Nebbia ha appena sfogliato il giornale, seduto al tavolino del bar dell’angolo, e si appresta a fare la valigia: “i pediatri prescrivono alle famiglie di portare i propri figli fuori da Milano”. Non un consiglio, ormai è una terapia. «L’aria è pesante. A me sembrava soltanto un po’ più fredda del solito – dice ad alta voce, di fronte al solito capannello di affabulatori del mattino -, si vede che ormai sono assuefatto. Ma ora che Clementina va via, la seguo anch’io».
Idealista senza briglie, con la sagoma di un cespuglio, nato e cresciuto con la voglia di libertà, quella che Milano ha mortificato e trasformato in alienazione, come accade a molti che approdano in periferia e rimangono intrappolati. Nebbia fa le valigie per seguire l’amore: proprio così, sotto chili di barba e capelli, c’è il volto di un innamorato. Un cuore che non batte più per la politica, ma per una trapezista del circo: Clementina ha vissuto a Milano per anni, esibendosi sotto questo o quel tendone, quello di ogni circo che passava di lì e in città si fermava. Artista stanziale di uno spettacolo ambulante, per anni trapezista precaria, a contratto settimanale.
Un amore, quello tra Nebbia e Clementina, sbocciato una mattina, proprio lì di fronte al bar della Certosa: la trapezista era in lacrime, seduta al tavolino, in attesa di un punch al gusto di rabarbaro. Nebbia vedendola così affranta le si fece incontro, con l’intenzione di consolarla con qualche sua parola. Ma Clementina non era delusa della vita, bensì piegata dalla congiuntivite: congiuntivite allergica, stessa patologia di migliaia di milanesi di questi tempi.
Una trapezista con la congiuntivite non può avere futuro in questa città. Meglio essere nomadi, dunque, con la valigia in mano, la polvere di gesso sulle dita e il collirio in tasca: Clementina ha scelto di partire, Nebbia con il cuore di un ragazzino al primo amore ora è deciso a seguirla. Anche in capo al mondo, molto più probabilmente fino al campo base di qualche piccolo circo stanziato nella campagna lombarda o piemontese, ai confini di un borgo silenzioso che odora soltanto di cenere di legna che fuoriesce dai camini e di letame che, di questi tempi, viene sparso nei campi circostanti.
Stamane Nebbia sembra ringiovanito, nonostante i suoi polmoni intasati dal tabacco: lui che ha scelto l’inquinamento come gesto volontario quotidiano, innamorato di un’artista che non può continuare a vivere in una città che soffoca. Leggeva Voltaire, ora è passato a Prevert.
Il mattino, in queste giornate di febbraio, ripropone in periferia gli stessi lenti fotogrammi di sempre. Sotto il cavalcavia di viale Certosa, uomini senza volto e senza identità, tremano e tossiscono sotto la cappa gelata della metropoli dopo aver passato la notte lì, sopra un materasso di cartone: uomini ombra o soltanto ombre di una società che non sa se allontanarli come clandestini o semplicemente dimenticarli, come chincaglieria da soffitta. La quotidianità va in scena, come sempre, anche nei giorni che a Nebbia sembrano diversi.
Scrive Antonio Scurati su La Stampa: “Vivo a Milano, come tutti. Appartengo all’umanità, una specie destinata all’estinzione, come tutte”. Nebbia legge e sospira: con Clementina prende un treno e prova a salvarsi. In contromano rispetto ai pendolari scampati alla crisi. A suo modo, parlerà della vita e della poesia alla donna cannone e al domatore delle tigri: loro sì, l’ascolteranno.