Il Beppe di Musocco sorseggia il suo caffè sceccherato al Parkinson, ovvero a piccoli sorsi scanditi dal tremolio del suo braccio. Per l’occasione ha indossato una giacca che manda odore di tabacco misto a naftalina, dal condominio al bar ha depistato la badante nigeriana stipendiata dal comune, dicendole che sarebbe andato a comprare la sigarette: e, invece, è arrivato al bancone del bar dell’angolo, che dà sulla Certosa. Fuori c’è il Nebbia che pontifica su Silvio e Veronica, novelli Paolo e Francesca che lui ribattezza la “bella e la bestia”. Beppe, invece, dietro il suo nasone paonazzo ha ben altro a cui pensare, sta aspettando il Tino detto “burzìn”, ex partigiano come lui, poi diventato falegname e noto agli amici per il suo attaccamento maniacale al denaro. Tirchio quanto basta, sempre sul chi va là su dare, ma ben più sull’avere, attento osservatore del mercato dal marciapiede antistante la Cassa di risparmio, dove è stato posto uno strano televisore che informa dell’andamento delle borse e dei titoli. «Il momento è serio – aveva avvisato l’altro giorno sulla panchina del parco -, prima o poi si sbaffano tutto, compresi i tuoi quattro soldi…», e aveva terrorizzato il Beppe che, dopo una vita a lavorare alla Pirelli, si ritrova a gestire un estratto conto da 3.783 euro e 22 centesimi. «Ga veur na sulusiùn – aveva risposto lui-. con lo stesso fervore di quando ci si trovava a parlare al buio nelle baite dell’Ossola, in tempo di guerra». Duri e puri, il Tino e il Beppe, mai piegati al perbenismo di questi tempi. Anche a costo di finire in commissariato a ottanta e passa anni, con la fama di sovversivi. Reato? Tre settimane fa, alle sei del mattino, si fecero beccare da un metronotte con i pantaloni abbassati mentre pisciavano sulle saracinesche del centro sociale di ultradestra “Cuore nero”, una ragazzata che un tempo finiva con uno scatto a gambe levate e una risata, oggi, con la sciatica, l’asma e la tachicardìa congiunte, si è risolto con una misera debacle.
La “sulusiùn” il Tino ce l’ha scolpita in mente da tempo, per anni ha meditato, ma mai aveva osato, per via del senso dello Stato che tuttavia cozzava spesso con la sua anima capitalista, e anche perché lo sconfinamento in un paradiso fiscale, secondo la sua coscienza, lo faceva assomigliare troppo a Berlusconi. «Ma restare in bolletta è ben diverso che non pagar le tasse, sacramento!». Il paradiso fiscale del Tino e del Beppe è Chiasso, un’oasi del risparmio in fuga a trentatré minuti d’auto dalla Certosa, cinquanta forse poco più in sella alla Gina, la Lambretta resuscitata per l’occasione. Onoratissima carriera sulle strade e nelle campagne della Brianza, dove il Tino andava a lavorare in un mobilificio, molto tempo fa: «Anca par fala partire ghe veuran i danée», aveva riconosciuto, suo malgrado, il Beppe. Per giorni i due si erano asserragliati nel garage del Tino dopo aver raccattato marmitte e pezzi di ricambio da Ciro lo sfasciacarrozze. Ma tutto doveva essere in regola per la grande fuga, bollo assicurazione, caschi: «Non dobbiamo destar sospetto», aveva avvertito il Tino. E il Beppe si era adeguato, a cominciare dalla Carta d’identità rinnovata di fresco: «E giò altri danée». Poiché Tino ci metteva l’idea e i mezzi, al Beppe toccava l’investimento iniziale, Milano-Chiasso e ritorno, tutto compreso. Il giorno precedente era andato in banca e prelevare tutto, suscitando qualche perplessità nell’impiegato allo sportello: «Ci ho delle spese, lei non le ha?», si era giustificato grattandosi la crapa spelacchiata. I suoi 3.783 euro, però, li aveva riottenuti e intascati, rigorosamente nascosti all’interno dei calzini, tanto che lo spessore delle banconote sotto i talloni lo facevano zoppicare più del solito. Nel frattempo, il Tino aveva fatto il suo, nascondendo nelle mutande i suoi 4.129 euro frutto risparmiati in 82 primavere, un rotolino accuratamente infilato sul davanti che gli davano un certo orgoglio poiché, a prima vista, la sua mutanda sembrava nascondere una virilità ritrovata. «E ma racumandi, acqua in bocca», aveva avvisato il Beppe.
Ed ora, ecco il gran giorno, ritrovo al bar dell’angolo. Il Tino è in ritardo di qualche minuto, ma dopo il caffè, Beppe ritrova vigore, è pronto e già con il casco in testa, stile Mugello. «Ma se t’è gnu in ment», gli grida il Tino appena dopo aver parcheggiato la Lambretta lì sul marciapiede. Si avvicina circospetto: «Cunt il casco in cò, pirla! Bisognava essere più sobri, facciamo gl’indifferenti», gli bisbiglia sottovoce nel bar stracolmo di operai, studenti e impiegate in attesa della propria tazzina. Ripasso generale della grande fuga, metro per metro: non lì, ma in bagno «lontano da orecchi indiscreti».
Tre minuti, non di più, tutto chiaro, si parte: il tempo di cacciare fuori il nasone dal bar e scatta un “istu” a tutto volume… Gina, la Lambretta, saluta in impennata e se ne va sotto il sedere di un grasso teppista dalla testa rasata , facendo il dito medio, sparisce dietro l’angolo lasciando in scia l’urlo di battaglia: «Assssorrreta!». Il Tino vorrebbe inseguirlo, ma al primo passo si ferma e si mette le mani al petto, un dolore gli toglie il fiato, la vista s’annebbia è il segnale, suona la campana, ma è quella della Certosa, per fortuna. Beppe ha il naso blu mirtillo, ma il cuore regge: «Vile sabotaggio, vaccaboia». Rumori di sirene, corsa al pronto soccorso, la tempra del vecchio partigiano non può piegar sial destino, al segnale venuto da chissà dove, forse anche dal cielo per ricordargli che la via per il paradiso (fiscale) è lunga e in salita. Il Tino, però, si vede già all’inferno, sente di non aver più nulla da perdere. Sulla barella del pronto soccorso, il suo volto si apre in un ghigno beffardo: la massa informe del corpo sfatto nasconde un fiero dardo proprio lì sotto le mutande, ovvero 4.000 euro arrotolati ad effetto sorpresa. Lo sguardo non indifferente dell’infermiera, ignara del trucco, lo ripaga della cocente delusione. Oggi, come nel 43, l’imperativo è resistere.