Lo scandalo del florilegio

Ore 7,30 puntuale, tutte le mattine. L’Ernesta del Musocco è presenza fissa davanti all’altare della Certosa. Riempie il silenzio della navata deserta, con i suoi pateravegloria: un regno mistico inesplorato, lasciato in pace dalla città là fuori che tira in ballo i santi anche soltanto per un inciampo sul marciapiede. Rosario d’ordinanza o lodi mattutine, la cantilena è più o meno sempre la stessa e chi vuol partecipare tenga il ritmo dell’orapronobis, oppure non si permetta di disturbare. Roba da professionisti, vietata agli asmatici.
«L’Ernesta dialoga con il Signore», spettegola la tabaccaia in visita mattutina all’acquasantiera, giù in fondo, vicino alla porta, senza tempo né voglia di avanzare sulle panche davanti. La tabaccaia alza i tacchi e se ne va, ha già visto quanto basta per diramare il bollettino di giornata: il Signore, in realtà è un signore ben più terreno, benché l’Ernesta faccia di tutto per non dar scandalo, la tabaccaia ha capito, ha saputo, ha commentato. E le parole hanno preso a volare, gonfiando mugugni e risatine da Musocco fino a Pero.

Sulle volte vegliano figure di angeli, là in alto, affreschi del Crespi e del Peterzano, il maestro del Caravaggio: lì sotto, tra la luce e le ombre disegnate dalle vetrate, una santa donna dall’età indefinibile manda in scena il suo rito. C’è un amore che non trova consolazione, ma soprattutto il timore di confessare un pensiero impuro. Il rito dello scandalo è un gioco di gesti e parole, tra lei e il Fausto, il bonsaista, che ogni venerdì arriva in chiesa con fare circospetto. Ha in mano un mazzo di fiori e si esibisce in audace corteggiamento: lontano dagli occhi della gente, ma davanti all’Altissimo, confidando negli angeli e per non mancar di rispetto a loro e alla signora, i fiori li depone davanti all’altare. Sono per l’Ernesta, ma lei sopraffatta dalla vergogna mai avrebbe il coraggio di raccoglierli e li lascia lì in omaggio, anzi in espiazione. Fausto va oltre, lei inginocchiata davanti alla panca, lui anche, alla sua destra, solo per qualche istante: «A te ricorriamo esuli figli di Eva, a te, sospiriamo gementi e piangenti», incalza lei alzando la voce come a difendersi da una sicura avance. «A te mia cara Nesta, che sei la rugiada di questo mattino, fresca e pura nel mio cuore», incalza lui con volto fisso al crocifisso, a mezza voce, tanto da inserirsi appena nella cantilena che, dal fondo della chiesa risulta un suono incomprensibile alla tabaccaia vigile. Un minuto, ognuno con la propria preghiera, poi il Fausto si alza e se ne torna alle sue piante, a due isolati dalla chiesa. A litania finita, l’Ernesta si rialza facendo scrocchiare le ginocchia, spalle all’altare e fugge via a passo spedito, paonazza in volto, arriva a casa con il batticuore di un’adolescente e tira giù d’un fiato un sorso di grappa, per ritrovar le forze. La giornata scorre vie veloce, nella sua solitudine di vedova, scorre anche la settimana con la testa e il cuore al venerdì.

Bonsaista sì, ma quando serve il Fausto non fa le cose in piccolo, per i suoi mazzi non bada a spese e dimensioni: calle, gladioli, rose, gigli, persino orchidee. Vestito della festa, profumato al pino silvestre, fermacravatta d’argento e fazzolettino in tasca, Fausto è tutto cuore e poesia, uomo d’altri tempi: «A te, o Nesta il mio pegno in dono a te al cielo». E lei: «O Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso…». Altro venerdì. «A te Nestina mia, un segno di primavera a te a al Signore, che custodite il mio cuore…». «… preservaci dal fuoco dell’Inferno, porta in cielo tutte le anime». Il rito si ripete per settimane, ma la Quaresima del Fausto sta per finire.

Una mattina di primavera, ore 7, “la sventurata rispose”. Ernesta del Musocco sceglie l’amore con la benedizione del cielo. “In que’ momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva”. Sente dei passi avanzare dal fondo della chiesa, si volta appena, quanto basta per intravvedere una sagoma d’uomo su scarpe di vernice. Fausto oggi sembra voler esagerare, il mazzo è enorme, immenso bosco floreale, esplosione di colori che emanano un profumo di primavera che purifica l’aria inquinata di una chiesa sopravvissuta ai bordi dell’autostrada. Ernesta si volta ed esce dal banco, l’enorme cespuglio fiorito avanza lentamente su piedi un po’ malfermi. “Un prodigio della natura”, pensa lei. E rompe gli indugi: «Basta, non aspettiamo più. Ti amo, il cielo è con noi, uniamo la nostra passione». Silenzio, secondi interminabili, il tempo di far precipitare a terra l’enorme florilegio. Don Nicola sembra di pietra, bianco in volto: «Se te gh’è? Vade retro Satana». L’Ernesta spalanca la bocca,sbotta, viola in volto: «U Signùr cara Madona, al ma scusa», e fugge via. Si prepara il Corpus domini, alla Certosa, e il curato ha già un po’ sciupato i fiori per l’altare, finiti miseramente sotto i suoi tacchi, durante la fase convulsa.
In fondo alla chiesa, la tabaccaia sgrana gli occhi e si trova nelle orecchie la notizia del secolo, tutta da spifferare a manetta sulle frequenze di radiopettegola. Fausto, il bonsaista, è in coda al semaforo, arriverà in ritardo, il suo primo venerdì in ritardo. Tipico da “due di picche”. Gode soltanto il fiorista.

Tra il paradiso fiscale e l’inferno

Il Beppe di Musocco sorseggia il suo caffè sceccherato al Parkinson, ovvero a piccoli sorsi scanditi dal tremolio del suo braccio. Per l’occasione ha indossato una giacca che manda odore di tabacco misto a naftalina, dal condominio al bar ha depistato la badante nigeriana stipendiata dal comune, dicendole che sarebbe andato a comprare la sigarette: e, invece, è arrivato al bancone del bar dell’angolo, che dà sulla Certosa. Fuori c’è il Nebbia che pontifica su Silvio e Veronica, novelli Paolo e Francesca che lui ribattezza la “bella e la bestia”. Beppe, invece, dietro il suo nasone paonazzo ha ben altro a cui pensare, sta aspettando il Tino detto “burzìn”, ex partigiano come lui, poi diventato falegname e noto agli amici per il suo attaccamento maniacale al denaro. Tirchio quanto basta, sempre sul chi va là su dare, ma ben più sull’avere, attento osservatore del mercato dal marciapiede antistante la Cassa di risparmio, dove è stato posto uno strano televisore che informa dell’andamento delle borse e dei titoli. «Il momento è serio – aveva avvisato l’altro giorno sulla panchina del parco -, prima o poi si sbaffano tutto, compresi i tuoi quattro soldi…», e aveva terrorizzato il Beppe che, dopo una vita a lavorare alla Pirelli, si ritrova a gestire un estratto conto da 3.783 euro e 22 centesimi. «Ga veur na sulusiùn – aveva risposto lui-. con lo stesso fervore di quando ci si trovava a parlare al buio nelle baite dell’Ossola, in tempo di guerra». Duri e puri, il Tino e il Beppe, mai piegati al perbenismo di questi tempi. Anche a costo di finire in commissariato a ottanta e passa anni, con la fama di sovversivi. Reato? Tre settimane fa, alle sei del mattino, si fecero beccare da un metronotte con i pantaloni abbassati mentre pisciavano sulle saracinesche del centro sociale di ultradestra “Cuore nero”, una ragazzata che un tempo finiva con uno scatto a gambe levate e una risata, oggi, con la sciatica, l’asma e la tachicardìa congiunte, si è risolto con una misera debacle.

La “sulusiùn” il Tino ce l’ha scolpita in mente da tempo, per anni ha meditato, ma mai aveva osato, per via del senso dello Stato che tuttavia cozzava spesso con la sua anima capitalista, e anche perché lo sconfinamento in un paradiso fiscale, secondo la sua coscienza, lo faceva assomigliare troppo a Berlusconi. «Ma restare in bolletta è ben diverso che non pagar le tasse, sacramento!». Il paradiso fiscale del Tino e del Beppe è Chiasso, un’oasi del risparmio in fuga a trentatré minuti d’auto dalla Certosa, cinquanta forse poco più in sella alla Gina, la Lambretta resuscitata per l’occasione. Onoratissima carriera sulle strade e nelle campagne della Brianza, dove il Tino andava a lavorare in un mobilificio, molto tempo fa: «Anca par fala partire ghe veuran i danée», aveva riconosciuto, suo malgrado, il Beppe. Per giorni i due si erano asserragliati nel garage del Tino dopo aver raccattato marmitte e pezzi di ricambio da Ciro lo sfasciacarrozze. Ma tutto doveva essere in regola per la grande fuga, bollo assicurazione, caschi: «Non dobbiamo destar sospetto», aveva avvertito il Tino. E il Beppe si era adeguato, a cominciare dalla Carta d’identità rinnovata di fresco: «E giò altri danée». Poiché Tino ci metteva l’idea e i mezzi, al Beppe toccava l’investimento iniziale, Milano-Chiasso e ritorno, tutto compreso. Il giorno precedente era andato in banca e prelevare tutto, suscitando qualche perplessità nell’impiegato allo sportello: «Ci ho delle spese, lei non le ha?», si era giustificato grattandosi la crapa spelacchiata. I suoi 3.783 euro, però, li aveva riottenuti e intascati, rigorosamente nascosti all’interno dei calzini, tanto che lo spessore delle banconote sotto i talloni lo facevano zoppicare più del solito. Nel frattempo, il Tino aveva fatto il suo, nascondendo nelle mutande i suoi 4.129 euro frutto risparmiati in 82 primavere, un rotolino accuratamente infilato sul davanti che gli davano un certo orgoglio poiché, a prima vista, la sua mutanda sembrava nascondere una virilità ritrovata. «E ma racumandi, acqua in bocca», aveva avvisato il Beppe.

Ed ora, ecco il gran giorno, ritrovo al bar dell’angolo. Il Tino è in ritardo di qualche minuto, ma dopo il caffè, Beppe ritrova vigore, è pronto e già con il casco in testa, stile Mugello. «Ma se t’è gnu in ment», gli grida il Tino appena dopo aver parcheggiato la Lambretta lì sul marciapiede. Si avvicina circospetto: «Cunt il casco in cò, pirla! Bisognava essere più sobri, facciamo gl’indifferenti», gli bisbiglia sottovoce nel bar stracolmo di operai, studenti e impiegate in attesa della propria tazzina. Ripasso generale della grande fuga, metro per metro: non lì, ma in bagno «lontano da orecchi indiscreti».

Tre minuti, non di più, tutto chiaro, si parte: il tempo di cacciare fuori il nasone dal bar e scatta un “istu” a tutto volume… Gina, la Lambretta, saluta in impennata e se ne va sotto il sedere di un grasso teppista dalla testa rasata , facendo il dito medio, sparisce dietro l’angolo lasciando in scia l’urlo di battaglia: «Assssorrreta!». Il Tino vorrebbe inseguirlo, ma al primo passo si ferma e si mette le mani al petto, un dolore gli toglie il fiato, la vista s’annebbia è il segnale, suona la campana, ma è quella della Certosa, per fortuna. Beppe ha il naso blu mirtillo, ma il cuore regge: «Vile sabotaggio, vaccaboia». Rumori di sirene, corsa al pronto soccorso, la tempra del vecchio partigiano non può piegar sial destino, al segnale venuto da chissà dove, forse anche dal cielo per ricordargli che la via per il paradiso (fiscale) è lunga e in salita. Il Tino, però, si vede già all’inferno, sente di non aver più nulla da perdere. Sulla barella del pronto soccorso, il suo volto si apre in un ghigno beffardo: la massa informe del corpo sfatto nasconde un fiero dardo proprio lì sotto le mutande, ovvero 4.000 euro arrotolati ad effetto sorpresa. Lo sguardo non indifferente dell’infermiera, ignara del trucco, lo ripaga della cocente delusione. Oggi, come nel 43, l’imperativo è resistere.

Asini e capre sulla via dell’esodo

Troppe insufficienze nelle scuole di Milano. Stamane Nebbia sente la primavera, ha voglia di scherzare: «Nel 1848 Dracula si sfamava soltanto con donne vergini, nel 2009 è morto di fame. Per sopravvivere gli sarebbe bastato accontentarsi degli asini». In fondo alla via che conduce alla Certosa, la famiglia Soldini esce di casa, mamma Concetta strattona il piccolo Kevin verso la scuola: «E che ti credi di diventare come a un tronista? Asbricate». Ma nel frattempo scatta una musichetta proveniente dalla borsetta, “Se mi lasci non vale” di Julio Iglesias, esclusiva suoneria per il cellulare last generation, degno accessorio per Concetta, di professione stiratrice: «A sei tu, Silvà?» Pausa. «Ma l’hai sentita a quella? A Veronica adesso fa la gelosa e già sapeva che aveva sposato a un presidente… Kevin asbricate che facciamo tardi a scuola». Altra pausa. «E come va la tua Sheila? Sempre sotto in matematica? Sempre quella stronza dalla Cangini, quella se la tira e fa le preferenze, e la chiamano professoressa. A quella! Il mio Kevin? Matematica sì è un po’ giù e anche con l’inglese non si sente a suo agio. Forse per lui era meglio il francese. Comunque lo sto facendo fare alle ripetizioni, così recupera. A giugno mio marito ha prenotato». Ennesima pausa. «Sì guarda, la Sardegna è meglio andarci a giugno, a luglio è come a Rimini». All’estremità opposta del viale, suona la campanella. Kevin corre dentro, non saluta e sputa un chewing gum sul marciapiede. Seduto al tavolino del bar, Nebbia fuma e osserva: «Istruitevi, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza; organizzatevi, perché abbiamo bisogno di tutta la vostra forza. Teoria e pratica per le partenze alternative, nulla più».

La trattoria dell’ex terzino

Piedi e spalle da terzino, bestia nera dei centravanti di provincia, quando il football era la favola di giovani con le scarpe grosse e la pancia vuota. Ma un piatto di minestra non lo si nega a nessuno, «Ugo piantala di tirare calci al vento, vegn a cà», c’è da lavorare, operai in bicicletta da sfamare: fine del sogno. C’era la fila fuori. Così ordinò il padre, così ha fatto lui. Vista cimitero, al capolinea del quattordici, eccolo portare avanti la trattoria, volto squadrato, naso scolpito: sembra un pugile, ma è la risposta meneghina al fast food, “mangia alla svelta” e torna a lavorare.
C’è ancora la fila fuori, gli operai sono spariti, ma i becchini del Maggiore ci sono sempre, per quelli non c’è cassa integrazione. Là, dietro il cimitero, finisce Milano, davanti, invece, l’industria della vedovanza è sempre florida e, anche se sembrerà umorismo nero, il tempo pare essersi fermato. E qualche “sciura” col velo nero, di tanto in tanto, non rinuncia a consolarsi con un piatto di trippa fumante, ma soltanto dopo il rituale saluto al caro estinto. Pancia piena e pace all’anima sua.

Verso i quartieri “bene”, la concorrenza è un fiorire di lounge café, brunch, happy hour, burger land, sushi bar: Ugo, invece, rimesta pentole che sembrano vecchie di cent’anni, ma non invecchiano. Perché laggiù, sotto i portici, Milano è diventata una città bugiarda, che mente a se stessa e agli altri: qui, invece, si respira sincerità, la si distingue ancora bene nel profumo di vino di un brasato. Ugo non mente, qui si mangia quel che c’è e guai a chi storce il naso: è la rivincita dei “pulpett cunt i verz” contro ai nuggets precotti e unti, dell’onesta cotoletta che, altrove, soccombe con insalatine plastico/dietetiche. Nervetti e cipolle contro rucola e gamberetti, carpione di curegùn opposto al pesce crudo giapponese.

Una zuppa di fagioli non ha mai mentito, caso mai lo fanno, dopo, i becchini del turno del pomeriggio, con balle che puzzano di zolfo e fuochi fatui, ma in una redazione di giornale non c’è scampo, meglio evitarsi gli sguardi atterriti di segretarie “drogate” di Chanel: una più prudente lasagna non manca mai, come alternativa. Basta non darla vinta al fish & chips o agli involtini primavera.
C’è la fila fuori, ma Ugo serve “fast”. Anche il suo cuore, ogni tanto, corre veloce, tanto da far sospirare la signora che gli sta accanto da sempre, o quasi. “Niente paura, resisto”, risponde lui, facendo le corna. La grinta del terzino c’è ancora, c’è sempre traccia di quel sogno “anni Sessanta” affogato in un paiolo di polenta, ma riaffiora di tanto in tanto, accompagnato da un bicchiere di bonarda. Sincero, non mente mai.

Pina va in pensione e «Forza Milan»

«Sei per sette? Dunque, sei per sette diviso quattro, più tredici…Frenco, lo fai anche tu il sistemone?». Pina, la barista non si separa mai dalla sua calcolatrice, una Sciarp, sottomarca comprata al discount, ma perfettamente funzionante. Forse. «Quanto pago?». «Il caffè più il giornale, dunque… ottanta più un euro, uguale uno e ottanta. Che mi dai, cinque euro? Ok, due e venti di resto a te». «Se vogliamo essere pignoli, mi deve ancora un euro di resto, se vogliamo…». «Vogliamo? Ah, che sbadata, ho sbagliato a schiacciare i tasti. Sa, queste calcolatrici hanno sempre i tasti troppo piccoli, io comincio a vederci poco…». La sua è una forma di astigmatismo per eccesso, mai per difetto, però. Ma i clienti fedeli la perdonano: ci prova sempre, ma è così simpatica…

E il sistemone? Sono giorni che fa i conti, c’è il Superenalotto, jackpot da favola, che mette a dura prova la Sciarp. Tutte le mattine, scatta il tormentone che è diventato un affare di quartiere: «Una quota, vuole comprare una quota? Un euro, due euro, cinque euro». La squadra conta già 20 giocatori, si punta ad arrivare a trenta, trenta sognatori che, puntualmente, al lunedì mattina li ritrovi tutti lì, a pensare a quel 22 che non è uscito, anzi che non esce da mesi. «Ma è meglio non cambiare, facciamo sempre la stessa giocata». La Pina suggerisce la strategia, tira le fila di questo plotoncino di devoti alla cabala che, prima o poi, dicono, mostrerà loro le terga e li sommergerà di fortuna. Per ora, le terga le porge il popolo che si affida alle illusioni delle roulette di Stato: «E lo zio vince anche stavolta», sfotte un meccanico in tuta blu, che sorseggia al banco il suo cappuccio. «E lo zio chi sarebbe, il governo?» ribatte la Pina indispettita. «Il Berlusca vince sempre, comunque», è la risposta pronta.
Pasticcio fatto: con la politica di mezzo, scattano i battibecchi. Talk show in corso. Caffè e grappino alle sette e mezza, Gazzetta sul tavolo, il vecchietto del piano di sopra ha la sua massima: «Quant la merda la munta al scagn, o che la spussa o la fa dagn». Silenzio. Facce perplesse, punti di domanda stampati negli sguardi: «asssorreta, che minchia hai detto?», risponde il più colto dei teatranti. «Forsa Inter, Milanista dal menga», rilancia. E a questo punto, è tutto chiaro e i toni sbracano, ma la Pina getta acqua sul fuoco: «Gratta e vinci, fatevi un gratta e vinci e finitela lì», e distribuisce biglietti che sono pur sempre un euro in più da mettere nel cassetto, oltre agli ottanta per il caffè.
Nel frattempo, uno studentello va a pagarsi la merenda: «Un croissant». «Un cruà? E che è?!», alza lo sguardo al cielo, la Pina. «Una brioche!», riprova lui. «Ahh, così è chiaro. So’ di Foggia, io. Mica lo parlo il francese». Subito dietro, in coda, c’è il meccanico che ha fretta: «Pina ho vinto, paga qui paga qui! Dieci euro, ma vai!!!!». Commento urbi et orbi del vecchietto: «Quand v’un l’è furtunà ga pioeuv int al cuu anca quand l’è setà». Il chierichetto in tuta blu riscuote la vincita e intona il suo alleluia: «Forza Milan» e così sia.
Qualche secondo di silenzio, parlano solo i fogli della Gazzetta e del Corriere che si sfogliano ai tavoli: Kakà rinuncia a 19 milioni di euro l’anno offerti dal Manchester City. «Grande uomo, gesto fatto col cuore». Sbarcherà il lunario con i 6 milioni e rotti che prende in Italia. Il borbottìo intermilanista s’interrompe: «Oggi, ultima giocata. Da domani largo ai giovani». La clientela non capisce, la Pina spiega: «Domani vado in pensione, faccio la nonna a tempo pieno». Nessuno trova le parole, tranne il solito “politologo” che si sente in dovere di rincuorare tutti: «Eccccè la crisi, signori, c’è la crisi eppure si va ancora in pensione. Se non c’era a Berlusconi, altro che pensione!». Intanto, mentre parla, brucia il suo quindicesimo euro al videopoker.

Nebbia tra notizie, letteratura e caffè

Semplicemente Nebbia. Per tutti quelli del quartiere lui è Nebbia. Ha l’anima del clochard, ma una casa ce l’ha, un piccolo monolocale a due isolati dalla Certosa. Vive di piccoli riti, come un gatto nel suo territorio. Si dice, di lui, che abbia un passato di mille avventure, marinaio sulle navi, sguattero nelle bettole di mezzo mondo e che poi, non si sa come e nemmeno perché, sia approdato lì, in quell’isola tutto sommato vivibile di un quartiere alienante: «La gente pensa, la gente dice. Nessuno sa – dice lui -. Il pettegolezzo è il massimo che si può pretendere, qui, come sui giornali. Ed è pur sempre un grado in più dell’indifferenza, anche se tra indifferenza e pettegolezzo, ormai c’è poca differenza. Stessa monotonia. Perché in questa città ci si rassegna a rimanere nella superficialità. Non si ha più tempo per fermarsi e conoscere cose e persone. Anzi, le persone danno persino un po’ fastidio, metti che poi gli dai una mano e si prendono il braccio». Il suo essere fuori dagli schemi, il suo vivere controcorrente lo fa apparire, agli occhi della gente, come un uomo al confine tra normalità e follia. E lui ci sta a meraviglia in quei panni, così può dire sempre quello che pensa, sulla vita, sul mondo, su tutto. Una volta c’erano i grandi saggi e, lui, dietro quella barba folta un po’ lo sembra: oggi, però, in quello spicchio di periferia non si sa nemmeno cosa siano i saggi. Nebbia è uno strano e basta.

La mattina presto se ne sta seduto a un tavolino all’aperto del bar all’angolo, ha la faccia che sembra Carlo Marx, avvolto in una criniera folta e grigia, barba e capelli, un unica matassa. Piove, nevica, c’è il vento, fa freddo o fa caldo: il suo rito del mattino è sempre lo stesso, davanti a una tazza di caffè, sul viale alberato che porta alla chiesa. In quel bar non ci è mai entrato, ma il suo caffè arriva sempre puntuale, ormai Max, il gestore, è parte del suo rito.
Tra la tazzina e il sigaro ci sono il Corrierone, una freepress, un posacenere e un libro che Nebbia porta sempre con sé: ha la copertina rilegata in carta da pacchi, tanto che sembra sempre lo stesso, ma non è così. Si dice che i libri li vada a cercare dietro il cimitero dove, pare, ci sia un deposito del comune: è roba che dalle biblioteche milanesi va al macero, cultura destinata all’oblìo che lui recupera e rilega con la solita carta. Dal Corsaro Nero edizione del ’59, al Candide di Voltaire di provenienza ignota.

Ogni mattina, dietro a una nuvola di fumo, Nebbia se ne sta lì seduto e scruta uomini, donne e macchine, pensa e legge. E a chi lo interpella risponde con un saluto e, se trova terreno fertile, attacca discorso e commenta quel che gli va: dalla Moratti che non trova gli spalatori, all’ortolano che si è preso uno sganassone gratuito, capitato per caso in una rissa tra fascistelli e finti anarchici, dalla Chantal che scende dall’alcova a bere il cappuccino con le sue scarpe di vernice rossa al cumenda che aspetta il suo turno per salire da lei e, intanto, fuma nervosamente. E poi spulcia le notizie della sua Milano, una città che per intero non ha mai visto. Si è fermato sulla soglia, lì in quell’isola di case tra l’autostrada e il resto del mondo, un mondo che forse ha conosciuto per intero o, forse, è solo leggenda. Non è mai andato oltre quei palazzi e, leggendo le notizie, s’immagina come deve essere Milano più in dentro: «Chissà quanti trapasseranno, oggi, e nessuno lo saprà». Ha appena letto di un vecchio ritrovato cadavere nel suo appartamento, scoperto per caso, dopo settimane d’indifferenza: «Ecco l’immagine di una città, di una società in vacca. Ma a me non mi fregano mica. E non me ne vado da qui, sto in giro, perché quando schiatto voglio che la gente mi veda. Sono il Nebbia, io, nessuno si accorge più di nulla, ma la nebbia, volenti o nolenti, la vedono tutti».