La fortuna è cieca o miope?

Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».

L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.

Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.

La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».

Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.

A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.

Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.

La legge della salsiccia

Pizza, birra e caffé? «Seicinquanta».
Spaghetti, acqua e caffé? «Seicinquanta».
Bistecca, vino e caffé? «Seicinquanta».
Nessuno conosce il suo nome egiziano e chiunque glielo domandi, lui risponde Beppe: ma per i clienti del quartiere non è credibile con quel nome, meglio soprannominarlo Mohammed, più adatto alle sue origini e al suo aspetto fisico. Ha problemi con la matematica, non l’ha mai imparata nei pochi anni, forse giorni, di scuola frequentata alla periferia del Cairo. E nemmeno la digerisce oggi: nella sua pizzeria, allora, ha fatto una scelta… di marketing. Prezzo fisso, che più fisso non si può: “seicinquanta”, è quanto gli basta per ogni bocca da sfamare, tra operai e impiegati del “mezdì”, come gli ha insegnato Nebbia che, in cambio dei primi rudimenti in lingua locale, riesce ogni tanto a spuntare pizza e birra. «Se ci stiamo dentro con i conti, va bene così», dice Beppe.
La sera, però, il prezzo fisso non vale. Per fortuna c’è Margherita, la sua figliola che ha voluto chiamare all’italiana, non per passione floreale, ma perché fu il primo nome che gli venne in mente una mattina di dodici anni fa, mentre tirava la pasta in una pizzeria: un amico vucumprà era appena arrivato a informarlo del lieto evento della moglie, un provvidenziale ambasciatore, ingaggiato poiché il titolare del ristorante non gli aveva concesso di lasciare il lavoro per rimanere accanto alla sua signora, in sala parto.

Margherita con i conti è un portento, la migliore della famiglia, ma a pranzo è a scuola: soltanto la sera può stare dietro al registratore di cassa, fino alle 10, mentre Beppe è al forno e la sua signora serve ai tavoli. Dopo le 10, Mergherita e mamma vanno a dormire, il locale chiude e il pizzaiolo si concede una pausa di piacere: non a base di sigarette o alcol, bensì mettendo sotto i denti una succulenta salamella, orgoglio della grigliata brianzola, che Beppe, l’egiziano, ama più di ogni altra cosa. La consuma calda di piastra, nel mezzo di un panino, seduto nella veranda esterna alla sua pizzeria, proprio sul viale che conduce all’autostrada: un profumo delizioso si spande lungo tutto il marciapiedi, fino all’angolo, sotto il semaforo dove sta Soraya, un travestito che fa marchette quando le serrande dei ristoranti si abbassano e i marciapiedi si oscurano. Ma per il transessuale non sembra una gran serata, questa, poiché rimedia da un’ora soltanto vaffanculo ridacchiati dai finestrini delle auto e altri sfottò.

«Già, fanculo a tutti», si lascia sfuggire Beppe, a bocca piena, mentre osserva la scena. Più che un’imprecazione, un’ode alla libertà, dopo due settimane da incubo. Tutto è cominciato in una sera come questa, mentre Beppe, seduto su quella stessa sedia, ha visto la porta d’ingresso al suo ristorante andare a fuoco per una bottiglia incendiaria lanciata da un motorino che, sfrecciando di lì a velocità folle, fuggiva in un istante lasciando in scia un grido: «Mohammed senza dio!».
Questo è stato l’inizio, la continuazione ha visto entrare in scena il brigadiere Salvatore Braccialarga: «Ma lei, signor Mohammed, è assicurato?», è stata la prima domanda.
Risposta: «Primo, non mi chiamo Mohammed. Secondo, che importa se sono assicurato? Mi hanno quasi fatto saltare in aria il ristorante, non le basta per indagare?».
«Uè, cheffà, vuol sostituirsi al mio ruolo?». Il Braccialarga indispettito per essere stato in qualche modo contraddetto, ha avvisato la Guardia di finanza che è intervenuta con il solerte commissario Lanzafame Vito, grande amico del brigadiere, allo stesso modo in conflitto con nomi e cognomi: «Sicché, signor Beppe Mohammed, lei che proviene probabilmente da un Paese arretrato è riuscito a metter su la baracca in quanti anni?».
Risposta: «Dieci».
«Come!? In soli dieci anni, lei è riuscito a guadagnare abbastanza per comprarsi un ristorante? E i soldi dove li ha presi? E se tutta la vicenda fosse una storia di pizzo? In questo quartiere sospettiamo ci siano strozzini e mezzi mafiosi…».
«I soldi li ho presi dal sudore della fronte, tutti sofferti e risparmiati e, oggi, contati addirittura da mia figlia, controlli tutta la contabilità, è tutto in regola»
«E quanti anni ha sua figlia?»
«Ma che importa?»
«E la figlia ha imparato da lei anche l’insolenza? E poi ci sono le premesse per lo sfruttamento minorile».

Un’autorità messa in discussione da un extracomunitario, non può che complicare la situazione. Tant’è che il Lanzafame ha ritenuto necessario un sopralluogo dei vigili urbani, che, rappresentati dal dinamico agente Girafumi Tullio che, dopo rapido esame dei rilievi dei colleghi, ha colto un aspetto che, incresciosamente, non era stato chiarito: «Ma lei che denuncia un atto teppistico di tale gravità, paga regolarmente il plateatico? Visto che mangiava bellamente una salsiccia al di fuori del locale, proprio durante il fattaccio…».
Risposta: «Ma che significa? Ero io a mangiare qui fuori, mica i clienti, e poi il ristorante era chiuso…». Come benzina sul fuoco.
Un Girafumi imbufalito era la cosa peggiore che potesse capitare a un pizzaiolo egiziano alla ricerca di una verità scomoda: poteva non esserlo, ma poi è diventata scomoda. Soprattutto per interessamento dell’Asl, allertata, per ripicca, dal ghisa e piombata in pizzeria a corpo morto, con le sembianze di una mole informe, ovvero i 110 chili del funzionario Losurdo Gaetano, grande amico dell’assessore. Proprio quel politico che, da anni, ha dichiarato guerra ai ristoranti etnici: «Come sarebbe a dire, signor Mohammed, che lei non ha un ristorante egiziano? Lei è egiziano? Mi faccia il piacere di essere più collaborativo e se l’igiene lascia a desiderare lo scopriremo presto».
Risposta: «Ma il mio portone bruciato che c’entra con l’igiene?».
«Ah! Ma allora lei non vuol capire, caro Mohammed. Tutti così voi musulmani: fate finta di non capire, ma so benissimo come volete fregarci. E pensate di fare i furbi con il paravento della religione: ma come la mettiamo, allora, con quella salamella di maiale, caro il mio islamico?».
«E come la mettiamo? Sono di religione copta».
«Ah sì? Ma cotta o cruda non fa differenza, sa».

Già, la religione copta ortodossa… Mentre il Braccialarga brancolava nel buio, il pizzaiolo ha tastato la pista giusta. Per risolvere il suo giallo, avrebbe dovuto chiamare Mastro Lindo, soprannome di un pony express tunisino che vive a due isolati dal ristorante: grande amico del muezzin Omar, che ha indagando nel sottobosco della comunità islamica e ha chiarito l’equivoco. Due giovani integralisti, schegge impazzite di una cellula estremista, hanno scambiato Beppe per un musulmano vero e, vedendolo ogni sera infrangere i comandamenti con quella maledetta salamella, avevano pensato di minacciarlo con il fuoco. Tutto risolto, in cambio del ritiro della denuncia.

Mastro Lindo, dopo due settimane, ha fatto il suo ritorno, con un biglietto di scuse e una pacca sulle spalle. Ma come chiudere tutta la vicenda che, come uno strano gioco di scatole cinesi, ha tirato in ballo cotanta forza dello stato assetata di giustizia?
Cinque pacchi, consegnati da un furgone frigorifero del macellaio Scafetta, il re della fettina del Musocco: cinque pacchi di salamelle nostrane, equamente assegnati. Uno al Braccialarga, uno al Lanzafame, uno al Girafumi, uno al Losurdo e uno a Mastro Lindo.

E stasera, finalmente, Beppe si riprende la libertà che, per un pizzaiolo egiziano, può essere racchiusa in un momento tutto suo, con un panino in mano e guardare il cielo: «Non sarà il cielo del deserto, ma in fondo anche questo posto ha la sua finestra per guardare su e respirare», confida Beppe alla sua salsiccia.
La poesia, però, è rotta dallo scoppiettare di un motorino che, per un istante, fa venire di nuovo la pelle d’oca al pizzaiolo: per fortuna è soltanto Mastro Lindo, con un sacchetto in mano. «Ti riporto i salami, a me non servono. Allah non gradirebbe» e li appoggia su un tavolino accanto all’esterno del ristorante.
«Non sai cosa ti perdi!». Un cenno di saluto, tra le briciole che piovono ai suoi piedi. Torna il silenzio, ma il destino di questa serata è segnato. Dopo Mastro Lindo, è la volta di Soraya, statuaria belva color d’ebano, pantera scosciata infilata in due stivaloni che sembrano trampoli, in piedi a un metro da lui: «Salsicce?» e indica il sacchetto appena abbandonato dal pony express.
Beppe fa cenno di sì: «Hai fiuto per certe cose, non fartele sfuggire».
«Allora stasera te le compro io. Mi sono rotta di starmene qui a perder tempo, oggi non batto chiodo, me ne torno a casa a mangiare. Quanto costano?».
«Seicinquanta».

La volata di Bogdan

«Settimo, non rubare!». Il piccolo Bodgan non ha idea di cosa significhi “settimo”, lui non si chiama con quel nome, ma quel grido di don Filippo, ogni volta che lo becca sul fico della canonica, lo fa sgattaiolare di scatto, giù dal muro di cinta e via di corsa sul marciapiede, dopo aver raccolto al volo il secchio e la spugna. Quasi sempre, però, allo zingarello del semaforo riesce di completare la colazione con quei frutti così dolci che penzolano a mezz’aria, a poche decine di metri dal vialone che immette sull’autostrada.

Poco prima, lascia la mamma e la sorella più piccola al capolinea dei tram, sul piazzale davanti al cimitero. Bogdan le accompagna, le vede salire sul 14, rimane lì fino a che il tramviere chiude le porte, mentre mamma ha già iniziato la cantilena per l’elemosina: “io povera, sensa casa, bambina malata, vengo da guera, prego aiutateci…”. Dal piazzale al semaforo, il posto di lavoro dello zingarello, ci sono quattrocento metri che si possono percorrere sullo stradone, oppure, allungando un po’ il percorso, si arriva allo stesso punto, ma passando per un viale alberato che conduce alla Certosa di Garegnano, non lontano dal tavolino del bar da cui Nebbia scruta il mondo, e poi, svoltando a destra si prende una strada stretta, lungo la quale, da sopra il muro della canonica, i rami di un enorme fico si piegano fin sulla strada, sembrano quasi spezzarsi per il peso dei frutti maturi: quello, ovviamente, è il percorso preferito da Bogdan, con pausa colazione inclusa.

Fino a sera, lo zingarello sa di dover rimanere al semaforo, accanto al cavalcavia dell’autostrada, nascosto dietro una colonna e pronto a sbucar fuori a ogni rosso, con secchiello e spugna pronto a lavar vetri. Quanti anni abbia non l’ha mai saputo, ma da pochi mesi Bogdan sa di essere grande, o meglio, alto abbastanza per poter arrivare con una spugna allungabile a passare per intero il parabrezza delle automobili, quelle normali, poiché i suv e altri macchinoni sono ancora inarrivabili per la sua statura. Ha poi scoperto che dall’alto dei suoi centimetri, ora, riesce anche ad arrampicarsi sul muro della canonica per raggiungere i rami più alti, quelli più ricchi di fichi e che persino don Filippo lascia al loro destino, perché non ha voglia e tempo di raggiungerli con una scala. Al prete basta raccoglierne un paio al giorno, di più non osa perché i fichi gli gonfiano lo stomaco. E allora perché non lasciar fare allo zingarello? «L’è mia tant la questione dei fichi, ma l’è il principio. Il fatto che oramai ‘sta gente, ‘sti zingheri non han paura di nessuno, già da bambini. E alùra ti ghe dè la man, si prendono il braccio. Chissà dove arriveremo di questo passo».

Ne parlava proprio l’altra sera con il Salmoiraghi, baffuto come Stalin, ma conosciuto con il nomignolo di “camicia verde” per il suo convinto attivismo leghista: «Padrùn à cà nosta», era il suo credo, imparato a colpi di vino rosso e morsi di salamella a Pontida, durante la festa popolare del partito lumbard. Don Filippo aveva voluto organizzare un dibattito “tra persone civili”, sull’accoglienza e l’integrazione e si era presto ritrovato in una bolgia tutt’altro che moderata con ovazioni e risate al grido di “gli zingari, peggio dei topi”. Per una decina di minuti, circa, il sacerdote aveva cercato di mantenere la discussione su toni pacati, poi aveva perso il controllo della sala riunioni dell’oratorio finendo per rimediare uno sputo in fronte, vile attentato a opera di un esagitato giovanotto con l’orecchino e uno spinello tra le dita che aveva chiuso il dibattito al grido di «Fasssisti».

La gente per bene non può più di questi fannulloni dei centri sociali, diceva tra sé don Filippo, intento a passarsi un fazzoletto sulla fronte mentre il Salmoiraghi regalava una perla di moderazione: «Comunista… va a dàa via i ciapp, e magari con gli strolig». Poi tutti a dormire a poche ore dal risveglio mattutino che, dopo la Santa Messa, per don Filippo aveva il sapore di una fuga d’altri tempi, in sella alla sua bicicletta da corsa modello Ghisallo, la compagna di mille avventure condivise proprio con il camicia verde che, in versione ciclistica era decisamente meno bauscia, a giudicare da come ansimava sulla rampe del Lissolo, una salita in Brianza, non lontano dalla metropoli milanese. In bici, guai a parlare di politica, era la regola numero uno. Mai. Nemmeno in casi estremi, come quel giorno in cui passando davanti al tendone della festa dell’Unità di Bollate, avevano rimediato un “drogati!” urlato da una ragazzina che quel giorno, uscendo da un dibattito, si sentiva di polemizzare sul doping, «lei che non ha mai pedalato e le farebbe bene», aveva risposto.

Pedalare, a settembre, è un piacere che aiuta a pensare, a meditare, a ricordare quando si era giovani e persino a immaginare una Milano diversa, senza quella cappa che toglie il fiato e l’odore che rovina il buonumore. Un paio d’ore in scioltezza, in maglia rosa, prima di tornare alla propria quotidianità, un prete e un politico: e in scioltezza viene spontaneo saltare l’ultimo incrocio, quello vicino all’autostrada dove, «porca sidèla, tel là», don Filippo scorge lo zingarello del mattino con il secchio in mano. Nel voltarsi ha uno sbandamento che mette fuori controllo la sua bici e quella del camicia verde, mentre alle loro spalle un automobilista spietato li urta a colpi di clacson e vaffanculo: perché non si è mai visto, a Milano, un qualsiasi mezzo a quattro ruote arrestarsi di fronte a due ciclisti fetenti. Nell’urto, la ruota della bici di don Filippo finisce nelle rotaie del tram, impennandosi sulla ruota posteriore, come un cavallo imbizzarrito. Risultato: un botto da rovinarsi il grugno che, una frazione di secondo più tardi, si ripete con un’evoluzione ancora più plastica del Salmoiraghi, che struscia sull’asfalto sbriciolandosi calzoncini e maglietta come se si avesse litigato con un doberman inferocito. «Vai Girardengo, vai a cag…..», è l’unico messaggio di conforto ricevuto da un suv alto due piani, in accelerazione.

Due corpi a terra, come due salami rotolati giù da un bancone di salumiere, nell’indifferenza dei passanti. Don Filippo ha soltanto la forza di alzare lo sguardo verso l’unica sagoma umana a un metro da lui. «Prendi questa, pulisciti con questa», gli dice il piccolo Bogdan porgendogli una bottiglietta d’acqua minerale. Stessa frase e stessa scena, Bogdan la ripete al Salmoiraghi a mezzo metro di distanza. Poi sparisce dicendo: «Spettatemi»
«Sti ciclisti hanno rotto il c…», è, nel frattempo, il messaggio di cordoglio proveniente da una Nissan. «Ma andate a piedi!» è il contributo audio di una Fiat. Senza parole, invece, il commento di una Renault che esibisce un dito medio alzato, fuori da un finestrino.

Due minuti e Bogdan è ancora lì, con una scatola di cerotti e una busta di fazzoletti disinfettanti: «Sono di mio amigo marocchino, li vende all’altro semaforo. Per voi gratis». Nello strombazzar di clacson, i due malcapitati provano a rialzarsi, don Filippo con la maglia rosa a brandelli, il Salmoiraghi con una vecchia casacca Cilo-Aufina in lana, orrendamente bucata.
«Fermi là, ho visto tutto», accorre un vigile urbano.
«E le è piaciuto lo spettacolo?», replica don Filippo., ancora sui binari.
«Tanto per cominciare, mi fornisca i documenti. Le ricordo che i ciclisti sono tenuti a rispettare il codice della strada e quel semaforo, se lei non l’ha notato, era rosso… Avanti, documenti…».
«Senti ghisa, lassa perd. Ti manca lavoro? Guarda là quanti maruchit da mandar via! Vieni qui a infierire con un curato?», lo rimbrotta Salmoiraghi che non rinuncia a far leva sulla propria fama maturata nei comitati di quartiere.
«Ah, ma è lei! Salmoiraghi! Così agghindato, mi pareva il Gimondi. Vabbé cosa facciamo…mi giro di là e non vi ho visto. A proposito…». E, nel voltarsi, il vigile urta proprio il piccolo Bogdan: «Guardalo qui, il furbone!» e lo afferra per un braccio.
«Bé spècia un attimo…», sembra volerlo fermare il camicia verde, ma con un tono più sommesso.
«Cosa c’è dottore? Non vorrà mica ignorare il problema di questi delinquenti?».
Silenzio del Salmoiraghi: ne va della sua immagine, meglio rialzarsi pedalare.

Anche Don Filippo assiste alla scena e non dice nulla, ma di scatto si rialza piazzando una testata al basso ventre dell’agente che crolla a terra rannicchiandosi sui suoi attributi spappolati più o meno maldestramente: «La mi scusi, signor vigile…non ho mica fatto apposta».
Nel frattempo si volta verso Bogdan indicandogli la sua bici e facendogli segno di pedalare via: lo zingarello capisce al volo, salta in un baleno sulla canna della specialissima modello Ghisallo e fugge via, come Saronni al Mondiale dell’82. Spinge sui pedali, in equilibrio precario, poiché ha le gambe troppo corte per riuscire a salire in sella: ma la tecnica dell’arrangiarsi lo porta lontano, lontanissimo, fino a farlo sparire nel nulla. Bogdan sapeva di essere ormai quasi grande, ma ora sa di poter pedalare su una bicicletta da corsa da grandi.
«T’è vist al bastardo?», sbotta il Salmoiraghi indicando ragazzino ormai in fondo al vialone. Detto soltanto per dovere istituzionale, di fronte alla forza pubblica che sembra imprecare qualcosa d’indicibile lì a terra, ancora alle prese con la testata al basso ventre.
Un gesto d’istinto, quello di don Filippo, ma la sua fidanzata in alluminio, la sua pantera a pedali, come la definiva lui, ora, chi la troverà mai più? «Faremo una colletta con il comitato di quartiere», lo rassicura Salmoiraghi che, alla fine, ne potrebbe trarre pure un vantaggio d’immagine. E già sogna il titolo sul giornale locale: “Rubano la bici al prete, il quartiere gliela ricompra”, con tanto di foto che, in tempi di campagna elettorale, vale moltissimo.

Notte insonne, quella che segue, sia per il sacerdote, sia per il politico: colpa delle sbucciature e degli acciacchi, bruciori e mal di ossa tipici dei ciclisti disarcionati. Notte a leccarsi le ferite e a pensare… La mattina dalla pianta di fichi mancano molti frutti: quel furfantello deve essere già passato a far colazione. Ma, oltre il muro, sul marciapiede, spicca una bicicletta da corsa, modello Ghisallo.
«Da domani, colazione senza predica», commenta ad alta voce il sacerdote.

Non c’è crisi per l’idraulico

«Mille per mille e il libro di Marco Polo, tre orizzontale». Parole crociate in libertà, di prima mattina, condivise ad alta voce dal tavolino del bar dell’angolo e per tutto il marciapiede: ecco uno dei passatempi preferiti di Nebbia che corruccia lo sguardo, si passa la matita nel cespuglio che ha al posto della barba, conosce la risposta, ma tace per qualche istante. L’enigmistica a lui serve per socializzare, per sentire una voce che si unisce al gioco e poi, chissà, finisce a parlare della vita, delle donne o dell’Inter. E intanto fuma un pezzo di toscano.
Il primo di agosto, però, i cruciverba a Certosa sono cantilena nel deserto di un quartiere chiuso per ferie, non morto, ma assopito. Non in vacanza, ma ritirato chissà dove, dietro persiane semichiuse verso strade che sprigionano calore e umidità. C’è Sandro, il barista, ma è rintanato là dentro, in compagnia della sola aria condizionata, e c’è il ragionier Ponchio che sembra non aver voglia di giocare, ma la risposta gli vien fuori così, come d’istinto per uno come lui che con i numeri ha una certa dimestichezza: «Mille per mille fa un milione, quello che mi ci vorrebbe per mandare affanculo tutti». Nebbia risponde con una risata soffocata da un colpo di tosse, perché non gli era mai capitato di sentire la voce del Ponchio e mai si sarebbe immaginato che un signore così riservato potesse lasciarsi andare con simili espressioni. Sono quattro giorni che il ragioniere passa le giornate seduto al tavolino: arriva di buon mattino, alle otto. Sta lì seduto tra giornali e caffè, ogni tanto fuma, sbircia nella sua valigetta, guarda nel vuoto, si nasconde dietro a un cellulare microscopico e tace. Soprattutto, tace. Nebbia conosce la verità, non l’ha saputa da nessuno, l’ha semplicemente intuita: il ragionier Ponchio, da quattro giorni, non va in ufficio ed è un libro aperto al capitolo disperazione. «La situazione attuale, sa, ci costringe a scelte dolorose e lei capirà, il suo rapporto di lavoro con noi finisce qui. La ringraziamo e le auguriamo buona fortuna»: è andata, più o meno, così. Licenziato in due minuti, quanto basta per buttare nel cesso ventitré anni di sacrifici, per l’azienda, per la causa comune: «Già, ma ora come faccio da dirlo a mia moglie e ai miei figli?», sono state le sue parole intrise di magone pronunciate davanti al direttore del personale. Sono passati quattro giorni e la famiglia Ponchio non sa nulla. E un ex ragioniere continua a prendere il treno al binario uno di Canegrate, convoglio carrettone privo di ogni comfort e con fermata a Certosa: a seguire, dieci minuti a piedi tra fabbriche dismesse e un cavalcavia dell’autostrada e altri cinque lungo un viale che, invece di condurre al suo ufficio, ora si ferma prima, a quel tavolino tra i platani e il marciapiede. La moglie a casa, i figli all’oratorio e lui lì seduto a consultare annunci di lavoro.
«Ditzamo, guardi, ditzamo che lei Ponchio, qui, non conta un cazzo», era stato l’avvertimento di un perfido manager di origine emiliana, ma che della sua terra, ora, non conserva che la parlata. Era un messaggio chiaro, quello, dopo che il superiore aveva scoperto che il Ponchio si era incautamente confidato al collega Perelli, noto aziendalista e spione, dicendo di volersi iscrivere al sindacato. Poi, dopo qualche settimana, altri segnali poco confortanti. «Sa, la crisi, ditzamo che richiede un’attenta valutazione, ditzamo, che prenda in esame la congiuntura che porterà probabilmente, ditzamo, a un riassetto strutturale in attesa che il mercato, ditzamo, riprenda a dare segnali confortanti»: aria fritta mirabilmente modellata da un supermanager da ottomila euro al mese, più buona uscita da nababbo, in caso di affondamento dell’azienda. Si fregia del titolo di bocconiano, l’emiliano, mica come un ragioniere qualunque, qual è il Ponchio. Studente a pieni voti presso il santuario milanese del “fàa danée” e oggi autentico sacerdote dell’unico grande credo che esalta i cattedratici della finanza: gli utili a monte, le perdite a valle. A monte ci sta lui, a valle i poveri cristi con le loro famiglie. E il Ponchio era un povero cristo, anche se non completamente scemo, tant’è che aveva colto il senso del discorso: il riassetto strutturale sarebbe passato dalle chiappe di qualcuno, forse anche le sue.
«Il milione, ragioniere, la risposta esatta è proprio milione. E lei che ci farebbe con un milione?», prova a sdrammatizzare Nebbia, lontano da lui non più di tre metri e due tazzine di caffè.
«Prima bisogna averlo davvero in mano il milione, poi quando si è sicuri di avercelo, si può ragionare. Io comincerei con l’andare fino a quell’azienda là, nell’isolato qui vicino, salirei le scale e andrei da un certo signore: “ditzamo che ora lei se ne va a fare in culo, ditzamo, a fare in culo lei, la congiuntura e il riassetto strutturale”, sarebbe il primo sfizio, poi al resto ci penso».
«Se l’avessi io, forse glieli regalerei, sa. Non me ne frega, io ci ho paura dei trop danée, caso mai mi vadano alla testa. E a proposito di testa, già sono messo male così, figuriamoci se i soldi la guastassero ancora di più. Anzi no, magari del milione farei metà: una a lei e l’altra metà me la tengo per assumere una badante brasiliana superaccessoriata, “solo distinti”. Già perché con un milione sei un distinto, mica un puttaniere qualsiasi». Ci aveva provato a dipingersi come l’uomo del gran gesto, Nebbia, ma anche in sogno sbraca sulla gnocca: ecco il vero difetto che gli impedisce di passare per filosofo professionista.
Intanto, però, il Ponchio riprende morale: «Se la mettessimo sulla fantasia, allora avrei un sacco di idee anch’io. Intanto manderei i figli a studiare in America e io e la mia signora ci passiamo un bel periodo da coppia di mezza età. Eh, la mia signora… già che ci sono, la manderei anche dal carrozziere, ma uno di quelli buoni, quello dei vip, a rifarsi un paio di taglie o tre di seno: è un regaluccio che ogni tanto mi chiede, ma che indubbiamente farebbe piacere anche a me. Mia moglie dice che la signora Santucci, la donna dell’idraulico, ha trovato una clinica in Brianza che faceva pure gli sconti e già che c’era si è fatta gonfiare davanti e tirare su dietro».
«Eccola, la piccola borghesia che si perde nel silicone!».
«Sì, ma fare l’idraulico, oggi, è quasi come fare il gioielliere. Però ha la figlia che si droga».
«Con la mamma che vuol fare la soubrette, è il minimo…io che pensavo che voi in provincia avevate le mogli che pensano a fare la salsa di pomodoro, visto che siamo ad agosto».
«La passata la troviamo al discount, quanto al resto, da noi in provincia, l’importante è che sembri tutto normale, tutto perfetto».
E anche il ragionier Ponchio, egli lo sa bene, è uomo di provincia, di una provincia troppo vicina alla città e troppo lontana dalla campagna, troppo piccola per soffocare il pettegolezzo, troppo cresciuta per essere immune dai mali tipici della periferia di una metropoli: meglio tacere, non dire, non far sapere e tutto sembrerà come sempre. Ma a fine mese qualcosa accadrà, la verità verrà a galla… È più o meno così che scoppiano le tragedie di provincia. Ma un ragioniere non può perdere la testa, dice lui, gesti insani e folli non ce ne saranno. «Domani vedremo», dice sempre. Intanto sorseggia il suo caffè davanti a Nebbia, fissando un telefonino muto.
«Quasi quasi vendo questo aggeggio al marocchino là al semaforo. L’altro ieri mi ha offerto cinquanta euro… almeno con quello ci porto la mia signora in pizzeria anche domenica, come facciamo sempre».
«Ah, per me quella è chincaglieria, ma per lei, ragioniere… meglio che lo tenga da conto, caso mai arrivasse la telefonata della svolta».
«Ah, allora per me è già venduto».
La mattinata scorre lenta e appiccicosa, il pomeriggio ancora di più. Nel mezzo, una michetta col salame e spuma nera mischiata al vino rosso, come nelle vecchie osterie meneghine. L’indomani arriva comunque, presto, nonostante la noia.
Poche ore e un nuovo caffè è sul tavolino del ragioniere, che prima di sedersi si aggiusta la cravatta proprio come se stesse per appoggiarsi alla scrivania dell’ufficio, un gesto che non ha mai perso, è come un tic. Anche Nebbia è sempre là, dove l’aveva lasciato il giorno precedente, con il cruciverba sotto gli occhi, la matita che scrolla un po’ di forfora dalla nuca e un dodici verticale da completare. Ma stavolta è Ponchio a rompere il silenzio: «Oggi te lo faccio io l’indovinello: dove va a dormire un cornuto?»
«Quelli veri dormono sempre nello stesso letto, con la moglie. Che è successo, ragioniere?».
«L’idraulico, boiavacca…Ieri ho preso il treno prima perché mi annoiavo qui al bar e l’idraulico Santucci aveva un gran lavoro sulla nostra lavatrice. Ma tra lui e la lavatrice, c’era in mezzo la mia signora…. Chela troia!».
«Oh Madonna! E il telefonino, cosa cavolo lo tiene in tasca per fare? Lei non sa, ragioniere, che è sempre buona regola telefonare alla moglie prima di rientrare in casa? E che ha fatto quando ha scoperto il fattaccio?»
«Chi ha fatto cosa? Lei, come niente fosse, è andata a farsi la doccia e almeno quella funzionava. Io, invece, sono stato cacciato di casa perché le ho detto che mi hanno licenziato, ma l’ho chiamata zoccola. L’idraulico, invece, ha tirato su i pantaloni e prima di andarsene ha pure salutato. Perché l’educazione viene prima di tutto».
«Non se la prenda ragioniere. Certo che l’idraulico è un tipo strano… manda la moglie a gonfiarsi come un canotto in clinica, ma poi si riconverte alle tardone vecchia maniera. La riparazione della lavatrice almeno l’avrà fatta gratis e le persone per bene si vedono dal saluto».
Ragionier Gianantonio Ponchio, disoccupato reo confesso e pigro nell’utilizzare il telefonino, torna sul mercato e, nel frattempo, alloggia da mamma Esterina: «Ecco dove va a dormire un cornuto di provincia. Una pensione minima in due può bastare, almeno per un po’». La povera donnetta che l’ha allevato lo considera ancora un ragazzotto che deve farsi le ossa: quarantasei anni sono pochi per capire come vanno il mondo e le donne di oggi, dice lei. «Sicuramente mi metterà a zappare nell’orto, mi ha già detto che ci sono i pomodori da cogliere. Quando ha saputo che torno da lei, è rifiorita, dice che vuol fare la salsa come tanti anni fa».
Le mamme di provincia, ad agosto, cuociono e imbottigliano passata di pomodoro. Lo fanno ancora, ma soltanto quelle dai settant’anni in su. La metropoli è lontanissima per loro, lavano a mano e non hanno tempo per i cruciverba. Nebbia farà a meno delle risposte del ragionier Ponchio, ma sui pomodori è sensibile: «Lei è fortunato! Pensi che io ho dei gran pomodori giù in fondo, vicino al cimitero, ma non ho nessuno che mi faccia la salsa».
«Se lo sapesse mamma Esterina… c’è un treno locale che ferma alla mia stazione già di buon mattino. Portali su, i pomodori, che domani facciamo giornata».

L’amore distrutto da un’oliva

Cicciuzzo non prende l’autobus di linea, ma un furgone sgangherato che lo scarica giusto davanti al cantiere, nella periferia Ovest: lavora alla Milano del futuro, è manovalanza del progresso. Parte che è ancora notte, dalla piazza del paese dormitorio, fagotto umano appoggiato alle colonne di un porticato. Lo sveglia la frenata, con scricchiolìo incorporato, del mezzo che proviene dalle baracche vicino al fiume, dopo aver caricato i fantasmi a giornata, uomini invisibili per il resto del mondo, caricati dietro, nascosti dal portellone. «Salire amigo», lo chiama Karim, l’autista senegalese. Sei posti, basta stringersi diventano sette: con le molle sfondate, ogni sedile sembra un nido di cornacchia nel quale sprofondare, mentre l’autoradio anni Settanta, a valvole, diffonde musica araba.

Papà Salvatore con mamma Rosalia erano saliti al Nord quarant’anni fa, per dare un futuro migliore ai propri figli: l’Italia del miracolo economico ha partorito una generazione di mantenuti, ma Cicciuzzo dalle case popolari non si è mai emancipato. Papà Salvatore faceva il magutt, come dicono qui, lui fa il magutt, anche se oggi il dialetto milanese non è più una lingua da imparare nei cantieri, oggi è meglio impratichirsi con i dialetti marocchini e rumeni. Il destino non gli ha concesso un gradino in più del padre, nella scala gerarchica degli operai edili: è stato superato da molti disperati, arrivati qui a bordo di un barcone di legno marcio, ma solido quanto basta per fuggire dalla fame. Non ha fatto carriera per via del suo carattere, permaloso quando non deve, bonaccione quando non conviene: «Mi arrabbio quando mi chiamano porco. Con quella parola, perdo la testa». E così, quasi apposta, i capicantiere incontrati negli ultimi anni finivano sempre per apostrofarlo in quel modo, per il gusto di vederlo andare su tutte le furie, come fanno i veterani di caserma con le reclute. «Sposta quel sacco di calce, brutto porco», gli disse un capo, quattro anni fa. E lui, come preso da raptus, prese il sacco e lo lanciò nel vuoto da trenta metri d’altezza, dal nono piano di una palazzina in costruzione, fortunatamente senza conseguenze per qualche malcapitato al piano terra. Ovviamente Cicciuzzo fu costretto a trovarsi un altro cantiere, però. Un’altra volta spaccò una pila di dieci tegole con un pugno, roba da guinness dei primati. Al cantiere del Musocco, dove lavora da un anno, tra Cicciuzzo e il maiale sembra essere tornata la pace, soprattutto perché i colleghi, quasi tutti stranieri, lo insultano in altro modo, tutta roba incomprensibile, in quattro lingue.

Di conseguenza, trascorre intere giornate sulle impalcature senza quasi scambiare una parola con nessuno, soltanto qualche parola sulle donne in generale, durante l’ora di pausa: si siede lì sulle assi, a venti metri da terra, e si rifocilla con il muso immerso nella schiscetta. Piatto unico: fagioli con cipolle e, quando mamma è generosa, vi trova anche una salsiccia. Lo sfama, ma non basta per placare la sua ossessione, il rapporto difficile con l’altro sesso: «Tu ti tromberesti la cassiera del bar lì sotto?», chiede di frequente al collega marocchino. «Que, trombesti?» risponde l’altro. E Cicciuzzo traduce nel linguaggio universale, con un gesto con la mano, e il marocchino ride. Il collega si chiama Rachid e ogni tanto si è addirittura confidato con lui: «Non è possibile che alla mia età, a trentacinque anni suonati, non abbia ancora fatto l’amore con una donna».

Centocinque chili di verginità. Cicciuzzo ci soffre parecchio e, per sfogare gli istinti, ogni giorno ci dà dentro con la mazza demolitrice: «Dammi un’ora e ti butto giù trenta metri di cemento», avverte Rachid. A volte arriva a sera che, a furia di mazzate, non è in grado nemmeno di tenere in mano la forchetta o il bicchiere della cena perché, per via dei colpi, ha le mani che gli tremano per molte ore dopo il lavoro. Una volta, alla ricerca di una terapia, aveva persino tentato un blitz dalla Chantal, la gattona, ma la scarsa abitudine alle curve femminili aveva finito per creargli il blocco del principiante, come un trapezista che, improvvisamente, scopre di soffrire di vertigini. E Chantal, impietosita, gli restituì pure i soldi: un flop a costo zero è, però, un colpo micidiale alla virilità di un magut irsuto e corpulento.

Oggi, però, Cicciuzzo ha l’aria meno depressa, anzi sembra persino sereno. Tanto che Rachid ne è incuriosito: «Che c’è oggi, hai trombato?»
«No, ma potrebbe accadere. Una donna si è innamorata di me»
«E chi è, la conosco?»
«La barista là sotto»
«Davvero? Che è successo, racconta?»
«Oggi mi ha sorriso e mi ha persino regalato un pacchetto di cicche»
«E allora? Che hai fatto, l’hai invitata fuori?»
«No, ma forse lo farò. E poi in questi giorni sto anche mettendo a posto l’appartamentino vicino a casa dei miei»
«Ma che c’entra?»
«Se la cosa dovesse andare in porto…»
«Non ti sembra di andare un po’ troppo di corsa? Un pacchetto di cicche può bastare per fare un fidanzamento?»
«No, ma è come mi guardava mentre me l’ha regalato….. ho capito che c’era qualcosa di strano»

Stasera, dunque, niente viaggio in furgone. Cicciuzzo ha deciso di tornare a casa in treno: «E se mi va bene, non rientro più, rimango lì al bar». Si precipita al bar con nobili intenzioni e il cuore che fa “bum bum”: al cantiere ha cercato di ripulirsi alla meglio, rubando un deodorante al capocantiere. Ora non è un bijoux, ma almeno sembra presentabile. In pochi secondi è già al tavolo di fronte alla cassa, ma al momento la postazione è vuota, niente barista. Ma eccola comparire: è una femmina giunonica che ama essere civetta e, per provocare i clienti, non nasconde le grazie che possiede. Che in realtà sono concentrate sul petto, enorme e prosperoso, taglia fortissima per due meloni da circo, che sembrano sempre esplodere da un momento all’altro da una scollatura generosa, ma tiratissima. Difficile guardarla negli occhi, ma Cicciuzzo è un uomo tutto d’un pezzo e con lei ha deciso di adottare la linea del massimo rispetto: se ne resta lì timido timido, sorseggiando un Crodino e mangiucchiando olive verdi.

Improvvisamente, la svolta: la donna dei sogni le si avvicina come per chiedergli qualcosa, Cicciuzzo pensa tra sé che è giunto il momento di dichiararsi. E mentre lo pensa, sente il cuore esplodere dentro di sé e una vampa di calore risalire dal petto verso il volto, paonazzo come non lo si era mai visto. Un istante, un non so che, un colpo gobbo del destino: «Ehm signorina?». Lei si china verso di lui, porgendogli il davanzale: lui, con uno stuzzicadenti in mano, prova a infilzare nervosamente un’oliva che, bastarda, rimbalza altissima, come un rigore sopra la traversa, ma finisce in rete, tra le mammelle della barista e sparisce nel buio. Imprevisto che scatena la reazione scomposta e… zac! Cicciuzzo si ritrova senza volerlo, in una frazione di secondo, con la mano infilata nella scollatura: l’istinto di voler riparare al danno l’ha rovinato.

E ora, in quei pochi secondi, è lì con la mano che brancola tra due palloni di carne, alla ricerca di un’oliva ormai dispera: è la tragedia. «Porco!! Brutto porco!», urla la barista. Tutto poteva dirgli, tranne quello: cuore infranto e cervello impazzito in una sola volta. Cicciuzzo scappa fuori dal bar, in preda all’ira: è diretto a tutta velocità contro la saracinesca di una vecchia drogheria dismessa. Impatto mostruoso e un corpo di uomo vergine che rotola scomposto e privo di sensi sull’asfalto. Ambulanza impazzita, corsa all’ospedale verso la salvezza: trauma cranico con amnesia è il verdetto per Cicciuzzo. Non ricorderà più nulla e Rachid, che gli vuole bene, gli ricorderà presto fantasie e conquiste, storie di donne ai suoi piedi, che l’hanno amato e venerato: al settimo piano di un condominio in costruzione, la vita sembra tutta diversa da laggiù.

La luna dietro ai cespugli

«Almeno lassù, il silenzio sarà vero, mica come quello di qui, che anche alle tre del mattino, la pace fa al massimo da sottofondo a un motorino con la marmitta che scorreggia». Nebbia guarda la luna stasera e vorrebbe vederla più da vicino, prendere una mongolfiera o mille palloncini gonfiati a elio. Perché su un’astronave non riesce a immaginarsi, non è capace di vedersi sposato alla tecnologia, è un poeta sempre e comunque: lo sbarco sulla luna è tornato di moda, tutti ne parlano e lo ricordano anche se, in quel 1969, non erano nemmeno nati, ma Nebbia ha un’idea “romantica” dello sbarco: «Per me si dovrebbe tornare là e farci un rifugio per quelli che si dissociano da sto mondo. Giusto un posto per riflettere un po’ e guardare la terra da lontano, prima di decidere se spararsi un colpo o tornare indietro. Uno sta lì, ci pensa un po’ e poi decide».
«Tass Nebbia, dì minga strunsà, bevi un Ramazzotti?», lo interrompe l’Alcide, per gli amici Gringo, vedetta all’ultimo avanposto di un’azienda ormai traslocata in periferia o, forse, in Cina. Se ne sono andati tutti dallo stabile del Musocco: impiegati, operai, fattorini, gran signori. Tutti tranne lui, che l’han lasciato lì a vegliare un dinosauro ormai deceduto, un palazzo che va in pezzi senza niente dentro: vive soltanto la sua stanza con un cucinino annesso. Gringo, portiere del nulla.
«No, leggo Voltaire, tu sei già al quinto di Ramazzotti, vai avanti così e ti fai tutto l’ellepi». Gringo non sa chi sia Voltaire è l’ultimo libro comparso nella sua portineria è stato un’edizione economica di aforismi, distribuito gratuitamente da un quotidiano, formato tascabile. Gli aforismi sono l’ideale per chi non regge la lettura di un capitolo al giorno e a Gringo la lettura proprio non piace: tuttavia, quel libretto lo tiene sempre in tasca, nei pantaloni, così ogni tanto tira fuori qualche frase che fa scena. Per reggere il confronto nelle discussioni «con i bauscia», dice lui. “Il riposo è una buona cosa, ma la noia è sua sorella”, trovata a casaccio sul momento. Per Gringo, è meglio l’azione: e per un portiere che vigilia sul vuoto è tutto dire. Come un soldato disperso al quale non hanno detto che la guerra è finita, l’Alcide si sfoga come può: la sua passione la s’intuisce dal soprannome, le pistole sono gli oggetti più venerati, feticci che conserva come reliquie. Arsenale tutto regolarmente denunciato e, qualche volta, riesce pure a sparare, nel parcheggio sotterraneo del suo dinosauro dormiente, ormai deserto: fabbrica munizioni in casa, scende nel parcheggio e spara, inebriato dal potere su tutto, sulla vita e sulla morte. «Per un decimo di secondo, quando premi il grilletto, sei l’essere più potente dell’universo».
«Te se matt, Gringo. Molla i cannoni, vieni con me in montagnetta, andiam su a vedere la luna», rilancia Nebbia con la poesia. E la proposta viene accettata: per noia più che per voglia.
Partenza da Certosa con un’unica Graziella, pieghevole anni Settanta, color grigio, senza cestino: pedala Nebbia e, come ai tempi della cicca bomba e della fionda, Gringo è in piedi sul portapacchi posteriore. Ma con l’inseparabile amica, la pistola, nascosta nei pantaloni.
La bici resta ai piedi della montagnetta di San Siro, la salita è a piedi, cinque minuti sotto un cielo che Milano non è abituata a trovarsi sopra la testa, con le stelle che brillano più dei lampioni e la luna, a spicchio, a dominare la scena. «Camminare su quella crosta là, mi dà l’idea di un enorme falce di borotalco…».
«Nebbia vivi proprio nel tuo mondo, qui a Milano il borotalco lo tirano su per il naso. Se si venisse a sapere che la luna è fatta di quella roba lì, l’avrebbe già comprata qualche mammasantissima». Gringo accarezza il ferro lucido dell’arma e fa venire i brividi all’amico: «E piantala con sta manìa delle pistolette, metti via sta roba che mi fai terrore».
«Ma va là che è pure scarica, anzi adesso che insisti, quasi quasi un colpo o due li metto dentro e ci sparo alla luna». Detto, fatto: con gli occhi da matto, carica l’arnese e fa partire un colpo nel cielo, verso lo spicchio argentato lontano migliaia di chilometri. Tra i due cala il silenzio.
Passa mezz’ora e Nebbia scende dal cucuzzolo, senza dire nulla, fumando quel che resta di un toscano acceso in mattinata. Gringo lo segue ciondolando sul sentiero, tra i cespugli del parco, per via del troppo Ramazzotti ingurgitato più o meno dallo stesso momento in cui Nebbia, stamane, inaugurò il sigaro. Ma con la pistola in mano.
«Vado a pisciare dietro la siepe», avvisa l’amico davanti a sé. Nebbia non si ferma, rallenta appena il passo. Si ferma a bocca spalancata dieci secondi dopo, nell’istante in cui uno sparo alle sue spalle lo fa sobbalzare dai sandali.
«Un urlo terrorizzato si alza nel cielo fino alla luna. Da dietro la siepe balza fuori un uomo completamente nudo, ma col cappello da vigile urbano. Alle sua spalle, si ricompone un donnone che sembra avere qualcosa in più tra le gambe e che fugge via in direzione opposta. Il vigile nudista ha il fiatone, ma trovandosi davanti a Nebbia, preferisce non farsi prendere dal panico e, con il piglio dell’autorità, lo redarguisce pure: «Che c’è da vedere?!! Mai visto un uomo sudato? Circolare!» e sparisce tra le piante.
Nebbia resta lì com’era un minuto prima, con la bocca spalancata, come una vignetta senza parole. Passano pochi secondi e un rutto precede, da dietro il cespuglio, l’incedere barcollante di Gringo. «T’è mia vist una léura?»«Una lepre?»
«Ho visto due orecchie agitarsi lì vicino, mi parevan due orecchie di lepre. Ho pensato al salmì, ma boiavacca, con tutto sto Ramazzotti in corpo, non so dove l’ho presa. Dal verso però ma pareva più un fasàn».
«L’hai ciccata Gringo, la léura l’è scapata e il fasàn l’hai mancato».
Dal mattino presto, il giorno seguente, sul posto operano carabinieri e cronisti, in un chiacchiericcio fatto di domande e risposte, mentre è in corso un sopralluogo: Nebbia è già tornato sul luogo del delitto, è lì sotto un platano, appoggiato alla Graziella e ascolta le voci che si sovrappongono, tra le panchine. «Un vigile urbano aggredito, ha denunciato lui stesso stamattina». «Ferito? No, denudato di tutto, dal cinturone alla divisa, tranne il cappello che ha difeso strenuamente». «E chi potrebbe essere stato?», «S’indaga nell’ambito della malavita degli spacciatori», «Testimoni?», «Nessuno», «E le mutande di pizzo rinvenute sul luogo dell’aggressione?», «Non comment». «Qualche dichiarazione sul borotalco rinvenuto nei pressi della mutandina?», «No comment», «E il libretto di aforismi rinvenuto lì vicino?», «Lo faremo analizzare, ma è visibilmente compromesso da sostanze organiche».
Un libretto bagnato, puzzolente e scolorito, ma aperto casualmente a pagine 17, alla frase: “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito”. «Salvato dalla pipì», ridacchia Nebbia, ripensando a Gringo.

Anche le biglietterie automatiche hanno un cuore

Un pendolare minaccia una biglietteria automatica con la pistola: arrestato. Purtroppo, tra uomo e macchina i rapporti restano difficili, ma la legge trionfa. Alla stazione di Busto Arsizio ha prevalso la tecnologia, perché ha avuto più sangue freddo. L’animale a due gambe, quando non riesce ad aver ragione con le buone, finisce sempre per sbroccare e passare alle maniere cattive: la violenza, è evidente, si dimostra più che mai sintomo di debolezza, al contrario di quello che molti potrebbero pensare. E la dinamica è sempre la stessa, dalla politica internazionale alla coda al semaforo, fino alla vita quotidiana spesa tra le banchine delle stazioni e le carrozze degradate di un treno localissimo.

È vero, la biglietteria automatica a volte è bastarda, ma almeno non fa sciopero: tra le tante sigle sindacali che proliferano tra i ferrovieri, non ce n’è una che abbia mai pensato di difendere i loro diritti, anche se, a questo punto, qualcuno potrebbe pensarci. Non potendo azzardare vertenze su orari di lavoro, minimi salariali e ammortizzatori sociali, almeno uno straccio di comitato potrebbe valutare una campagna di sensibilizzazione sulla sicurezza: scorta armata o possibilità di difendersi. Basta violenza, insomma: anche le biglietterie automatiche, in fondo, hanno un’anima. Altrimenti che si torni all’occhio per occhio.

Ogni lunedì mattina, lo sanno tutti, la stazioni sono una giungla, ma come nei peggiori saloon è comunque vietato sparare sul pianista. Un pistolero esaurito, invece, ha infranto l’unica regola ancora in vigore nel far west e la legge, implacabile, ha fatto il suo corso. Il popolo dei pendolari è in subbuglio, perché voci incontrollate, ma non smentite, sostengono che tra i meandri del pacchetto sicurezza ci sia un articolo che istituisce anche il reato d’ingiuria e sputi ai danni delle macchinette automatiche: è la fine di un’epoca, i maleducati sono avvertiti e, presto, anche le macchinette saranno autorizzate a rispondere per le rime. «Ridammi il resto, zoccola!», «E tu pigia il tasto corretto, stronzo!». La fanno franca, invece, i soliti maniaci: eppure, sembra non siano pochi i casi di stupro delle biglietterie automatiche nelle stazioni più desolate della Pianura Padana. Ma il ministro per le Pari opportunità si sta già attivando.

In quell’angolo triste e isolato della stazione di Busto si è consumato un dramma che, se alle biglietterie automatiche fosse garantito il diritto di replica, si sarebbe potuto evitare:
«Vuoi fare la furba eh!? Io il biglietto l’ho già pagato, ora vediamo se di fronte alla mia pistolona, ti torna la voglia di fottermi»
«Dai non fare così, ragiona, ti posso spiegare tutto…»
«Spiegare cosa? Mi hai tradito e io non ti perdono»
«Fai presto a dire tradito, ma prova a riflettere su come mi hai trattata. Come sempre hai fatto tutto di fretta, ma ti ho sempre chiesto di fare attenzione ai preliminari. Non tutti i buchi sono buoni, poi: per chi mi hai preso?»
«Basta, ho già ascoltato abbastanza, è giunta la tua ora»
«Su, aspetta, non perdere la testa. Se metti via la pistola, ti dò l’indirizzo di una mia amica che li dà gratis e lo fa da tutti i buchi»
«Le solite favole, ma dove l’hai vista, con le bagnine di Baywatch?»
«Quali favole, esiste veramente ed è a due passi da qui»
«Ma almeno è carina?»
«Beh, è simpatica»
«Ecco, siamo alle solite: allora è sicuramente tutta arrugginita con i tasti unti e tappezzata di chewing gum»
«Non è verò, caro, come posso definirla, è un tipo… Nel senso che in certi orari fa la sua figura e parla quattro lingue»
«Mi stai, per caso, dicendo di trovarmi un’altra? Tra noi è proprio finita, dunque?»
«Ho bisogno di tempo per riflettere»
«Vuoi prenderti una pausa, ma non è che hai un altro? Scommetto che mi tradirai con il primo che passa»
«Ma quale altro, mi hai fatto soffrire troppo. Certe ferite non si guariscono in cinque minuti»
«Non volevo farti del male, lo sai, e la pistola è scarica»
«Presto avrò la forza di perdonarti, ma prima di ricominciare lasciami un po’ di tempo per pensare»
«Ok, è giusto che tu prenda i tuoi tempi, ma non ti ricordi quanto è bello fare la pace, poi?»
«Prometti di non farlo più?»
«Promesso»
«Bravo, prima o poi ci riproveremo, contaci. Ma la prossima volta, ricordati la carta di credito, amore»

Pendolari: Mino, cespuglio senza freni

L’artista del fuori corso cambia vita: non per scelta, ma per minaccia. Presenza fissa al binario due, tra le sette e trenta e le otto, eccolo all’ultima discesa verso la grande Milano: Mino, per gli amici cespuglio, prova a familiarizzare con la parola “lavoro”. E lo fa dopo una vita teorica e troppi amori troppo poco platonici. Un carrozziere di Legnano una sera l’ha preso per il bavero e sollevato da terra di dieci centimetri: «Hai voluto fare il porco con mia figlia? Adesso il pupo lo mantieni tu e vedi di essere uomo». Domani sarà il giorno imposto per essere uomo: nella carrozzeria di Legnano, naturalmente.

Presenza carismatica del chiostro dell’università, come le colonne in granito rosa piantate lì fin dal medioevo: facoltà di filosofia, settimo anno fuori corso, ma frequentante. «Bisogna farsi una posizione, in questo mondo», diceva al primo anno. Sua madre glielo aveva inculcato per tutta l’adolescenza, questo concetto: Mino impiegò pochi mesi, tra i banchi delle aule affollate di pensatori in erba, a confondersi le idee: la filosofia, intesa come amore per la sapienza, non offre certezze, anzi le distrugge. E i primi dubbi sulla posizione sorsero già a metà dell’incontro con Parmenide ed Eraclito, tra la filosofia dell’essere e il “panta rei”. E lì cespuglio, il nemico dei barbieri, fece la sua prima scelta: prima di approdare a Socrate già sapeva di non sapere e optò per Marilù, specialista in teoria e pratica dello sbattacchiar di ciglia. Mino frequentava e frequenta: per coerenza più che per dovere morale, perché è meglio indugiare sulle scollature delle studentesse, puntando sul fascino dell’intellettuale incompreso dal mondo. Perché è meglio pensare che è il mondo a non capire, piuttosto che sospettare di essere noi stessi a non capire il mondo. Rachele, la scosciata che odiava Cartesio, invece, aveva capito tutto e passava gli esami con argomenti decisamente più interessanti rispetto alle teorie di Mino: faceva presa su giovani assistenti di cattedratici incartapecoriti, uomini mai stati maschi che, davanti allo svolazzar di tessuti della signorina, scoprivano inaspettate applicazioni del pensiero di Hobbes, secondo il quale la sostanza unica è la materia. Ma quella materia, mostrata dalla Rachele, aveva tutt’altra sostanza: quanto basta per mandare il cervello in “game over” e affibbiare un ventisei su trenta per manifesta superiorità della carne sul pensiero.

Già, la Rachele mandò in pappa anche i pochi neuroni di Mino che, dietro le sue sottane, smarrì un altro anno di corso, con montagne di libri impolverati che rimanevano oggetti inesplorati. Come fare a capire se cespuglio avesse o meno aperto e studiato un libro? Semplice, bastava aprirli e verificarne la presenza della forfora tra le pagine. Ormai lo sapeva benissimo anche il prof di filosofia moderna a ogni sessione d’esame. Prima ancora di formulare la domanda d’inizio allo studente, gli bastava dare un’occhiatina al libro che aveva con sé lo svogliato, per capire che andazzo avrebbero preso quei dieci minuti d’interrogazione.
Mino, però, non si perdeva mai d’animo, né per la bocciatore, né per i due di picche: «La filosofia è cultura», diceva lui. E la cultura ha bisogno dei suoi tempi per essere capita e studiata: «In questa società frenetica, ora si capisce perché non si fa più cultura», era la sua giustificazione.
Per darsi un tono, perché non si è mai capito se ci credesse veramente, si fece una posizione anche nel comitato leninista universitario: roba da superintellettuali, con riunioni interminabili a parlare di partito e lotta di classe che sfociavano, quasi sempre, in desolanti battibecchi farciti di “Juve merda” e “milanista del cazzo”. A quel punto Mino si era fatto l’idea che, per essere un leninista credibile, avrebbe dovuto tifare Inter: in primo luogo perché, a quei tempi, l’Inter non ne imbroccava una ed era un po’ come la classe operaia che mai andava in paradiso. E poi, l’interista era la contrapposizione netta al berlusconismo imperante che aveva nel Milan, un simbolo di potere quasi dispotico.

Poi i tempi sono cambiati e anche l’Inter non è stata più la stessa di qualche anno fa. Mino si è un po’ distaccato dal calcio, per dovere morale, perché un leninista non può stare con chi vince sempre e troppo. «Mino! Ma quand’è che ti fai una posizione?», domandava mamma Irma, che si sentiva invecchiare e avvertiva, al contrario del figlio, il vero senso del tutto scorre, panta rei… «e quel lazarun l’è semper là cunt i liber in man». Con i libri in mano, pensava mamma Irma, ma non conosceva la musa ispiratrice del figlio, Clotilde, donna modificata al silicone e trasformata in sventola. Mai avrebbe pensato, Mino, che avrebbe capitolato nelle grinfie di una sirena del capitalismo, perché la chirurgia estetica è l’emblema più attuale dell’ineguaglianza sociale. Ma Clotilde, filosofa di Legnano con papà carrozziere, aveva tutta un’altra idea della posizione e avrebbe voluto sposare un manager d’azienda: e con un seno piccolo, si sarebbe sentita depressa. E una donna depressa mai avrebbe potuto sedurre un manager. «Per una donna, la filosofia è vero amore per la sapienza se riuscisse a trovare un marito con un bel conto in banca».

Ma la natura, spesso, prevale e la sognatrice sottovalutava l’impeto del leninista, con quella forza che sale dal basso come una rivoluzione: e mentre Mino faceva la sua rivoluzione, la situazione sfuggiva di mano, come capita nelle più caotiche sommosse popolari, ma più probabilmente per scarsa dimestichezza con la materia artificiale, ovvero il silicone. Undici anni di “onorata carriera” (quattro più sette fuori corso) per dare un senso ai “perché della vita e del mondo” non sono bastati per capire che, a volte, nella vita è meglio tirare i freni: Mino, per una sera, non ha frenato, non si è tenuto e la vita ha scelto per lui. «Meglio così» Panta rei, tutto scorre, e niente sarà più come prima: la natura ha fatto il suo corso, il treno per Milano, da ora in avanti per lui si ferma prima, nella ridente Legnano (“che cavolo avrà mai da ridere ‘sta città”, pensa spesso tra sé l’ex leninista). Il suo destino passa da una carrozzeria, svolta beffarda, ma inevitabile: «un papà che si rispetti deve farsi una posizione» e Mino si rassegna al suo futuro, o meglio, ad avere un futuro. Per essere uomo.

Il mestiere, la cassa integrazione e la resistenza

Pizzo e raso: Chantal nutre da sempre una passione quasi morbosa per questi dettagli, nella lingerie. E da una sottoveste di pizzo e raso, nella notte, ha ricavato un velo da chiesa, l’ha cucito con grande dedizione ed è venuto pronto per il mattino. Non entrava nella Certosa da molti anni, ma ora, pensa tra sé, è il momento di chiedere un intervento dall’alto, anzi «non resta che affidarsi all’Altissimo», ha sussurrato a Nebbia, incrociandolo sul marciapiede che porta al sagrato. Un minuto, non di più, per confrontarsi con la croce e accendere un cero e domandare una grazia, giusto il tempo per fare venire una vampata d’inquietudine a don Nicola, quanto basta per sollevare nell’aria il chiacchiericcio di due pettegole, come il borbottìo di una pentola di fagioli in una stanza vuota.
La litania sacra non la conosce, Chantal: intona il suo lamento profano poco dopo, al tavolino del bar, davanti al suo confessore pagano, il Nebbia, che finge di leggere una pagina delle Metamorfosi di Ovidio, con gli occhi su una frase che suona beffarda: “Apprendemmo troppo tardi dai contadini, in quella pianta si era nascosta, per sfuggire alle voglie oscene di Priàpo, la ninfa Loti, mutando aspetto ma non il nome”. La ninfa Chantal chiede rifugio a Nebbia e lui, invece, fa quel che può, tenendo a bada una ormai rara impennata di desiderio.«E ora che faccio, i saldi? Chi me la dà a me, la cassa integrazione? L’affitto lo devo pagare lo stesso». Chantal, capelli rossi raccolti, occhi verdi, curve sinuose che scendono fino ai piedi, mostrando pelle liscia che fuoriesce dai vestiti, ombre tra carne e tessuto, un ‘opera d’arte un po’ attempata, ma che ancora regge bene il confronto con ben altre gatte di vent’anni più giovani: una vita a vendere intimità, a lavorare sodo con emozioni e piaceri comprate o affittate da uomini soli, deboli che fanno i duri soltanto grazie a maschere di opportunismo, benestanti annoiati, operai e dirigenti, giovani e vecchi. Ha vissuto per anni all’ombra di un’economia discreta e ipocrita, tra fabbriche, uffici, grandi concessionarie di auto, ricevendo i suoi clienti in un dignitoso appartamentino a due passi dal cimitero Musocco. Ora, con la crisi, le aziende o hanno chiuso o sono in cassa integrazione, molte si sono trasferite all’esterno della città: palazzi e capannoni si sono svuotati in pochi mesi.
Al quartiere rimane soltanto l’economia del caro estinto, ovvero pompe funebri e dintorni. Ma, seppur brava nel suo genere, Chantal non è ancora in grado di resuscitare i morti: con loro, la scollatura non fa più effetto, non gli resta che qualche fedelissimo o pochi principianti sovraeccitati da un annuncio sul giornale, gente da cinque minuti compreso il bidé. Ottanta euro gettati sempre più di rado sulle lenzuola sfatte di un letto che, in altri tempi, ha visto ben altro. Ora anche il materasso sembra soffrire la carestia e sembra incurvarsi sotto il peso dell’usura, come la gomma piuma sulle reti di San Vittore. Chantal è dama di compagnia per uomini d’altri tempi, non certo per pornografi dopati dai siti internet, non ha futuro nella Milano bulimica del sesso che sa di cocaina. E sul marciapiede non ci vuole più tornare, sono vent’anni che non lo fa più così.
«La commessa? Potrò mai fare la commessa?»
«Ah, perché no? – la consola a suo modo Nebbia-. Ne cercano uno, di commesso, giù in ferramenta. Uomo o donna, non stiamo a sottilizzare, meglio donna, no? Secondo me, tu vai bene in ferramenta».
«In una ferramenta ci sono entrata una sola volta nella vita. Per una scommessa con la Wanda, quella che lavorava a piazza Firenze».
«E hai vinto?»
«Certo, ma erano solo diecimila lire. Dovevo entrare e mangiare una banana».
«E com’è andata?»
«L’ho fatto. Solo che la banana mi è un po’ rimasta sullo stomaco, non la digerisco bene».
«Potresti rifarlo. A scopo promozionale, diciamo così».
«Non rimedierei neanche una sveltina, in ferramenta girano certi calendari… con tutte quelle bambolone gonfiate dal silicone».
«Ah se non c’è partita in ferramenta, prova giù al centro anziani, con certe pilloline oggi si fanno i miracoli anche a settant’anni. Guarda cosa succede in Parlamento».
Chantal sorride e non dice nulla, si fuma una sigaretta lì al tavolino e, dopo il caffè, si alza e sparisce dietro l’angolo con un ancheggiare da ragazzina. Nebbia china di nuovo il capo su Ovidio “Se scompare il mare, la terra e la reggia del cielo, nel caos antico ci annulleremo. Salvalo dalle fiamme quel poco che ancora resta: abbi a cuore l’universo!”.
L’indomani, verso mezzogiorno, il silenzio unto di afa di una mattinata di luglio è rotto da sirene d’ambulanza. Nebbia, dal marciapiede del viale, allunga il collo e cerca di capire dove è diretta: proprio giù in fondo, all’altezza del condominio della Chantal. Centoventi passi, non di più per scoprire l’ennesima “tragedia sul lavoro”.
I portantini si affrettano a varcare l’uscio e a caricare sull’autolettiga le spoglie del povero Brambilla. Sì, proprio lui, il Vanni Brambilla, ex partigiano duro e puro, da anni asserragliato al circolo per anziani dietro bandiere di una rivoluzione mai avvenuta, vittima della sua unica debolezza: il veleno del capitalismo si è impossessato della sua mente con l’illusione dell’elisir di lunga vita e lunga durata, sottoforma di pastiglie azzurre acquistate sottobanco alla farmacia di Pero. Un solo errore, una sola volta, quella fatale. Vanni Brambilla saluta il mondo dalle lenzuola della Chantal. Nell’ultimo bagliore di luce ha visto e accarezzato morbide fantasie di pizzo e raso: caduto sul campo di battaglia, non sotto i colpi dell’artiglieria tedesca, ma per troppo ardore, per aver creduto in una finta giovinezza.
Nebbia sta lì, seduto sul marciapiede, guarda l’ambulanza allontanarsi senza più la sirena accesa. La strada del Vanni, verso l’obitorio è breve: «Tanto poi torni domani da queste parti, rifarai la strada fino giù in fondo». Pensa ad alta voce, guardando verso il cimitero Maggiore. Cinque minuti dopo scende Chantal con una valigia in mano e il magone negli occhi: «Nebbia, ciao Nebbia. Io glielo dicevo al Vanni di frenare. Va piano Vanni! Sta fermo! E invece al sa tegneva mia e l’è scoppiato».
«La resistenza. Tradito dalla resistenza. Segno dei tempi. Forse era meglio la ferramenta, con ‘sti vecchietti si corrono dei rischi».
Solo un cenno di saluto, prima di salire sull’autobus, con la valigia in mano: Chantal saluta Musocco e il suo mondo finito in cassa integrazione. Destinazione ignota, ma Nebbia non si rassegna: «Prima o poi torna. Finire come il Vanni, magari a 99 anni, sarebbe il mio sogno».

Gibbone in fuga, preso con le mani in mano

Gh’è scapà al gibòn. Si aggirava in viale Papiniano, camminava ciondolante senza meta. L’hanno notato in molti, oggi ne parlano tutti i giornali. C’è già una segreteria di partito che studia una strategia per la prossima campagna elettorale: la faccia buca il video, indubbiamente. Il gibbone è un inedito che potrebbe diventare il simbolo della riscossa delle facce da schiaffi, degli uomini scimmia, o soltanto delle scimmie.
Si grattava il capo nervosamente, il gibbone, e non sapeva se valesse la pena di attraversare il viale oppure rimanere lì, sotto il platano: il dilemma di una giornata di un milanese, forse un po’ atipico, ma pur sempre con una dignità. Più di qualsiasi clochard, di un miserabile, come i tanti che vagano alla stessa maniera e riscuotono soltanto indifferenza: almeno il gibbone non è sembrato una comparsa scomoda, ma attore protagonista di qualche fotogramma della giornata più appiccicosa dell’anno, con l’afa che fa molto equatore.
Ma un gibbone o un chicchessia finisce comunque per fare massa e in città la massa finisce per dare fastidio. Già dopo una mezz’oretta che era lì con le mani in mano, sotto il platano, c’era qualcuno, sul marciapiede opposto che mugugnava alla vista dell’energumeno peloso: «Di questi extracomunitari non se ne può più». E già ci sono opinionisti che si chiedono se si tratti di razzismo oppure di un passaggio di grado, da semplice scimmia a extracomunitario, categoria che a Milano ristagna nei piani più bassi del rispetto, purtroppo.
Gh’è scapà al gibòn e potrebbe diventare presidente. Dove? Una poltrona qualsiasi. E se non ci fosse posto, va bene anche manager. Ci starebbe seduto giusto il tempo per far danni e mandare qualche azienda sul lastrico e, magari, come buona uscita, è a buon mercato e si accontenta di un casco di banane: una convenienza, tutta da valutare.
Ghé scapà al gibòn, ma poi l’hanno arrestato, come un malandrino: si potrà mai permettere, uno scimmione, di fermarsi a pensare se attraversare una strada oppure no? Dietro le sbarre, ma presto in libertà, assicurano i benpensati: «Al suo paese, magari. Rimandiamolo da dove è venuto». Qualche deputato protesterà e c’è chi farà gazzarra su ‘sta cosa, un’interrogazione parlamentare potrebbe essere all’ordine del giorno. Clandestino è una brutta parola di questi tempi, ma ancora non è chiaro se esiste una normativa che faccia distinzione tra uomo e scimmia. Soltanto la tivù, a questo punto, potrebbe salvare il gibbone di Milano dal triste destino di un “sans papier”: un talk show farebbe al caso suo, ma in estate i palinsesti sono tutti bloccati. Rien à faire, non se ne fa niente: gh’è scapà al gibon e Milano non è più la stessa. O forse no.