Ore 7,30 puntuale, tutte le mattine. L’Ernesta del Musocco è presenza fissa davanti all’altare della Certosa. Riempie il silenzio della navata deserta, con i suoi pateravegloria: un regno mistico inesplorato, lasciato in pace dalla città là fuori che tira in ballo i santi anche soltanto per un inciampo sul marciapiede. Rosario d’ordinanza o lodi mattutine, la cantilena è più o meno sempre la stessa e chi vuol partecipare tenga il ritmo dell’orapronobis, oppure non si permetta di disturbare. Roba da professionisti, vietata agli asmatici.
«L’Ernesta dialoga con il Signore», spettegola la tabaccaia in visita mattutina all’acquasantiera, giù in fondo, vicino alla porta, senza tempo né voglia di avanzare sulle panche davanti. La tabaccaia alza i tacchi e se ne va, ha già visto quanto basta per diramare il bollettino di giornata: il Signore, in realtà è un signore ben più terreno, benché l’Ernesta faccia di tutto per non dar scandalo, la tabaccaia ha capito, ha saputo, ha commentato. E le parole hanno preso a volare, gonfiando mugugni e risatine da Musocco fino a Pero.
Sulle volte vegliano figure di angeli, là in alto, affreschi del Crespi e del Peterzano, il maestro del Caravaggio: lì sotto, tra la luce e le ombre disegnate dalle vetrate, una santa donna dall’età indefinibile manda in scena il suo rito. C’è un amore che non trova consolazione, ma soprattutto il timore di confessare un pensiero impuro. Il rito dello scandalo è un gioco di gesti e parole, tra lei e il Fausto, il bonsaista, che ogni venerdì arriva in chiesa con fare circospetto. Ha in mano un mazzo di fiori e si esibisce in audace corteggiamento: lontano dagli occhi della gente, ma davanti all’Altissimo, confidando negli angeli e per non mancar di rispetto a loro e alla signora, i fiori li depone davanti all’altare. Sono per l’Ernesta, ma lei sopraffatta dalla vergogna mai avrebbe il coraggio di raccoglierli e li lascia lì in omaggio, anzi in espiazione. Fausto va oltre, lei inginocchiata davanti alla panca, lui anche, alla sua destra, solo per qualche istante: «A te ricorriamo esuli figli di Eva, a te, sospiriamo gementi e piangenti», incalza lei alzando la voce come a difendersi da una sicura avance. «A te mia cara Nesta, che sei la rugiada di questo mattino, fresca e pura nel mio cuore», incalza lui con volto fisso al crocifisso, a mezza voce, tanto da inserirsi appena nella cantilena che, dal fondo della chiesa risulta un suono incomprensibile alla tabaccaia vigile. Un minuto, ognuno con la propria preghiera, poi il Fausto si alza e se ne torna alle sue piante, a due isolati dalla chiesa. A litania finita, l’Ernesta si rialza facendo scrocchiare le ginocchia, spalle all’altare e fugge via a passo spedito, paonazza in volto, arriva a casa con il batticuore di un’adolescente e tira giù d’un fiato un sorso di grappa, per ritrovar le forze. La giornata scorre vie veloce, nella sua solitudine di vedova, scorre anche la settimana con la testa e il cuore al venerdì.
Bonsaista sì, ma quando serve il Fausto non fa le cose in piccolo, per i suoi mazzi non bada a spese e dimensioni: calle, gladioli, rose, gigli, persino orchidee. Vestito della festa, profumato al pino silvestre, fermacravatta d’argento e fazzolettino in tasca, Fausto è tutto cuore e poesia, uomo d’altri tempi: «A te, o Nesta il mio pegno in dono a te al cielo». E lei: «O Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso…». Altro venerdì. «A te Nestina mia, un segno di primavera a te a al Signore, che custodite il mio cuore…». «… preservaci dal fuoco dell’Inferno, porta in cielo tutte le anime». Il rito si ripete per settimane, ma la Quaresima del Fausto sta per finire.
Una mattina di primavera, ore 7, “la sventurata rispose”. Ernesta del Musocco sceglie l’amore con la benedizione del cielo. “In que’ momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva”. Sente dei passi avanzare dal fondo della chiesa, si volta appena, quanto basta per intravvedere una sagoma d’uomo su scarpe di vernice. Fausto oggi sembra voler esagerare, il mazzo è enorme, immenso bosco floreale, esplosione di colori che emanano un profumo di primavera che purifica l’aria inquinata di una chiesa sopravvissuta ai bordi dell’autostrada. Ernesta si volta ed esce dal banco, l’enorme cespuglio fiorito avanza lentamente su piedi un po’ malfermi. “Un prodigio della natura”, pensa lei. E rompe gli indugi: «Basta, non aspettiamo più. Ti amo, il cielo è con noi, uniamo la nostra passione». Silenzio, secondi interminabili, il tempo di far precipitare a terra l’enorme florilegio. Don Nicola sembra di pietra, bianco in volto: «Se te gh’è? Vade retro Satana». L’Ernesta spalanca la bocca,sbotta, viola in volto: «U Signùr cara Madona, al ma scusa», e fugge via. Si prepara il Corpus domini, alla Certosa, e il curato ha già un po’ sciupato i fiori per l’altare, finiti miseramente sotto i suoi tacchi, durante la fase convulsa.
In fondo alla chiesa, la tabaccaia sgrana gli occhi e si trova nelle orecchie la notizia del secolo, tutta da spifferare a manetta sulle frequenze di radiopettegola. Fausto, il bonsaista, è in coda al semaforo, arriverà in ritardo, il suo primo venerdì in ritardo. Tipico da “due di picche”. Gode soltanto il fiorista.