La volata di Bogdan

«Settimo, non rubare!». Il piccolo Bodgan non ha idea di cosa significhi “settimo”, lui non si chiama con quel nome, ma quel grido di don Filippo, ogni volta che lo becca sul fico della canonica, lo fa sgattaiolare di scatto, giù dal muro di cinta e via di corsa sul marciapiede, dopo aver raccolto al volo il secchio e la spugna. Quasi sempre, però, allo zingarello del semaforo riesce di completare la colazione con quei frutti così dolci che penzolano a mezz’aria, a poche decine di metri dal vialone che immette sull’autostrada.

Poco prima, lascia la mamma e la sorella più piccola al capolinea dei tram, sul piazzale davanti al cimitero. Bogdan le accompagna, le vede salire sul 14, rimane lì fino a che il tramviere chiude le porte, mentre mamma ha già iniziato la cantilena per l’elemosina: “io povera, sensa casa, bambina malata, vengo da guera, prego aiutateci…”. Dal piazzale al semaforo, il posto di lavoro dello zingarello, ci sono quattrocento metri che si possono percorrere sullo stradone, oppure, allungando un po’ il percorso, si arriva allo stesso punto, ma passando per un viale alberato che conduce alla Certosa di Garegnano, non lontano dal tavolino del bar da cui Nebbia scruta il mondo, e poi, svoltando a destra si prende una strada stretta, lungo la quale, da sopra il muro della canonica, i rami di un enorme fico si piegano fin sulla strada, sembrano quasi spezzarsi per il peso dei frutti maturi: quello, ovviamente, è il percorso preferito da Bogdan, con pausa colazione inclusa.

Fino a sera, lo zingarello sa di dover rimanere al semaforo, accanto al cavalcavia dell’autostrada, nascosto dietro una colonna e pronto a sbucar fuori a ogni rosso, con secchiello e spugna pronto a lavar vetri. Quanti anni abbia non l’ha mai saputo, ma da pochi mesi Bogdan sa di essere grande, o meglio, alto abbastanza per poter arrivare con una spugna allungabile a passare per intero il parabrezza delle automobili, quelle normali, poiché i suv e altri macchinoni sono ancora inarrivabili per la sua statura. Ha poi scoperto che dall’alto dei suoi centimetri, ora, riesce anche ad arrampicarsi sul muro della canonica per raggiungere i rami più alti, quelli più ricchi di fichi e che persino don Filippo lascia al loro destino, perché non ha voglia e tempo di raggiungerli con una scala. Al prete basta raccoglierne un paio al giorno, di più non osa perché i fichi gli gonfiano lo stomaco. E allora perché non lasciar fare allo zingarello? «L’è mia tant la questione dei fichi, ma l’è il principio. Il fatto che oramai ‘sta gente, ‘sti zingheri non han paura di nessuno, già da bambini. E alùra ti ghe dè la man, si prendono il braccio. Chissà dove arriveremo di questo passo».

Ne parlava proprio l’altra sera con il Salmoiraghi, baffuto come Stalin, ma conosciuto con il nomignolo di “camicia verde” per il suo convinto attivismo leghista: «Padrùn à cà nosta», era il suo credo, imparato a colpi di vino rosso e morsi di salamella a Pontida, durante la festa popolare del partito lumbard. Don Filippo aveva voluto organizzare un dibattito “tra persone civili”, sull’accoglienza e l’integrazione e si era presto ritrovato in una bolgia tutt’altro che moderata con ovazioni e risate al grido di “gli zingari, peggio dei topi”. Per una decina di minuti, circa, il sacerdote aveva cercato di mantenere la discussione su toni pacati, poi aveva perso il controllo della sala riunioni dell’oratorio finendo per rimediare uno sputo in fronte, vile attentato a opera di un esagitato giovanotto con l’orecchino e uno spinello tra le dita che aveva chiuso il dibattito al grido di «Fasssisti».

La gente per bene non può più di questi fannulloni dei centri sociali, diceva tra sé don Filippo, intento a passarsi un fazzoletto sulla fronte mentre il Salmoiraghi regalava una perla di moderazione: «Comunista… va a dàa via i ciapp, e magari con gli strolig». Poi tutti a dormire a poche ore dal risveglio mattutino che, dopo la Santa Messa, per don Filippo aveva il sapore di una fuga d’altri tempi, in sella alla sua bicicletta da corsa modello Ghisallo, la compagna di mille avventure condivise proprio con il camicia verde che, in versione ciclistica era decisamente meno bauscia, a giudicare da come ansimava sulla rampe del Lissolo, una salita in Brianza, non lontano dalla metropoli milanese. In bici, guai a parlare di politica, era la regola numero uno. Mai. Nemmeno in casi estremi, come quel giorno in cui passando davanti al tendone della festa dell’Unità di Bollate, avevano rimediato un “drogati!” urlato da una ragazzina che quel giorno, uscendo da un dibattito, si sentiva di polemizzare sul doping, «lei che non ha mai pedalato e le farebbe bene», aveva risposto.

Pedalare, a settembre, è un piacere che aiuta a pensare, a meditare, a ricordare quando si era giovani e persino a immaginare una Milano diversa, senza quella cappa che toglie il fiato e l’odore che rovina il buonumore. Un paio d’ore in scioltezza, in maglia rosa, prima di tornare alla propria quotidianità, un prete e un politico: e in scioltezza viene spontaneo saltare l’ultimo incrocio, quello vicino all’autostrada dove, «porca sidèla, tel là», don Filippo scorge lo zingarello del mattino con il secchio in mano. Nel voltarsi ha uno sbandamento che mette fuori controllo la sua bici e quella del camicia verde, mentre alle loro spalle un automobilista spietato li urta a colpi di clacson e vaffanculo: perché non si è mai visto, a Milano, un qualsiasi mezzo a quattro ruote arrestarsi di fronte a due ciclisti fetenti. Nell’urto, la ruota della bici di don Filippo finisce nelle rotaie del tram, impennandosi sulla ruota posteriore, come un cavallo imbizzarrito. Risultato: un botto da rovinarsi il grugno che, una frazione di secondo più tardi, si ripete con un’evoluzione ancora più plastica del Salmoiraghi, che struscia sull’asfalto sbriciolandosi calzoncini e maglietta come se si avesse litigato con un doberman inferocito. «Vai Girardengo, vai a cag…..», è l’unico messaggio di conforto ricevuto da un suv alto due piani, in accelerazione.

Due corpi a terra, come due salami rotolati giù da un bancone di salumiere, nell’indifferenza dei passanti. Don Filippo ha soltanto la forza di alzare lo sguardo verso l’unica sagoma umana a un metro da lui. «Prendi questa, pulisciti con questa», gli dice il piccolo Bogdan porgendogli una bottiglietta d’acqua minerale. Stessa frase e stessa scena, Bogdan la ripete al Salmoiraghi a mezzo metro di distanza. Poi sparisce dicendo: «Spettatemi»
«Sti ciclisti hanno rotto il c…», è, nel frattempo, il messaggio di cordoglio proveniente da una Nissan. «Ma andate a piedi!» è il contributo audio di una Fiat. Senza parole, invece, il commento di una Renault che esibisce un dito medio alzato, fuori da un finestrino.

Due minuti e Bogdan è ancora lì, con una scatola di cerotti e una busta di fazzoletti disinfettanti: «Sono di mio amigo marocchino, li vende all’altro semaforo. Per voi gratis». Nello strombazzar di clacson, i due malcapitati provano a rialzarsi, don Filippo con la maglia rosa a brandelli, il Salmoiraghi con una vecchia casacca Cilo-Aufina in lana, orrendamente bucata.
«Fermi là, ho visto tutto», accorre un vigile urbano.
«E le è piaciuto lo spettacolo?», replica don Filippo., ancora sui binari.
«Tanto per cominciare, mi fornisca i documenti. Le ricordo che i ciclisti sono tenuti a rispettare il codice della strada e quel semaforo, se lei non l’ha notato, era rosso… Avanti, documenti…».
«Senti ghisa, lassa perd. Ti manca lavoro? Guarda là quanti maruchit da mandar via! Vieni qui a infierire con un curato?», lo rimbrotta Salmoiraghi che non rinuncia a far leva sulla propria fama maturata nei comitati di quartiere.
«Ah, ma è lei! Salmoiraghi! Così agghindato, mi pareva il Gimondi. Vabbé cosa facciamo…mi giro di là e non vi ho visto. A proposito…». E, nel voltarsi, il vigile urta proprio il piccolo Bogdan: «Guardalo qui, il furbone!» e lo afferra per un braccio.
«Bé spècia un attimo…», sembra volerlo fermare il camicia verde, ma con un tono più sommesso.
«Cosa c’è dottore? Non vorrà mica ignorare il problema di questi delinquenti?».
Silenzio del Salmoiraghi: ne va della sua immagine, meglio rialzarsi pedalare.

Anche Don Filippo assiste alla scena e non dice nulla, ma di scatto si rialza piazzando una testata al basso ventre dell’agente che crolla a terra rannicchiandosi sui suoi attributi spappolati più o meno maldestramente: «La mi scusi, signor vigile…non ho mica fatto apposta».
Nel frattempo si volta verso Bogdan indicandogli la sua bici e facendogli segno di pedalare via: lo zingarello capisce al volo, salta in un baleno sulla canna della specialissima modello Ghisallo e fugge via, come Saronni al Mondiale dell’82. Spinge sui pedali, in equilibrio precario, poiché ha le gambe troppo corte per riuscire a salire in sella: ma la tecnica dell’arrangiarsi lo porta lontano, lontanissimo, fino a farlo sparire nel nulla. Bogdan sapeva di essere ormai quasi grande, ma ora sa di poter pedalare su una bicicletta da corsa da grandi.
«T’è vist al bastardo?», sbotta il Salmoiraghi indicando ragazzino ormai in fondo al vialone. Detto soltanto per dovere istituzionale, di fronte alla forza pubblica che sembra imprecare qualcosa d’indicibile lì a terra, ancora alle prese con la testata al basso ventre.
Un gesto d’istinto, quello di don Filippo, ma la sua fidanzata in alluminio, la sua pantera a pedali, come la definiva lui, ora, chi la troverà mai più? «Faremo una colletta con il comitato di quartiere», lo rassicura Salmoiraghi che, alla fine, ne potrebbe trarre pure un vantaggio d’immagine. E già sogna il titolo sul giornale locale: “Rubano la bici al prete, il quartiere gliela ricompra”, con tanto di foto che, in tempi di campagna elettorale, vale moltissimo.

Notte insonne, quella che segue, sia per il sacerdote, sia per il politico: colpa delle sbucciature e degli acciacchi, bruciori e mal di ossa tipici dei ciclisti disarcionati. Notte a leccarsi le ferite e a pensare… La mattina dalla pianta di fichi mancano molti frutti: quel furfantello deve essere già passato a far colazione. Ma, oltre il muro, sul marciapiede, spicca una bicicletta da corsa, modello Ghisallo.
«Da domani, colazione senza predica», commenta ad alta voce il sacerdote.

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