prima qualità, chiesta a prestito all’allevamento di zio Cino, un parente uno po’ svitato per colpa di uno zoccolo in fronte rimediato durante la mungitura, anni fa. Zaccaria era arrivato a piedi, dalla cascina vicino a Bollate, e aveva fatto il suo ingresso nel locale esposizioni della Jole, tirandosi dietro quello splendido esemplare di vacca, proprio mentre si stava ultimando il pagamento di una tomba lì in bella mostra, da parte dei parenti del Callisto del Musocco: la moglie Adelina lo aveva abbandonato portandosi via la foto di Mariolino Corso, il suo idolo. E lui da allora, non fu più in sé: decise di farla finita con un’arma impropria, il fast food in fondo al cavalcavia, a colpi di hamburger e crocchette di pollo.

Callisto si era spento come una candella consunta, nel silenzio del locale deserto: il suo respiro era venuto meno al cospetto della quarantaduesima pepita impanata, inzuppata nel ketchup. Senza figli e con la moglie chissà dove, poteva contare ora soltanto sulla benevolenza della cognata Clotilde e di quattro pronipoti che, di fronte alle proposte in stile teleimbonitrice della sciantosa Jole, non avevano battuto ciglio: secondo il parentado, al Callisto sarebbe bastata quella tomba in finto marmo bianco già lì esposta e pronta all’uso, niente di meglio di un’offerta last minute, degna di una vittima del fast food.
Proprio nell’atto di regolare le ultime formalità, davanti al bancone del negozio, il piccolo capannello di parenti veniva interrotto da un muggito in stereofonia, suono terrificante, amplificato dalle pareti vuote del locale. Nel voltarsi verso l’ingresso, i cinque malcapitati aprirono uno scorcio di visuale alla Jola che, riconoscendo Zaccaria accompagnato dal quadrupede, aveva cominciato a strillare come una posseduta dal demonio.
L’innamorato non corrisposto e umiliato si era limitato a una sola frase di rivalsa: «Chi vosa pussé la vaca l’è la soa. E allora sputa sul muso a sta bestia». E se n’era andato abbandonando il bovino in vetrina, tra le lapidi in esposizione.

Fine del racconto: Ugo ha le mani nei capelli e guarda ancora impietrito Zaccaria, lasciandosi sfuggire un “tesemàtt”. «Aspetto che vengano a prendermi, lo so che sono qui. Ho saputo che è anche un reato sta cosa qui, la chiamano in inglese, una parola tipo staching», conclude il matto ripudiato dall’amata.
«Per me è scemenza, altro che staching», replica l’amico.
Ecco, poco dopo, due gendarmi in trattoria a chiedere di un tipo strano: Zaccaria si alza e si consegna, con la testa bassa, come il peggiore dei malfattori. «Vai dalla Jole a riprendere la mucca di zio Cino, per favore», dice all’oste.

Ugo rispetta le consegne, per compassione più per la povera bestia che per quell’idiota di Zaccaria. Al discount del caro estinto, la frisona aveva già sparso panico e sterco ovunque: al suo ingresso, Ugo avverte l’odore della tragedia, che sa stalla più che dell’incenso che si usa di solito in quel posto. Anche le immagini non sono da meno: la Clotilde, nonostante la sciatica e il mal di schiena, è avvinghiata alle spalle di un Cristo benedicente in bronzo di tre metri, il rifugio più sicuro per sfuggire alla terribile creatura della campagna. I quattro pronipoti, invece, sono in ginocchio attorno alla Jole, svenuta e a terra: litigano per chi deve farle la respirazione bocca a bocca, anche se lei tenta di respingerli con le mani. Sulla tomba bianca del Callisto, spicca ora un’enorme torta similcioccolato e fumante. Ugo scuote la testa e recupera la corda la collo della povera bestia e la aiuta a uscire da quel pandemonio. Ha un solo pensiero: «Eh Callisto Callisto, se fossi venuto da me, invece di andare a mangiare dagli americani, saresti ancora qui a litigare per l’Inter».

La fortuna è cieca o miope?

Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».

L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.

Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.

La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».

Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.

A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.

Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.

La legge della salsiccia

Pizza, birra e caffé? «Seicinquanta».
Spaghetti, acqua e caffé? «Seicinquanta».
Bistecca, vino e caffé? «Seicinquanta».
Nessuno conosce il suo nome egiziano e chiunque glielo domandi, lui risponde Beppe: ma per i clienti del quartiere non è credibile con quel nome, meglio soprannominarlo Mohammed, più adatto alle sue origini e al suo aspetto fisico. Ha problemi con la matematica, non l’ha mai imparata nei pochi anni, forse giorni, di scuola frequentata alla periferia del Cairo. E nemmeno la digerisce oggi: nella sua pizzeria, allora, ha fatto una scelta… di marketing. Prezzo fisso, che più fisso non si può: “seicinquanta”, è quanto gli basta per ogni bocca da sfamare, tra operai e impiegati del “mezdì”, come gli ha insegnato Nebbia che, in cambio dei primi rudimenti in lingua locale, riesce ogni tanto a spuntare pizza e birra. «Se ci stiamo dentro con i conti, va bene così», dice Beppe.
La sera, però, il prezzo fisso non vale. Per fortuna c’è Margherita, la sua figliola che ha voluto chiamare all’italiana, non per passione floreale, ma perché fu il primo nome che gli venne in mente una mattina di dodici anni fa, mentre tirava la pasta in una pizzeria: un amico vucumprà era appena arrivato a informarlo del lieto evento della moglie, un provvidenziale ambasciatore, ingaggiato poiché il titolare del ristorante non gli aveva concesso di lasciare il lavoro per rimanere accanto alla sua signora, in sala parto.

Margherita con i conti è un portento, la migliore della famiglia, ma a pranzo è a scuola: soltanto la sera può stare dietro al registratore di cassa, fino alle 10, mentre Beppe è al forno e la sua signora serve ai tavoli. Dopo le 10, Mergherita e mamma vanno a dormire, il locale chiude e il pizzaiolo si concede una pausa di piacere: non a base di sigarette o alcol, bensì mettendo sotto i denti una succulenta salamella, orgoglio della grigliata brianzola, che Beppe, l’egiziano, ama più di ogni altra cosa. La consuma calda di piastra, nel mezzo di un panino, seduto nella veranda esterna alla sua pizzeria, proprio sul viale che conduce all’autostrada: un profumo delizioso si spande lungo tutto il marciapiedi, fino all’angolo, sotto il semaforo dove sta Soraya, un travestito che fa marchette quando le serrande dei ristoranti si abbassano e i marciapiedi si oscurano. Ma per il transessuale non sembra una gran serata, questa, poiché rimedia da un’ora soltanto vaffanculo ridacchiati dai finestrini delle auto e altri sfottò.

«Già, fanculo a tutti», si lascia sfuggire Beppe, a bocca piena, mentre osserva la scena. Più che un’imprecazione, un’ode alla libertà, dopo due settimane da incubo. Tutto è cominciato in una sera come questa, mentre Beppe, seduto su quella stessa sedia, ha visto la porta d’ingresso al suo ristorante andare a fuoco per una bottiglia incendiaria lanciata da un motorino che, sfrecciando di lì a velocità folle, fuggiva in un istante lasciando in scia un grido: «Mohammed senza dio!».
Questo è stato l’inizio, la continuazione ha visto entrare in scena il brigadiere Salvatore Braccialarga: «Ma lei, signor Mohammed, è assicurato?», è stata la prima domanda.
Risposta: «Primo, non mi chiamo Mohammed. Secondo, che importa se sono assicurato? Mi hanno quasi fatto saltare in aria il ristorante, non le basta per indagare?».
«Uè, cheffà, vuol sostituirsi al mio ruolo?». Il Braccialarga indispettito per essere stato in qualche modo contraddetto, ha avvisato la Guardia di finanza che è intervenuta con il solerte commissario Lanzafame Vito, grande amico del brigadiere, allo stesso modo in conflitto con nomi e cognomi: «Sicché, signor Beppe Mohammed, lei che proviene probabilmente da un Paese arretrato è riuscito a metter su la baracca in quanti anni?».
Risposta: «Dieci».
«Come!? In soli dieci anni, lei è riuscito a guadagnare abbastanza per comprarsi un ristorante? E i soldi dove li ha presi? E se tutta la vicenda fosse una storia di pizzo? In questo quartiere sospettiamo ci siano strozzini e mezzi mafiosi…».
«I soldi li ho presi dal sudore della fronte, tutti sofferti e risparmiati e, oggi, contati addirittura da mia figlia, controlli tutta la contabilità, è tutto in regola»
«E quanti anni ha sua figlia?»
«Ma che importa?»
«E la figlia ha imparato da lei anche l’insolenza? E poi ci sono le premesse per lo sfruttamento minorile».

Un’autorità messa in discussione da un extracomunitario, non può che complicare la situazione. Tant’è che il Lanzafame ha ritenuto necessario un sopralluogo dei vigili urbani, che, rappresentati dal dinamico agente Girafumi Tullio che, dopo rapido esame dei rilievi dei colleghi, ha colto un aspetto che, incresciosamente, non era stato chiarito: «Ma lei che denuncia un atto teppistico di tale gravità, paga regolarmente il plateatico? Visto che mangiava bellamente una salsiccia al di fuori del locale, proprio durante il fattaccio…».
Risposta: «Ma che significa? Ero io a mangiare qui fuori, mica i clienti, e poi il ristorante era chiuso…». Come benzina sul fuoco.
Un Girafumi imbufalito era la cosa peggiore che potesse capitare a un pizzaiolo egiziano alla ricerca di una verità scomoda: poteva non esserlo, ma poi è diventata scomoda. Soprattutto per interessamento dell’Asl, allertata, per ripicca, dal ghisa e piombata in pizzeria a corpo morto, con le sembianze di una mole informe, ovvero i 110 chili del funzionario Losurdo Gaetano, grande amico dell’assessore. Proprio quel politico che, da anni, ha dichiarato guerra ai ristoranti etnici: «Come sarebbe a dire, signor Mohammed, che lei non ha un ristorante egiziano? Lei è egiziano? Mi faccia il piacere di essere più collaborativo e se l’igiene lascia a desiderare lo scopriremo presto».
Risposta: «Ma il mio portone bruciato che c’entra con l’igiene?».
«Ah! Ma allora lei non vuol capire, caro Mohammed. Tutti così voi musulmani: fate finta di non capire, ma so benissimo come volete fregarci. E pensate di fare i furbi con il paravento della religione: ma come la mettiamo, allora, con quella salamella di maiale, caro il mio islamico?».
«E come la mettiamo? Sono di religione copta».
«Ah sì? Ma cotta o cruda non fa differenza, sa».

Già, la religione copta ortodossa… Mentre il Braccialarga brancolava nel buio, il pizzaiolo ha tastato la pista giusta. Per risolvere il suo giallo, avrebbe dovuto chiamare Mastro Lindo, soprannome di un pony express tunisino che vive a due isolati dal ristorante: grande amico del muezzin Omar, che ha indagando nel sottobosco della comunità islamica e ha chiarito l’equivoco. Due giovani integralisti, schegge impazzite di una cellula estremista, hanno scambiato Beppe per un musulmano vero e, vedendolo ogni sera infrangere i comandamenti con quella maledetta salamella, avevano pensato di minacciarlo con il fuoco. Tutto risolto, in cambio del ritiro della denuncia.

Mastro Lindo, dopo due settimane, ha fatto il suo ritorno, con un biglietto di scuse e una pacca sulle spalle. Ma come chiudere tutta la vicenda che, come uno strano gioco di scatole cinesi, ha tirato in ballo cotanta forza dello stato assetata di giustizia?
Cinque pacchi, consegnati da un furgone frigorifero del macellaio Scafetta, il re della fettina del Musocco: cinque pacchi di salamelle nostrane, equamente assegnati. Uno al Braccialarga, uno al Lanzafame, uno al Girafumi, uno al Losurdo e uno a Mastro Lindo.

E stasera, finalmente, Beppe si riprende la libertà che, per un pizzaiolo egiziano, può essere racchiusa in un momento tutto suo, con un panino in mano e guardare il cielo: «Non sarà il cielo del deserto, ma in fondo anche questo posto ha la sua finestra per guardare su e respirare», confida Beppe alla sua salsiccia.
La poesia, però, è rotta dallo scoppiettare di un motorino che, per un istante, fa venire di nuovo la pelle d’oca al pizzaiolo: per fortuna è soltanto Mastro Lindo, con un sacchetto in mano. «Ti riporto i salami, a me non servono. Allah non gradirebbe» e li appoggia su un tavolino accanto all’esterno del ristorante.
«Non sai cosa ti perdi!». Un cenno di saluto, tra le briciole che piovono ai suoi piedi. Torna il silenzio, ma il destino di questa serata è segnato. Dopo Mastro Lindo, è la volta di Soraya, statuaria belva color d’ebano, pantera scosciata infilata in due stivaloni che sembrano trampoli, in piedi a un metro da lui: «Salsicce?» e indica il sacchetto appena abbandonato dal pony express.
Beppe fa cenno di sì: «Hai fiuto per certe cose, non fartele sfuggire».
«Allora stasera te le compro io. Mi sono rotta di starmene qui a perder tempo, oggi non batto chiodo, me ne torno a casa a mangiare. Quanto costano?».
«Seicinquanta».

La volata di Bogdan

«Settimo, non rubare!». Il piccolo Bodgan non ha idea di cosa significhi “settimo”, lui non si chiama con quel nome, ma quel grido di don Filippo, ogni volta che lo becca sul fico della canonica, lo fa sgattaiolare di scatto, giù dal muro di cinta e via di corsa sul marciapiede, dopo aver raccolto al volo il secchio e la spugna. Quasi sempre, però, allo zingarello del semaforo riesce di completare la colazione con quei frutti così dolci che penzolano a mezz’aria, a poche decine di metri dal vialone che immette sull’autostrada.

Poco prima, lascia la mamma e la sorella più piccola al capolinea dei tram, sul piazzale davanti al cimitero. Bogdan le accompagna, le vede salire sul 14, rimane lì fino a che il tramviere chiude le porte, mentre mamma ha già iniziato la cantilena per l’elemosina: “io povera, sensa casa, bambina malata, vengo da guera, prego aiutateci…”. Dal piazzale al semaforo, il posto di lavoro dello zingarello, ci sono quattrocento metri che si possono percorrere sullo stradone, oppure, allungando un po’ il percorso, si arriva allo stesso punto, ma passando per un viale alberato che conduce alla Certosa di Garegnano, non lontano dal tavolino del bar da cui Nebbia scruta il mondo, e poi, svoltando a destra si prende una strada stretta, lungo la quale, da sopra il muro della canonica, i rami di un enorme fico si piegano fin sulla strada, sembrano quasi spezzarsi per il peso dei frutti maturi: quello, ovviamente, è il percorso preferito da Bogdan, con pausa colazione inclusa.

Fino a sera, lo zingarello sa di dover rimanere al semaforo, accanto al cavalcavia dell’autostrada, nascosto dietro una colonna e pronto a sbucar fuori a ogni rosso, con secchiello e spugna pronto a lavar vetri. Quanti anni abbia non l’ha mai saputo, ma da pochi mesi Bogdan sa di essere grande, o meglio, alto abbastanza per poter arrivare con una spugna allungabile a passare per intero il parabrezza delle automobili, quelle normali, poiché i suv e altri macchinoni sono ancora inarrivabili per la sua statura. Ha poi scoperto che dall’alto dei suoi centimetri, ora, riesce anche ad arrampicarsi sul muro della canonica per raggiungere i rami più alti, quelli più ricchi di fichi e che persino don Filippo lascia al loro destino, perché non ha voglia e tempo di raggiungerli con una scala. Al prete basta raccoglierne un paio al giorno, di più non osa perché i fichi gli gonfiano lo stomaco. E allora perché non lasciar fare allo zingarello? «L’è mia tant la questione dei fichi, ma l’è il principio. Il fatto che oramai ‘sta gente, ‘sti zingheri non han paura di nessuno, già da bambini. E alùra ti ghe dè la man, si prendono il braccio. Chissà dove arriveremo di questo passo».

Ne parlava proprio l’altra sera con il Salmoiraghi, baffuto come Stalin, ma conosciuto con il nomignolo di “camicia verde” per il suo convinto attivismo leghista: «Padrùn à cà nosta», era il suo credo, imparato a colpi di vino rosso e morsi di salamella a Pontida, durante la festa popolare del partito lumbard. Don Filippo aveva voluto organizzare un dibattito “tra persone civili”, sull’accoglienza e l’integrazione e si era presto ritrovato in una bolgia tutt’altro che moderata con ovazioni e risate al grido di “gli zingari, peggio dei topi”. Per una decina di minuti, circa, il sacerdote aveva cercato di mantenere la discussione su toni pacati, poi aveva perso il controllo della sala riunioni dell’oratorio finendo per rimediare uno sputo in fronte, vile attentato a opera di un esagitato giovanotto con l’orecchino e uno spinello tra le dita che aveva chiuso il dibattito al grido di «Fasssisti».

La gente per bene non può più di questi fannulloni dei centri sociali, diceva tra sé don Filippo, intento a passarsi un fazzoletto sulla fronte mentre il Salmoiraghi regalava una perla di moderazione: «Comunista… va a dàa via i ciapp, e magari con gli strolig». Poi tutti a dormire a poche ore dal risveglio mattutino che, dopo la Santa Messa, per don Filippo aveva il sapore di una fuga d’altri tempi, in sella alla sua bicicletta da corsa modello Ghisallo, la compagna di mille avventure condivise proprio con il camicia verde che, in versione ciclistica era decisamente meno bauscia, a giudicare da come ansimava sulla rampe del Lissolo, una salita in Brianza, non lontano dalla metropoli milanese. In bici, guai a parlare di politica, era la regola numero uno. Mai. Nemmeno in casi estremi, come quel giorno in cui passando davanti al tendone della festa dell’Unità di Bollate, avevano rimediato un “drogati!” urlato da una ragazzina che quel giorno, uscendo da un dibattito, si sentiva di polemizzare sul doping, «lei che non ha mai pedalato e le farebbe bene», aveva risposto.

Pedalare, a settembre, è un piacere che aiuta a pensare, a meditare, a ricordare quando si era giovani e persino a immaginare una Milano diversa, senza quella cappa che toglie il fiato e l’odore che rovina il buonumore. Un paio d’ore in scioltezza, in maglia rosa, prima di tornare alla propria quotidianità, un prete e un politico: e in scioltezza viene spontaneo saltare l’ultimo incrocio, quello vicino all’autostrada dove, «porca sidèla, tel là», don Filippo scorge lo zingarello del mattino con il secchio in mano. Nel voltarsi ha uno sbandamento che mette fuori controllo la sua bici e quella del camicia verde, mentre alle loro spalle un automobilista spietato li urta a colpi di clacson e vaffanculo: perché non si è mai visto, a Milano, un qualsiasi mezzo a quattro ruote arrestarsi di fronte a due ciclisti fetenti. Nell’urto, la ruota della bici di don Filippo finisce nelle rotaie del tram, impennandosi sulla ruota posteriore, come un cavallo imbizzarrito. Risultato: un botto da rovinarsi il grugno che, una frazione di secondo più tardi, si ripete con un’evoluzione ancora più plastica del Salmoiraghi, che struscia sull’asfalto sbriciolandosi calzoncini e maglietta come se si avesse litigato con un doberman inferocito. «Vai Girardengo, vai a cag…..», è l’unico messaggio di conforto ricevuto da un suv alto due piani, in accelerazione.

Due corpi a terra, come due salami rotolati giù da un bancone di salumiere, nell’indifferenza dei passanti. Don Filippo ha soltanto la forza di alzare lo sguardo verso l’unica sagoma umana a un metro da lui. «Prendi questa, pulisciti con questa», gli dice il piccolo Bogdan porgendogli una bottiglietta d’acqua minerale. Stessa frase e stessa scena, Bogdan la ripete al Salmoiraghi a mezzo metro di distanza. Poi sparisce dicendo: «Spettatemi»
«Sti ciclisti hanno rotto il c…», è, nel frattempo, il messaggio di cordoglio proveniente da una Nissan. «Ma andate a piedi!» è il contributo audio di una Fiat. Senza parole, invece, il commento di una Renault che esibisce un dito medio alzato, fuori da un finestrino.

Due minuti e Bogdan è ancora lì, con una scatola di cerotti e una busta di fazzoletti disinfettanti: «Sono di mio amigo marocchino, li vende all’altro semaforo. Per voi gratis». Nello strombazzar di clacson, i due malcapitati provano a rialzarsi, don Filippo con la maglia rosa a brandelli, il Salmoiraghi con una vecchia casacca Cilo-Aufina in lana, orrendamente bucata.
«Fermi là, ho visto tutto», accorre un vigile urbano.
«E le è piaciuto lo spettacolo?», replica don Filippo., ancora sui binari.
«Tanto per cominciare, mi fornisca i documenti. Le ricordo che i ciclisti sono tenuti a rispettare il codice della strada e quel semaforo, se lei non l’ha notato, era rosso… Avanti, documenti…».
«Senti ghisa, lassa perd. Ti manca lavoro? Guarda là quanti maruchit da mandar via! Vieni qui a infierire con un curato?», lo rimbrotta Salmoiraghi che non rinuncia a far leva sulla propria fama maturata nei comitati di quartiere.
«Ah, ma è lei! Salmoiraghi! Così agghindato, mi pareva il Gimondi. Vabbé cosa facciamo…mi giro di là e non vi ho visto. A proposito…». E, nel voltarsi, il vigile urta proprio il piccolo Bogdan: «Guardalo qui, il furbone!» e lo afferra per un braccio.
«Bé spècia un attimo…», sembra volerlo fermare il camicia verde, ma con un tono più sommesso.
«Cosa c’è dottore? Non vorrà mica ignorare il problema di questi delinquenti?».
Silenzio del Salmoiraghi: ne va della sua immagine, meglio rialzarsi pedalare.

Anche Don Filippo assiste alla scena e non dice nulla, ma di scatto si rialza piazzando una testata al basso ventre dell’agente che crolla a terra rannicchiandosi sui suoi attributi spappolati più o meno maldestramente: «La mi scusi, signor vigile…non ho mica fatto apposta».
Nel frattempo si volta verso Bogdan indicandogli la sua bici e facendogli segno di pedalare via: lo zingarello capisce al volo, salta in un baleno sulla canna della specialissima modello Ghisallo e fugge via, come Saronni al Mondiale dell’82. Spinge sui pedali, in equilibrio precario, poiché ha le gambe troppo corte per riuscire a salire in sella: ma la tecnica dell’arrangiarsi lo porta lontano, lontanissimo, fino a farlo sparire nel nulla. Bogdan sapeva di essere ormai quasi grande, ma ora sa di poter pedalare su una bicicletta da corsa da grandi.
«T’è vist al bastardo?», sbotta il Salmoiraghi indicando ragazzino ormai in fondo al vialone. Detto soltanto per dovere istituzionale, di fronte alla forza pubblica che sembra imprecare qualcosa d’indicibile lì a terra, ancora alle prese con la testata al basso ventre.
Un gesto d’istinto, quello di don Filippo, ma la sua fidanzata in alluminio, la sua pantera a pedali, come la definiva lui, ora, chi la troverà mai più? «Faremo una colletta con il comitato di quartiere», lo rassicura Salmoiraghi che, alla fine, ne potrebbe trarre pure un vantaggio d’immagine. E già sogna il titolo sul giornale locale: “Rubano la bici al prete, il quartiere gliela ricompra”, con tanto di foto che, in tempi di campagna elettorale, vale moltissimo.

Notte insonne, quella che segue, sia per il sacerdote, sia per il politico: colpa delle sbucciature e degli acciacchi, bruciori e mal di ossa tipici dei ciclisti disarcionati. Notte a leccarsi le ferite e a pensare… La mattina dalla pianta di fichi mancano molti frutti: quel furfantello deve essere già passato a far colazione. Ma, oltre il muro, sul marciapiede, spicca una bicicletta da corsa, modello Ghisallo.
«Da domani, colazione senza predica», commenta ad alta voce il sacerdote.

Non c’è crisi per l’idraulico

«Mille per mille e il libro di Marco Polo, tre orizzontale». Parole crociate in libertà, di prima mattina, condivise ad alta voce dal tavolino del bar dell’angolo e per tutto il marciapiede: ecco uno dei passatempi preferiti di Nebbia che corruccia lo sguardo, si passa la matita nel cespuglio che ha al posto della barba, conosce la risposta, ma tace per qualche istante. L’enigmistica a lui serve per socializzare, per sentire una voce che si unisce al gioco e poi, chissà, finisce a parlare della vita, delle donne o dell’Inter. E intanto fuma un pezzo di toscano.
Il primo di agosto, però, i cruciverba a Certosa sono cantilena nel deserto di un quartiere chiuso per ferie, non morto, ma assopito. Non in vacanza, ma ritirato chissà dove, dietro persiane semichiuse verso strade che sprigionano calore e umidità. C’è Sandro, il barista, ma è rintanato là dentro, in compagnia della sola aria condizionata, e c’è il ragionier Ponchio che sembra non aver voglia di giocare, ma la risposta gli vien fuori così, come d’istinto per uno come lui che con i numeri ha una certa dimestichezza: «Mille per mille fa un milione, quello che mi ci vorrebbe per mandare affanculo tutti». Nebbia risponde con una risata soffocata da un colpo di tosse, perché non gli era mai capitato di sentire la voce del Ponchio e mai si sarebbe immaginato che un signore così riservato potesse lasciarsi andare con simili espressioni. Sono quattro giorni che il ragioniere passa le giornate seduto al tavolino: arriva di buon mattino, alle otto. Sta lì seduto tra giornali e caffè, ogni tanto fuma, sbircia nella sua valigetta, guarda nel vuoto, si nasconde dietro a un cellulare microscopico e tace. Soprattutto, tace. Nebbia conosce la verità, non l’ha saputa da nessuno, l’ha semplicemente intuita: il ragionier Ponchio, da quattro giorni, non va in ufficio ed è un libro aperto al capitolo disperazione. «La situazione attuale, sa, ci costringe a scelte dolorose e lei capirà, il suo rapporto di lavoro con noi finisce qui. La ringraziamo e le auguriamo buona fortuna»: è andata, più o meno, così. Licenziato in due minuti, quanto basta per buttare nel cesso ventitré anni di sacrifici, per l’azienda, per la causa comune: «Già, ma ora come faccio da dirlo a mia moglie e ai miei figli?», sono state le sue parole intrise di magone pronunciate davanti al direttore del personale. Sono passati quattro giorni e la famiglia Ponchio non sa nulla. E un ex ragioniere continua a prendere il treno al binario uno di Canegrate, convoglio carrettone privo di ogni comfort e con fermata a Certosa: a seguire, dieci minuti a piedi tra fabbriche dismesse e un cavalcavia dell’autostrada e altri cinque lungo un viale che, invece di condurre al suo ufficio, ora si ferma prima, a quel tavolino tra i platani e il marciapiede. La moglie a casa, i figli all’oratorio e lui lì seduto a consultare annunci di lavoro.
«Ditzamo, guardi, ditzamo che lei Ponchio, qui, non conta un cazzo», era stato l’avvertimento di un perfido manager di origine emiliana, ma che della sua terra, ora, non conserva che la parlata. Era un messaggio chiaro, quello, dopo che il superiore aveva scoperto che il Ponchio si era incautamente confidato al collega Perelli, noto aziendalista e spione, dicendo di volersi iscrivere al sindacato. Poi, dopo qualche settimana, altri segnali poco confortanti. «Sa, la crisi, ditzamo che richiede un’attenta valutazione, ditzamo, che prenda in esame la congiuntura che porterà probabilmente, ditzamo, a un riassetto strutturale in attesa che il mercato, ditzamo, riprenda a dare segnali confortanti»: aria fritta mirabilmente modellata da un supermanager da ottomila euro al mese, più buona uscita da nababbo, in caso di affondamento dell’azienda. Si fregia del titolo di bocconiano, l’emiliano, mica come un ragioniere qualunque, qual è il Ponchio. Studente a pieni voti presso il santuario milanese del “fàa danée” e oggi autentico sacerdote dell’unico grande credo che esalta i cattedratici della finanza: gli utili a monte, le perdite a valle. A monte ci sta lui, a valle i poveri cristi con le loro famiglie. E il Ponchio era un povero cristo, anche se non completamente scemo, tant’è che aveva colto il senso del discorso: il riassetto strutturale sarebbe passato dalle chiappe di qualcuno, forse anche le sue.
«Il milione, ragioniere, la risposta esatta è proprio milione. E lei che ci farebbe con un milione?», prova a sdrammatizzare Nebbia, lontano da lui non più di tre metri e due tazzine di caffè.
«Prima bisogna averlo davvero in mano il milione, poi quando si è sicuri di avercelo, si può ragionare. Io comincerei con l’andare fino a quell’azienda là, nell’isolato qui vicino, salirei le scale e andrei da un certo signore: “ditzamo che ora lei se ne va a fare in culo, ditzamo, a fare in culo lei, la congiuntura e il riassetto strutturale”, sarebbe il primo sfizio, poi al resto ci penso».
«Se l’avessi io, forse glieli regalerei, sa. Non me ne frega, io ci ho paura dei trop danée, caso mai mi vadano alla testa. E a proposito di testa, già sono messo male così, figuriamoci se i soldi la guastassero ancora di più. Anzi no, magari del milione farei metà: una a lei e l’altra metà me la tengo per assumere una badante brasiliana superaccessoriata, “solo distinti”. Già perché con un milione sei un distinto, mica un puttaniere qualsiasi». Ci aveva provato a dipingersi come l’uomo del gran gesto, Nebbia, ma anche in sogno sbraca sulla gnocca: ecco il vero difetto che gli impedisce di passare per filosofo professionista.
Intanto, però, il Ponchio riprende morale: «Se la mettessimo sulla fantasia, allora avrei un sacco di idee anch’io. Intanto manderei i figli a studiare in America e io e la mia signora ci passiamo un bel periodo da coppia di mezza età. Eh, la mia signora… già che ci sono, la manderei anche dal carrozziere, ma uno di quelli buoni, quello dei vip, a rifarsi un paio di taglie o tre di seno: è un regaluccio che ogni tanto mi chiede, ma che indubbiamente farebbe piacere anche a me. Mia moglie dice che la signora Santucci, la donna dell’idraulico, ha trovato una clinica in Brianza che faceva pure gli sconti e già che c’era si è fatta gonfiare davanti e tirare su dietro».
«Eccola, la piccola borghesia che si perde nel silicone!».
«Sì, ma fare l’idraulico, oggi, è quasi come fare il gioielliere. Però ha la figlia che si droga».
«Con la mamma che vuol fare la soubrette, è il minimo…io che pensavo che voi in provincia avevate le mogli che pensano a fare la salsa di pomodoro, visto che siamo ad agosto».
«La passata la troviamo al discount, quanto al resto, da noi in provincia, l’importante è che sembri tutto normale, tutto perfetto».
E anche il ragionier Ponchio, egli lo sa bene, è uomo di provincia, di una provincia troppo vicina alla città e troppo lontana dalla campagna, troppo piccola per soffocare il pettegolezzo, troppo cresciuta per essere immune dai mali tipici della periferia di una metropoli: meglio tacere, non dire, non far sapere e tutto sembrerà come sempre. Ma a fine mese qualcosa accadrà, la verità verrà a galla… È più o meno così che scoppiano le tragedie di provincia. Ma un ragioniere non può perdere la testa, dice lui, gesti insani e folli non ce ne saranno. «Domani vedremo», dice sempre. Intanto sorseggia il suo caffè davanti a Nebbia, fissando un telefonino muto.
«Quasi quasi vendo questo aggeggio al marocchino là al semaforo. L’altro ieri mi ha offerto cinquanta euro… almeno con quello ci porto la mia signora in pizzeria anche domenica, come facciamo sempre».
«Ah, per me quella è chincaglieria, ma per lei, ragioniere… meglio che lo tenga da conto, caso mai arrivasse la telefonata della svolta».
«Ah, allora per me è già venduto».
La mattinata scorre lenta e appiccicosa, il pomeriggio ancora di più. Nel mezzo, una michetta col salame e spuma nera mischiata al vino rosso, come nelle vecchie osterie meneghine. L’indomani arriva comunque, presto, nonostante la noia.
Poche ore e un nuovo caffè è sul tavolino del ragioniere, che prima di sedersi si aggiusta la cravatta proprio come se stesse per appoggiarsi alla scrivania dell’ufficio, un gesto che non ha mai perso, è come un tic. Anche Nebbia è sempre là, dove l’aveva lasciato il giorno precedente, con il cruciverba sotto gli occhi, la matita che scrolla un po’ di forfora dalla nuca e un dodici verticale da completare. Ma stavolta è Ponchio a rompere il silenzio: «Oggi te lo faccio io l’indovinello: dove va a dormire un cornuto?»
«Quelli veri dormono sempre nello stesso letto, con la moglie. Che è successo, ragioniere?».
«L’idraulico, boiavacca…Ieri ho preso il treno prima perché mi annoiavo qui al bar e l’idraulico Santucci aveva un gran lavoro sulla nostra lavatrice. Ma tra lui e la lavatrice, c’era in mezzo la mia signora…. Chela troia!».
«Oh Madonna! E il telefonino, cosa cavolo lo tiene in tasca per fare? Lei non sa, ragioniere, che è sempre buona regola telefonare alla moglie prima di rientrare in casa? E che ha fatto quando ha scoperto il fattaccio?»
«Chi ha fatto cosa? Lei, come niente fosse, è andata a farsi la doccia e almeno quella funzionava. Io, invece, sono stato cacciato di casa perché le ho detto che mi hanno licenziato, ma l’ho chiamata zoccola. L’idraulico, invece, ha tirato su i pantaloni e prima di andarsene ha pure salutato. Perché l’educazione viene prima di tutto».
«Non se la prenda ragioniere. Certo che l’idraulico è un tipo strano… manda la moglie a gonfiarsi come un canotto in clinica, ma poi si riconverte alle tardone vecchia maniera. La riparazione della lavatrice almeno l’avrà fatta gratis e le persone per bene si vedono dal saluto».
Ragionier Gianantonio Ponchio, disoccupato reo confesso e pigro nell’utilizzare il telefonino, torna sul mercato e, nel frattempo, alloggia da mamma Esterina: «Ecco dove va a dormire un cornuto di provincia. Una pensione minima in due può bastare, almeno per un po’». La povera donnetta che l’ha allevato lo considera ancora un ragazzotto che deve farsi le ossa: quarantasei anni sono pochi per capire come vanno il mondo e le donne di oggi, dice lei. «Sicuramente mi metterà a zappare nell’orto, mi ha già detto che ci sono i pomodori da cogliere. Quando ha saputo che torno da lei, è rifiorita, dice che vuol fare la salsa come tanti anni fa».
Le mamme di provincia, ad agosto, cuociono e imbottigliano passata di pomodoro. Lo fanno ancora, ma soltanto quelle dai settant’anni in su. La metropoli è lontanissima per loro, lavano a mano e non hanno tempo per i cruciverba. Nebbia farà a meno delle risposte del ragionier Ponchio, ma sui pomodori è sensibile: «Lei è fortunato! Pensi che io ho dei gran pomodori giù in fondo, vicino al cimitero, ma non ho nessuno che mi faccia la salsa».
«Se lo sapesse mamma Esterina… c’è un treno locale che ferma alla mia stazione già di buon mattino. Portali su, i pomodori, che domani facciamo giornata».

L’amore distrutto da un’oliva

Cicciuzzo non prende l’autobus di linea, ma un furgone sgangherato che lo scarica giusto davanti al cantiere, nella periferia Ovest: lavora alla Milano del futuro, è manovalanza del progresso. Parte che è ancora notte, dalla piazza del paese dormitorio, fagotto umano appoggiato alle colonne di un porticato. Lo sveglia la frenata, con scricchiolìo incorporato, del mezzo che proviene dalle baracche vicino al fiume, dopo aver caricato i fantasmi a giornata, uomini invisibili per il resto del mondo, caricati dietro, nascosti dal portellone. «Salire amigo», lo chiama Karim, l’autista senegalese. Sei posti, basta stringersi diventano sette: con le molle sfondate, ogni sedile sembra un nido di cornacchia nel quale sprofondare, mentre l’autoradio anni Settanta, a valvole, diffonde musica araba.

Papà Salvatore con mamma Rosalia erano saliti al Nord quarant’anni fa, per dare un futuro migliore ai propri figli: l’Italia del miracolo economico ha partorito una generazione di mantenuti, ma Cicciuzzo dalle case popolari non si è mai emancipato. Papà Salvatore faceva il magutt, come dicono qui, lui fa il magutt, anche se oggi il dialetto milanese non è più una lingua da imparare nei cantieri, oggi è meglio impratichirsi con i dialetti marocchini e rumeni. Il destino non gli ha concesso un gradino in più del padre, nella scala gerarchica degli operai edili: è stato superato da molti disperati, arrivati qui a bordo di un barcone di legno marcio, ma solido quanto basta per fuggire dalla fame. Non ha fatto carriera per via del suo carattere, permaloso quando non deve, bonaccione quando non conviene: «Mi arrabbio quando mi chiamano porco. Con quella parola, perdo la testa». E così, quasi apposta, i capicantiere incontrati negli ultimi anni finivano sempre per apostrofarlo in quel modo, per il gusto di vederlo andare su tutte le furie, come fanno i veterani di caserma con le reclute. «Sposta quel sacco di calce, brutto porco», gli disse un capo, quattro anni fa. E lui, come preso da raptus, prese il sacco e lo lanciò nel vuoto da trenta metri d’altezza, dal nono piano di una palazzina in costruzione, fortunatamente senza conseguenze per qualche malcapitato al piano terra. Ovviamente Cicciuzzo fu costretto a trovarsi un altro cantiere, però. Un’altra volta spaccò una pila di dieci tegole con un pugno, roba da guinness dei primati. Al cantiere del Musocco, dove lavora da un anno, tra Cicciuzzo e il maiale sembra essere tornata la pace, soprattutto perché i colleghi, quasi tutti stranieri, lo insultano in altro modo, tutta roba incomprensibile, in quattro lingue.

Di conseguenza, trascorre intere giornate sulle impalcature senza quasi scambiare una parola con nessuno, soltanto qualche parola sulle donne in generale, durante l’ora di pausa: si siede lì sulle assi, a venti metri da terra, e si rifocilla con il muso immerso nella schiscetta. Piatto unico: fagioli con cipolle e, quando mamma è generosa, vi trova anche una salsiccia. Lo sfama, ma non basta per placare la sua ossessione, il rapporto difficile con l’altro sesso: «Tu ti tromberesti la cassiera del bar lì sotto?», chiede di frequente al collega marocchino. «Que, trombesti?» risponde l’altro. E Cicciuzzo traduce nel linguaggio universale, con un gesto con la mano, e il marocchino ride. Il collega si chiama Rachid e ogni tanto si è addirittura confidato con lui: «Non è possibile che alla mia età, a trentacinque anni suonati, non abbia ancora fatto l’amore con una donna».

Centocinque chili di verginità. Cicciuzzo ci soffre parecchio e, per sfogare gli istinti, ogni giorno ci dà dentro con la mazza demolitrice: «Dammi un’ora e ti butto giù trenta metri di cemento», avverte Rachid. A volte arriva a sera che, a furia di mazzate, non è in grado nemmeno di tenere in mano la forchetta o il bicchiere della cena perché, per via dei colpi, ha le mani che gli tremano per molte ore dopo il lavoro. Una volta, alla ricerca di una terapia, aveva persino tentato un blitz dalla Chantal, la gattona, ma la scarsa abitudine alle curve femminili aveva finito per creargli il blocco del principiante, come un trapezista che, improvvisamente, scopre di soffrire di vertigini. E Chantal, impietosita, gli restituì pure i soldi: un flop a costo zero è, però, un colpo micidiale alla virilità di un magut irsuto e corpulento.

Oggi, però, Cicciuzzo ha l’aria meno depressa, anzi sembra persino sereno. Tanto che Rachid ne è incuriosito: «Che c’è oggi, hai trombato?»
«No, ma potrebbe accadere. Una donna si è innamorata di me»
«E chi è, la conosco?»
«La barista là sotto»
«Davvero? Che è successo, racconta?»
«Oggi mi ha sorriso e mi ha persino regalato un pacchetto di cicche»
«E allora? Che hai fatto, l’hai invitata fuori?»
«No, ma forse lo farò. E poi in questi giorni sto anche mettendo a posto l’appartamentino vicino a casa dei miei»
«Ma che c’entra?»
«Se la cosa dovesse andare in porto…»
«Non ti sembra di andare un po’ troppo di corsa? Un pacchetto di cicche può bastare per fare un fidanzamento?»
«No, ma è come mi guardava mentre me l’ha regalato….. ho capito che c’era qualcosa di strano»

Stasera, dunque, niente viaggio in furgone. Cicciuzzo ha deciso di tornare a casa in treno: «E se mi va bene, non rientro più, rimango lì al bar». Si precipita al bar con nobili intenzioni e il cuore che fa “bum bum”: al cantiere ha cercato di ripulirsi alla meglio, rubando un deodorante al capocantiere. Ora non è un bijoux, ma almeno sembra presentabile. In pochi secondi è già al tavolo di fronte alla cassa, ma al momento la postazione è vuota, niente barista. Ma eccola comparire: è una femmina giunonica che ama essere civetta e, per provocare i clienti, non nasconde le grazie che possiede. Che in realtà sono concentrate sul petto, enorme e prosperoso, taglia fortissima per due meloni da circo, che sembrano sempre esplodere da un momento all’altro da una scollatura generosa, ma tiratissima. Difficile guardarla negli occhi, ma Cicciuzzo è un uomo tutto d’un pezzo e con lei ha deciso di adottare la linea del massimo rispetto: se ne resta lì timido timido, sorseggiando un Crodino e mangiucchiando olive verdi.

Improvvisamente, la svolta: la donna dei sogni le si avvicina come per chiedergli qualcosa, Cicciuzzo pensa tra sé che è giunto il momento di dichiararsi. E mentre lo pensa, sente il cuore esplodere dentro di sé e una vampa di calore risalire dal petto verso il volto, paonazzo come non lo si era mai visto. Un istante, un non so che, un colpo gobbo del destino: «Ehm signorina?». Lei si china verso di lui, porgendogli il davanzale: lui, con uno stuzzicadenti in mano, prova a infilzare nervosamente un’oliva che, bastarda, rimbalza altissima, come un rigore sopra la traversa, ma finisce in rete, tra le mammelle della barista e sparisce nel buio. Imprevisto che scatena la reazione scomposta e… zac! Cicciuzzo si ritrova senza volerlo, in una frazione di secondo, con la mano infilata nella scollatura: l’istinto di voler riparare al danno l’ha rovinato.

E ora, in quei pochi secondi, è lì con la mano che brancola tra due palloni di carne, alla ricerca di un’oliva ormai dispera: è la tragedia. «Porco!! Brutto porco!», urla la barista. Tutto poteva dirgli, tranne quello: cuore infranto e cervello impazzito in una sola volta. Cicciuzzo scappa fuori dal bar, in preda all’ira: è diretto a tutta velocità contro la saracinesca di una vecchia drogheria dismessa. Impatto mostruoso e un corpo di uomo vergine che rotola scomposto e privo di sensi sull’asfalto. Ambulanza impazzita, corsa all’ospedale verso la salvezza: trauma cranico con amnesia è il verdetto per Cicciuzzo. Non ricorderà più nulla e Rachid, che gli vuole bene, gli ricorderà presto fantasie e conquiste, storie di donne ai suoi piedi, che l’hanno amato e venerato: al settimo piano di un condominio in costruzione, la vita sembra tutta diversa da laggiù.

La luna dietro ai cespugli

«Almeno lassù, il silenzio sarà vero, mica come quello di qui, che anche alle tre del mattino, la pace fa al massimo da sottofondo a un motorino con la marmitta che scorreggia». Nebbia guarda la luna stasera e vorrebbe vederla più da vicino, prendere una mongolfiera o mille palloncini gonfiati a elio. Perché su un’astronave non riesce a immaginarsi, non è capace di vedersi sposato alla tecnologia, è un poeta sempre e comunque: lo sbarco sulla luna è tornato di moda, tutti ne parlano e lo ricordano anche se, in quel 1969, non erano nemmeno nati, ma Nebbia ha un’idea “romantica” dello sbarco: «Per me si dovrebbe tornare là e farci un rifugio per quelli che si dissociano da sto mondo. Giusto un posto per riflettere un po’ e guardare la terra da lontano, prima di decidere se spararsi un colpo o tornare indietro. Uno sta lì, ci pensa un po’ e poi decide».
«Tass Nebbia, dì minga strunsà, bevi un Ramazzotti?», lo interrompe l’Alcide, per gli amici Gringo, vedetta all’ultimo avanposto di un’azienda ormai traslocata in periferia o, forse, in Cina. Se ne sono andati tutti dallo stabile del Musocco: impiegati, operai, fattorini, gran signori. Tutti tranne lui, che l’han lasciato lì a vegliare un dinosauro ormai deceduto, un palazzo che va in pezzi senza niente dentro: vive soltanto la sua stanza con un cucinino annesso. Gringo, portiere del nulla.
«No, leggo Voltaire, tu sei già al quinto di Ramazzotti, vai avanti così e ti fai tutto l’ellepi». Gringo non sa chi sia Voltaire è l’ultimo libro comparso nella sua portineria è stato un’edizione economica di aforismi, distribuito gratuitamente da un quotidiano, formato tascabile. Gli aforismi sono l’ideale per chi non regge la lettura di un capitolo al giorno e a Gringo la lettura proprio non piace: tuttavia, quel libretto lo tiene sempre in tasca, nei pantaloni, così ogni tanto tira fuori qualche frase che fa scena. Per reggere il confronto nelle discussioni «con i bauscia», dice lui. “Il riposo è una buona cosa, ma la noia è sua sorella”, trovata a casaccio sul momento. Per Gringo, è meglio l’azione: e per un portiere che vigilia sul vuoto è tutto dire. Come un soldato disperso al quale non hanno detto che la guerra è finita, l’Alcide si sfoga come può: la sua passione la s’intuisce dal soprannome, le pistole sono gli oggetti più venerati, feticci che conserva come reliquie. Arsenale tutto regolarmente denunciato e, qualche volta, riesce pure a sparare, nel parcheggio sotterraneo del suo dinosauro dormiente, ormai deserto: fabbrica munizioni in casa, scende nel parcheggio e spara, inebriato dal potere su tutto, sulla vita e sulla morte. «Per un decimo di secondo, quando premi il grilletto, sei l’essere più potente dell’universo».
«Te se matt, Gringo. Molla i cannoni, vieni con me in montagnetta, andiam su a vedere la luna», rilancia Nebbia con la poesia. E la proposta viene accettata: per noia più che per voglia.
Partenza da Certosa con un’unica Graziella, pieghevole anni Settanta, color grigio, senza cestino: pedala Nebbia e, come ai tempi della cicca bomba e della fionda, Gringo è in piedi sul portapacchi posteriore. Ma con l’inseparabile amica, la pistola, nascosta nei pantaloni.
La bici resta ai piedi della montagnetta di San Siro, la salita è a piedi, cinque minuti sotto un cielo che Milano non è abituata a trovarsi sopra la testa, con le stelle che brillano più dei lampioni e la luna, a spicchio, a dominare la scena. «Camminare su quella crosta là, mi dà l’idea di un enorme falce di borotalco…».
«Nebbia vivi proprio nel tuo mondo, qui a Milano il borotalco lo tirano su per il naso. Se si venisse a sapere che la luna è fatta di quella roba lì, l’avrebbe già comprata qualche mammasantissima». Gringo accarezza il ferro lucido dell’arma e fa venire i brividi all’amico: «E piantala con sta manìa delle pistolette, metti via sta roba che mi fai terrore».
«Ma va là che è pure scarica, anzi adesso che insisti, quasi quasi un colpo o due li metto dentro e ci sparo alla luna». Detto, fatto: con gli occhi da matto, carica l’arnese e fa partire un colpo nel cielo, verso lo spicchio argentato lontano migliaia di chilometri. Tra i due cala il silenzio.
Passa mezz’ora e Nebbia scende dal cucuzzolo, senza dire nulla, fumando quel che resta di un toscano acceso in mattinata. Gringo lo segue ciondolando sul sentiero, tra i cespugli del parco, per via del troppo Ramazzotti ingurgitato più o meno dallo stesso momento in cui Nebbia, stamane, inaugurò il sigaro. Ma con la pistola in mano.
«Vado a pisciare dietro la siepe», avvisa l’amico davanti a sé. Nebbia non si ferma, rallenta appena il passo. Si ferma a bocca spalancata dieci secondi dopo, nell’istante in cui uno sparo alle sue spalle lo fa sobbalzare dai sandali.
«Un urlo terrorizzato si alza nel cielo fino alla luna. Da dietro la siepe balza fuori un uomo completamente nudo, ma col cappello da vigile urbano. Alle sua spalle, si ricompone un donnone che sembra avere qualcosa in più tra le gambe e che fugge via in direzione opposta. Il vigile nudista ha il fiatone, ma trovandosi davanti a Nebbia, preferisce non farsi prendere dal panico e, con il piglio dell’autorità, lo redarguisce pure: «Che c’è da vedere?!! Mai visto un uomo sudato? Circolare!» e sparisce tra le piante.
Nebbia resta lì com’era un minuto prima, con la bocca spalancata, come una vignetta senza parole. Passano pochi secondi e un rutto precede, da dietro il cespuglio, l’incedere barcollante di Gringo. «T’è mia vist una léura?»«Una lepre?»
«Ho visto due orecchie agitarsi lì vicino, mi parevan due orecchie di lepre. Ho pensato al salmì, ma boiavacca, con tutto sto Ramazzotti in corpo, non so dove l’ho presa. Dal verso però ma pareva più un fasàn».
«L’hai ciccata Gringo, la léura l’è scapata e il fasàn l’hai mancato».
Dal mattino presto, il giorno seguente, sul posto operano carabinieri e cronisti, in un chiacchiericcio fatto di domande e risposte, mentre è in corso un sopralluogo: Nebbia è già tornato sul luogo del delitto, è lì sotto un platano, appoggiato alla Graziella e ascolta le voci che si sovrappongono, tra le panchine. «Un vigile urbano aggredito, ha denunciato lui stesso stamattina». «Ferito? No, denudato di tutto, dal cinturone alla divisa, tranne il cappello che ha difeso strenuamente». «E chi potrebbe essere stato?», «S’indaga nell’ambito della malavita degli spacciatori», «Testimoni?», «Nessuno», «E le mutande di pizzo rinvenute sul luogo dell’aggressione?», «Non comment». «Qualche dichiarazione sul borotalco rinvenuto nei pressi della mutandina?», «No comment», «E il libretto di aforismi rinvenuto lì vicino?», «Lo faremo analizzare, ma è visibilmente compromesso da sostanze organiche».
Un libretto bagnato, puzzolente e scolorito, ma aperto casualmente a pagine 17, alla frase: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. «Salvato dalla pipì», ridacchia Nebbia, ripensando a Gringo.

Il mestiere, la cassa integrazione e la resistenza

Pizzo e raso: Chantal nutre da sempre una passione quasi morbosa per questi dettagli, nella lingerie. E da una sottoveste di pizzo e raso, nella notte, ha ricavato un velo da chiesa, l’ha cucito con grande dedizione ed è venuto pronto per il mattino. Non entrava nella Certosa da molti anni, ma ora, pensa tra sé, è il momento di chiedere un intervento dall’alto, anzi «non resta che affidarsi all’Altissimo», ha sussurrato a Nebbia, incrociandolo sul marciapiede che porta al sagrato. Un minuto, non di più, per confrontarsi con la croce e accendere un cero e domandare una grazia, giusto il tempo per fare venire una vampata d’inquietudine a don Nicola, quanto basta per sollevare nell’aria il chiacchiericcio di due pettegole, come il borbottìo di una pentola di fagioli in una stanza vuota.
La litania sacra non la conosce, Chantal: intona il suo lamento profano poco dopo, al tavolino del bar, davanti al suo confessore pagano, il Nebbia, che finge di leggere una pagina delle Metamorfosi di Ovidio, con gli occhi su una frase che suona beffarda: “Apprendemmo troppo tardi dai contadini, in quella pianta si era nascosta, per sfuggire alle voglie oscene di Priàpo, la ninfa Loti, mutando aspetto ma non il nome”. La ninfa Chantal chiede rifugio a Nebbia e lui, invece, fa quel che può, tenendo a bada una ormai rara impennata di desiderio.«E ora che faccio, i saldi? Chi me la dà a me, la cassa integrazione? L’affitto lo devo pagare lo stesso». Chantal, capelli rossi raccolti, occhi verdi, curve sinuose che scendono fino ai piedi, mostrando pelle liscia che fuoriesce dai vestiti, ombre tra carne e tessuto, un ‘opera d’arte un po’ attempata, ma che ancora regge bene il confronto con ben altre gatte di vent’anni più giovani: una vita a vendere intimità, a lavorare sodo con emozioni e piaceri comprate o affittate da uomini soli, deboli che fanno i duri soltanto grazie a maschere di opportunismo, benestanti annoiati, operai e dirigenti, giovani e vecchi. Ha vissuto per anni all’ombra di un’economia discreta e ipocrita, tra fabbriche, uffici, grandi concessionarie di auto, ricevendo i suoi clienti in un dignitoso appartamentino a due passi dal cimitero Musocco. Ora, con la crisi, le aziende o hanno chiuso o sono in cassa integrazione, molte si sono trasferite all’esterno della città: palazzi e capannoni si sono svuotati in pochi mesi.
Al quartiere rimane soltanto l’economia del caro estinto, ovvero pompe funebri e dintorni. Ma, seppur brava nel suo genere, Chantal non è ancora in grado di resuscitare i morti: con loro, la scollatura non fa più effetto, non gli resta che qualche fedelissimo o pochi principianti sovraeccitati da un annuncio sul giornale, gente da cinque minuti compreso il bidé. Ottanta euro gettati sempre più di rado sulle lenzuola sfatte di un letto che, in altri tempi, ha visto ben altro. Ora anche il materasso sembra soffrire la carestia e sembra incurvarsi sotto il peso dell’usura, come la gomma piuma sulle reti di San Vittore. Chantal è dama di compagnia per uomini d’altri tempi, non certo per pornografi dopati dai siti internet, non ha futuro nella Milano bulimica del sesso che sa di cocaina. E sul marciapiede non ci vuole più tornare, sono vent’anni che non lo fa più così.
«La commessa? Potrò mai fare la commessa?»
«Ah, perché no? – la consola a suo modo Nebbia-. Ne cercano uno, di commesso, giù in ferramenta. Uomo o donna, non stiamo a sottilizzare, meglio donna, no? Secondo me, tu vai bene in ferramenta».
«In una ferramenta ci sono entrata una sola volta nella vita. Per una scommessa con la Wanda, quella che lavorava a piazza Firenze».
«E hai vinto?»
«Certo, ma erano solo diecimila lire. Dovevo entrare e mangiare una banana».
«E com’è andata?»
«L’ho fatto. Solo che la banana mi è un po’ rimasta sullo stomaco, non la digerisco bene».
«Potresti rifarlo. A scopo promozionale, diciamo così».
«Non rimedierei neanche una sveltina, in ferramenta girano certi calendari… con tutte quelle bambolone gonfiate dal silicone».
«Ah se non c’è partita in ferramenta, prova giù al centro anziani, con certe pilloline oggi si fanno i miracoli anche a settant’anni. Guarda cosa succede in Parlamento».
Chantal sorride e non dice nulla, si fuma una sigaretta lì al tavolino e, dopo il caffè, si alza e sparisce dietro l’angolo con un ancheggiare da ragazzina. Nebbia china di nuovo il capo su Ovidio “Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!”.
L’indomani, verso mezzogiorno, il silenzio unto di afa di una mattinata di luglio è rotto da sirene d’ambulanza. Nebbia, dal marciapiede del viale, allunga il collo e cerca di capire dove è diretta: proprio giù in fondo, all’altezza del condominio della Chantal. Centoventi passi, non di più per scoprire l’ennesima “tragedia sul lavoro”.
I portantini si affrettano a varcare l’uscio e a caricare sull’autolettiga le spoglie del povero Brambilla. Sì, proprio lui, il Vanni Brambilla, ex partigiano duro e puro, da anni asserragliato al circolo per anziani dietro bandiere di una rivoluzione mai avvenuta, vittima della sua unica debolezza: il veleno del capitalismo si è impossessato della sua mente con l’illusione dell’elisir di lunga vita e lunga durata, sottoforma di pastiglie azzurre acquistate sottobanco alla farmacia di Pero. Un solo errore, una sola volta, quella fatale. Vanni Brambilla saluta il mondo dalle lenzuola della Chantal. Nell’ultimo bagliore di luce ha visto e accarezzato morbide fantasie di pizzo e raso: caduto sul campo di battaglia, non sotto i colpi dell’artiglieria tedesca, ma per troppo ardore, per aver creduto in una finta giovinezza.
Nebbia sta lì, seduto sul marciapiede, guarda l’ambulanza allontanarsi senza più la sirena accesa. La strada del Vanni, verso l’obitorio è breve: «Tanto poi torni domani da queste parti, rifarai la strada fino giù in fondo». Pensa ad alta voce, guardando verso il cimitero Maggiore. Cinque minuti dopo scende Chantal con una valigia in mano e il magone negli occhi: «Nebbia, ciao Nebbia. Io glielo dicevo al Vanni di frenare. Va piano Vanni! Sta fermo! E invece al sa tegneva mia e l’è scoppiato».
«La resistenza. Tradito dalla resistenza. Segno dei tempi. Forse era meglio la ferramenta, con ‘sti vecchietti si corrono dei rischi».
Solo un cenno di saluto, prima di salire sull’autobus, con la valigia in mano: Chantal saluta Musocco e il suo mondo finito in cassa integrazione. Destinazione ignota, ma Nebbia non si rassegna: «Prima o poi torna. Finire come il Vanni, magari a 99 anni, sarebbe il mio sogno».

Divorzio di diamante

5 giugno 2009, cielo velato e aria meno afosa del solito. Adelina del terzo piano, interno tre, a due minuti di strada dalla fermata del tram, prepara una valigia in similpelle, sgualcita negli angoli, con i manici un po’ cotti dal tempo: prova a metterci dentro quel che ci sta, quel che pensa di salvare da una vita, dopo sessant’anni tra quattro mura a far minestroni. Alle otto del mattino ha sciolto un nodo che aveva dentro, nella bocca dello stomaco, dal 5 giugno 1949, giorno delle sue nozze con Callisto Bianchi, nato e cresciuto al Musocco, con l’intenzione pure di morirci in quel quartiere. Ma l’Adelina no, ottant’anni suonati sono l’età giusta per scendere al piano terra e sparire verso la libertà che l’aspetta alla fermata del tram. Alle otto del mattino ha celebrato le sue nozze di diamante con un solenne “vadavialcù”, in stereofonia con finestre aperte e vento che spirava verso il bar, dove Nebbia seduto al suo tavolino ha sentito bene. Il Callisto non l’ha nemmeno guardata: in canottiera, appoggiato sui gomiti alla tovaglia cerata del cucinino, ha continuato a fissare il suo bicchiere semivuoto e il bottiglione di rosso dell’Oltrepo semipieno, masticando uno stuzzicadenti. L’Adelina ha preso fiato, si è gonfiata il petto e l’ha sgonfiato sul volto del marito. Vadavialcù, simbolo di redenzione di una casalinga che sta per partire verso l’ignoto.

Il 5 giugno 1949, a sposare il Callisto ci era andata in bicicletta, partita da una corte del Giambellino con mamma Ines, papà Giuseppe e i fratelli più piccoli, Rosaria e Santino. Per lei, papà aveva fatto il sacrificio di acquistare una Dei di seconda mano, nera e con i freni a bacchetta, regalo di nozze conquistato centellinando ogni risparmio. Tutta la famiglia era arrivata alla Certosa con altre due biciclette chieste in prestito al panettiere vicino di casa: mamma e papà in sella, Rosaria sul portapacchi, Santino sulla canna della bici usata da papà. Gli zii e altri parenti si erano arrangiati con altri mezzi o erano venuti a piedi, una decina di persone in tutto. Aveva detto sì al Callisto, perché prima o poi a qualcuno avrebbe dovuto dirlo, una zitella in casa non ci sta mai volentieri, e in fondo gli voleva bene. Gliel’aveva presentato la sua amica Gisella che, come il Callisto, lavorava in fabbrica a Greco. Si erano conosciuti per caso in una balera improvvisata fuori da un’osteria: ci andava di nascosto per ballare mezz’ora, non di più, il tempo massimo consentinto affinché a casa nessuno se ne accorgesse. Anche il Callisto l’aveva sposata per amore, ma di quel giorno ricorda soltanto l’ossobuco con il risotto, pranzo da re dopo la cerimonia, alla trattoria della Nina, un vecchio locale sul Sempione. Poi via, in treno, per il viaggio di nozze: tre giorni a San Mamete, sul lago di Lugano sponda italica, ospiti della zia Giacinta.

Da allora, tutto aveva cominciato a sbiadire, destino segnato per una casalinga senza figli: sua madre gliel’aveva detto, «sensa bagai, la famiglia la va a ciapàa i quai», ma la natura aveva deciso per lei mentre il Callisto si bruciava anno dopo anno, tra catena di montaggio e osteria. Nella camera da letto c’era giusto il tempo per “svenire”: giornate senza parole, nottate solo di suoni sordi e rumori corporali.
Ottant’anni lei, ottantaquattro lui, nozze di diamante nel segno dei tempi moderni: Adelina si separa, «come la tosa della Gisella, ventisette anni, divorziata dopo sei mesi». Sessant’anni, invece, per lei: non trascorsi, ma scontati. Guarda la stanza, allunga lo sguardo fino in salotto e pensa a cosa mettere in valigia, cosa salvare: la foto di mamma, la statuetta di Papa Giovanni, “Tu sei quello”, 45 giri di Orietta Berti, e poi? Lo sguardo vaga tra pareti e mensole, Adelina prova a pensare cosa valga la pena di portare con sé di quella vita, vorrebbe scegliere mille oggetti, ma non trova niente. Prova almeno a immaginare un gesto che scalfisca la scorza spessa e dura di quell’uomo di pietra, l’orso Callisto che rivive ogni giorno la stessa trama. Da quando è in pensione, Greco Pirelli è dimenticata, gli restano l’osteria e l’Inter. Adelina allora ha una lampadina che le si accende nello sguardo, una vendetta, la ripicca che almeno lo faccia bestemmiare: c’è il quadro con la foto autografata di Mariolino Corso, in camera, stella neroazzurra che Callisto ha voluto accanto alla Madonna di Caravaggio e sta lì dal 1963. Lo spolvera ogni giorno con devozione sincera nei confronti dell’Inter dei miracoli. Un istante, un movimento rapido ed è in valigia: Mariolino Corso rapito per vendetta, da una casalinga che la domenica ascoltava la Pavone, mentre il marito, senza soldi per andare a San Siro, ascoltava le partite in cucina, alla radio, lì davanti a lei, senza mai dire una parola. «Perché perché, la domenica mi lasci sempre sola», «Adelina tass, silenzio!».

Il campanile della Certosa scandisce il mezzogiorno, l’ora del desinare di ogni operaio milanese della vecchia guardia: ma il Callisto oggi si aggira per la casa senza sentire né rumori, né odori di cucina, i polmoni scuotono fumo e catarro, con litanie di “istu” a ripetizione. Un girovagare inquieto e in preda al disorientamento, il suo, fino alla camera da letto: una parete vuota, la Madonna di Caravaggio non ha vegliato sulla disgrazia. Capisce e rimane impietrito: la moglie in fuga con Mariolino Corso, crollano certezze. Adelina corre sul 14, destinazione ignota, sui binari della libertà assapora sensazioni mai provate prima.
Passa il pomeriggio, Callisto continua a masticare lo stuzzicadenti con fare rassegnato, il volto corrucciato spulcia con gli occhiali sul naso l’elenco degli annunci sul Giorno: cercasi badante rumena, possibilmente giovane e nubile. Ma le voci a quattro, cinque stellette riportano solo le offerte di Luana, Ramona, Chantal, Sharon, Astrid: segno dei tempi che cambiano, della società che consuma, che tutto compra e tutto vende. «Lo diceva il curato che il diavolo è tra noi, il diavolo ha scelto le donne, le donne la libertà», mormora tra sé. Eppure non ha rancore: «Me lo poteva almeno dire, in sessant’anni, che teneva per l’Inter».