Taleggio e cronaca nera

Giacomo è un lupo della cronaca, detto Schiscetta. Un lupo diurno che parte da lontano ogni mattina: un’ora di treno, stop in periferia. Milano Certosa, la porta del far west, e un chilometro a piedi fino alla redazione. Mentre il treno saltella sulla traversine dei binari, ha tempo per sognare e pensare, leggere e tacchinare giovani studentesse inebetite dal fascino del reporter. Lui, esperto lavoratore ai fianchi, soprattutto quelli scavati e sinuosi, non ha tempo da perdere, deve “far girare il giradischi“, dice lui. Inteso come sfangare parole e notizie ai margini della città. E così, per risparmiare tempo e denaro, la moglie Nunzia, sarta in cassa integrazione nella “Brianza bene”, gli confeziona pranzi al sacco alla vecchia maniera: al bar dell’angolo, panino, birra e caffè fanno più di dieci euro. Per molto meno, Nunzia propone sfilatino agli sgombri alternata a michetta con taleggio e focaccia con mortadella, rigorosamente con pistacchi. Regola numero uno, variare il menù, secondo l’alternanza classica: tre sapori opposti, tre odori diversi che si spandano, uno per giorno, tra le quattro mura di un ufficio polveroso e pieno zeppo di carta e scrivanie.
Il posto di Giacomo è il playground dell’acaro, ma poco distante c’è il paradiso della Wilma, pantera della rosa, regina del pettegolezzo e del cambio merci: notizie glamour al prezzo di profumi ed elisir di giovinezza. Il suo silenzio sugli scandali in cambio di creme per il seno e autoabbronzanti.
Sedici metri quadri nei quali concentrare i fatti di un giorno sudicio, suddivisi in quattro angoli, tra i quali spiccano l’angolo della bionda che manda aroma di mughetto e menta e, ai confini della realtà, la nicchia modello Calcutta, dove abitualmente siede e sverna Giacomino che “gira il giradischi”.

Pausa pranzo in solitudine per lui, un uomo in trincea tra scrivanie deserte: oggi è il giorno del taleggio, pasta morbida che stoppa un po’, ma con un buon chinotto va giù senza fare il bozzo in gola. Tace Milano, la cronaca fatta di coltelli, transessuali e gelosia, per ora lascia un po’ di tregua. Masticando in intimità, la mente viaggia agli anni della gavetta, quando il Giacomo faceva il galoppino in provincia, sempre a caccia di liti da cortile, scambi di vedute e ceffoni in consiglio comunale, roba da poco. Nella periferia di una metropoli si vive impelagati nel torbido, con la vita che ogni giorno vale sempre meno: nei palazzi bene, si accendono telecamere e si mostrano paillettes, qui la gente si accoltella per un niente, sangue che diventa titolo per un giorno, anzi meno. E poi i morti scompaiono presto, oscurati del delitto del giorno seguente: tritacarne mediatico, lo chiamano. E Giacomo fa “girare il giradischi”, nel senso che muove un sottobosco d’informatori, una rete costruita da topi e talpe di città.
Nemmeno il tempo per il secondo morso al panino, nemmeno un fiato di chinotto, il telefono è come una fitta allo stomaco, se squilla quando non dovrebbe: «Per Dio, pronto! Ex domatore depresso è fermo sul cornicione di via Sapri? E che fa, aspetta il trapezista? Guarda giù e non sa che fare? Senza la rete? Forse non si butta, ah…ok, corro lì». Boiavacca a ripetizione, nel giro di dieci secondi, panino in mano, canapino e penna a sfera nel taschino della giacca, Giacomo scatta dalla scrivania, ma sbaglia le misure di dieci centimetri: inciampa e vola, con un porc…. formato arcobaleno. Gomiti a terra e una michetta che rotola inesorabilmente sul pavimento come un frisbee lanciato male. Non c’è tempo, c’è da correre sotto il cornicione, il panino finisce nel cestino dell’immondizia, beffa vigliacca prima di sparire e raggiungere il domatore.

Cose che capitano, si dice in questi casi, ma a volte la sorte prende pieghe bizzarre: come la piega della fetta di taleggio che, per uno strano destino, va a infilarsi sotto la scrivania della Wilma, ignara e assente. Un centro perfetto in un pertugio tra scrivania e parete, prima di scomparire nelle tenebre. Ma il taleggio, si sa, non è all’occhio che desta scalpore, bensì all’olfatto: la sua presenza non la si vede, ma la si avverte sempre, questo è sicuro. La peggior disgrazia immaginabile per la bionda Wilma che, mezz’ora dopo il rientro dalla pausa coiffeur, sospira nervosamente come se stesse preannunciando un attacco d’asma. «Non è nemmeno colpa del Giacomo», pensa tra sé, accorgendosi che il collega è fuori sede, ma l’inquietudine non si placa. Il dramma impone un intervento drastico, firmato Chanel numero 5 spruzzato a litri: ne esce, però, un mix mefitico, perché il taleggio è bastardo, non si placa nemmeno dentro una tanica di acqua di colonia.
La redazione si anima, un viavai di collaboratori, informatori, pony express, nella selva di parole e squilli di telefono, ma anche agli uomini più avvezzi al sentore selvaggio non sfugge l’olezzo della Wilma: un istante, quasi un mancamento, imbarazzo di un secondo e tutto riprende. Ma per la Wilma, no, la vita non è più la stessa, questa è la peggior tragedia che le sia mai capitata, dopo il black out della doccia solare del 2004: continua a guardarsi attorno, sul pavimento, non vede nulla, tutto è come sempre. Non resta che passare in continuazione la scrivania con il multiuso, ma niente, l’aroma è quello di un sandalo di marciatore al termine di una giornata d’estate.

E così va per tre giorni, con Giacomo e i suoi panini che non fanno più breccia nell’atmosfera guastata dal terribile nemico invisibile. La cronaca corre, non ha tempo per guardarsi attorno, ma la Wilma non potrà resistere a lungo. Fino alla catastrofe. Il caporedattore si alza con fare scocciato e gli si para davanti, mentre lei è al pc: «Wilma, porca troia, ta spuzzan i pé». Non servono traduzioni per immaginare l’effetto devastante di tale attacco frontale che fa vacillare il volto truccatissimo della pantera della rosa. Volto color fucsia, misto rabbia.
Dieci minuti di terrore sulla sua scrivania, la Wilma fulmina tutti con lo sguardo e sposta furiosamente ogni cosa gli capiti sotto mano, alla ricerca di una prova che possa in qualche modo scagionarla: «Se potessi sbattergli i piedi in faccia, a quello là, per fargli capire che io i piedi me li lavo eccome».

Un urto accidentale, la scrivania si muove di un centimetro. Dall’oscurità, vicino alla parete, fa capolino qualcosa di giallo, che visto da vicino viene identificato. Wilma lancia un urlo che è più di liberazione che di terrore: «È formaggio! Non sono io!» Gelo e silenzio tra le quattro mura e quattro giornalisti accampati lì: volti che si girano all’angolo Calcutta, con Giacomo che diventa un punto di domanda vivente. Prima non capisce, poi accetta il verdetto: il destino ha voluto punirlo, beffardo, e a girare il giradischi, ora, è nel sottoscala, per ordine del direttore. Lontano dal mondo che conta, esattamente come le sue notizie giornaliere.
«È una questione di sopravvivenza. Qualità e immagine prima di tutto!», urlano le gerarchie dentro gli uffici passati con la cera. Una fetta di taleggio, oggi, è quanto basta per rivoluzionare la politica di un giornale, soprattutto se va a scapito della reputazione di una gattona che vive in una nuvola di Chanel. La prima pagina ora è un gran florilegio di sfilate e feste, scollature e lustrini. Non c’è futuro per i cronisti con la schiscetta. Tempi duri anche per gli ex domatori che passeggiano sui cornicioni.

La disfatta dell’anarchico

«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato». (Matteo 28,19-20)
Nina Orapronobis ha una fede inattaccabile, non c’è tentazione che faccia breccia nel suo cuore. Nebbia ogni tanto la incontra lungo la strada che conduce alla fermata del tram e, ormai, ha smesso di discutere con lei di religione: qualche anno fa, ci passava svariate mezz’ore a contestare le certezze della donna, in materia di aldilà e profeti. È la colonna portante della sezione locale dell’Aziona cattolica, la Nina: inversamente proporzionale al suo aspetto, esile come un roditore, ma un gigante nei valori. Nebbia ce l’aveva in particolare con la vecchia storia della castità – non che la Nina l’avesse mai indotto in tentazione, ipotesi peraltro fin troppo audace per la fantasia di chiunque – e con l’influenza clericale sulla vita politica. Ma la Nina, nulla, aveva sempre replicato colpo su colpo a ogni provocazione, come un libro stampato e quando si ritrovava messa all’angolo, sfoderava un vecchio adagio, che le figlie di Maria, anni fa, sbandieravano come un grido di battaglia: «Sott al campanin sa fa mai cattiva fin».

Da qualche anno, però, il tarlo della politica aveva in qualche modo intaccato il suo integralismo, noto in tutto il quartiere. Lì c’era ancora da litigare, secondo Nebbia. Lo scudocrociato in decadenza non fa più breccia nell’affetto di una generazione, dopo cinquant’anni di battaglia contro una falcemartello che, all’ombra della Certosa, non si è mai capito bene cosa e chi insidiasse. Nina ha nel cuore la figura di un novello cavaliere della salvezza, che gli ha comunque permesso di salvaguardare il suo motto, che vive da cinquant’anni: «Il genio del male va respinto dai luoghi di potere, via i senzadio dai posti di comando», inculcavano dai pulpiti. E le angeliche portatrici del messaggio evangelico, delle quali Nina era la guida, erano in prima linea, con le loro voci eteree, nel trasmettere dai marciapiedi fino su, ai terrazzini più miseri di ogni condominio, il messaggio chiaro che veniva dal fronte bianco contro l’anticristo, in genere di colore rosso e con barba e capelli incolti. Nunc et semper, nelle case degli italiani, dai marciapiedi alle tivù.

Caso vuole che Nebbia rientri perfettamente nella fisionomia del maligno: la natura lo ha fatto troppo simile a Karl Marx, in quel suo irsutismo che non lo fa certo somigliare a una creatura angelica. Nebbia vive l’anarchia, è anarchia fatta persona, ma la gente lo crede comunista. E lui ci gioca, su questa ambiguità, soprattutto con la signora Orapronobis, immacolata anche nella cabina elettorale: «La rivoluzione può darsi che non avverrà mai, ma lei sarà travolta dall’esercito del presidente, cara Nina, un plotone di maggiorate chiappe al vento».
«Muccala Nebbia, lavati la bocca, sempre con questa calunnia montata ad arte. Ci vuol rispetto per chi lavora. Famiglia e lavoro, che ne sapete voi che vivete allo stato brado?».
«Ora et labora Nina, che il tuo presidente tromba… ma che ne sai tu di sta materia? Al catechismo non le insegnano queste cose, ma al night club da oggi si prendono i voti dei cattolici».
«Sempre il solito volgare, sei un panefanagott, sempre in giro a spese della società. E ringrazia che c’è la carità cristiana, altrimenti quelli come te… dritti all’inferno da un pezzo».
Parla così bene il presidente, è gentiluomo vecchio stile: «L’è anca un bel omm. Si vede che è uno che si è fatto da solo, che lavora. Ci piaccion le belle donne? Chissà quanto ricamano quegli invidiosi dei suoi avversari. Già, l’invidia è una brutta bestia. Il vescovo dice che bisogna difendere la famiglia, lui è il baluardo».
«Ma se il suo partito è un covo di divorziati!».
«Va, va Nebbia, lassum istàa, ti ghe madumà ball. A contare le frottole, vai all’osteria».
Tutto il cancan sulla politica di questi giorni, ha fatto venir voglia pure a Nebbia di andare a votare. Il certificato elettorale, immacolato e inviolato come la Nina Orapronobis, è presto ritrovato, sul fondo di un vecchio cassetto. Seggio 3, non si può sbagliare: «Vado là e mi diverto io, poi. Io sì che ho le idee chiare e mai le nascondo».

Dieci minuti in coda, non di più, carta d’identità alla mano. Piccole formalità burocratiche per sentirsi, con matita e scheda in mano, di contare qualcosa: «Lo Stato mi dà il potere per un giorno, io lo uso come mi pare», dice tra sé. Se un anarchico va dallo Stato, deve valerne la pena. E Nebbia ha deciso che oggi ne vale la pena, ribadendo un motto che ha fatto storia tra i contestatori: “viva la gnocca” scritto a caratteri cubitali. Ecco il suo voto, in disprezzo al sistema: dietro la tenda della cabina è pronto al suo gesto, come un terrorista delle piccole cose. Ma un terribile dubbio lo assale, imprevedibile: «Mund lader, ma viva la gnocca è la linea del presidente, non si può dar ragione a quello là». Bisogna pensare a qualcos’altro e, soprattutto, mai arrendersi alla scheda bianca, simbolo dell’inconsistenza: «Se io conto, qualcosa devo scrivere su sta scheda». Passano i minuti e alle sue spalle, là fuori, c’è chi mugugna.
Mai accaduto prima. Nebbia è nel panico e, in cerca di una soluzione, gli capita di fissare i simboli dei partiti: tanti disegnini, «qualcosa bisogna pur scegliere», gli balena per la testa. «Ma quanti sono? Ma chi c…, ma come cavolo». La mente è come un flipper in tilt, gli occhi vagano da un simbolino all’altro e, assalito da un senso di disperazione, quasi sfinito, mette la sua croce che sembra uno sbrego sulla scheda. Chiude il plico senza pensare, senza vedere, imbuca nell’urna e scappa via, in dieci secondi, senza dar peso agli altri che lo osservano perplessi. Fino al marciapiede, giù in strada, appoggiato al muro della scuola: voto regolare e conteggiato, il primo nella sua carriera di anarchico. Segno della resa. Rinsavisce e ricorda: una croce su quel tricolore su fondo azzurro… «Boiavacca, ma perché non sono andato a pescare!», impreca ad alta voce.
Il presidente ha vinto anche stavolta, l’esercito delle maggiorate sventola bandiere e poppe. La Nina, che il reggiseno non l’ha mai indossato perché non previsto dalla scritture, passa di lì e, senza sapere, rifila una battuta che sembra un gancio di Mike Tyson: «Che l’amore trionfi, figliolo. Ma voi comunisti sapete anche leggere, per votare?». La disfatta è compiuta: «In saecula saeculorum, amen», risponde Nebbia.
“Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi” (Niccolò Machiavelli, Il principe)

Divorzio di diamante

5 giugno 2009, cielo velato e aria meno afosa del solito. Adelina del terzo piano, interno tre, a due minuti di strada dalla fermata del tram, prepara una valigia in similpelle, sgualcita negli angoli, con i manici un po’ cotti dal tempo: prova a metterci dentro quel che ci sta, quel che pensa di salvare da una vita, dopo sessant’anni tra quattro mura a far minestroni. Alle otto del mattino ha sciolto un nodo che aveva dentro, nella bocca dello stomaco, dal 5 giugno 1949, giorno delle sue nozze con Callisto Bianchi, nato e cresciuto al Musocco, con l’intenzione pure di morirci in quel quartiere. Ma l’Adelina no, ottant’anni suonati sono l’età giusta per scendere al piano terra e sparire verso la libertà che l’aspetta alla fermata del tram. Alle otto del mattino ha celebrato le sue nozze di diamante con un solenne “vadavialcù”, in stereofonia con finestre aperte e vento che spirava verso il bar, dove Nebbia seduto al suo tavolino ha sentito bene. Il Callisto non l’ha nemmeno guardata: in canottiera, appoggiato sui gomiti alla tovaglia cerata del cucinino, ha continuato a fissare il suo bicchiere semivuoto e il bottiglione di rosso dell’Oltrepo semipieno, masticando uno stuzzicadenti. L’Adelina ha preso fiato, si è gonfiata il petto e l’ha sgonfiato sul volto del marito. Vadavialcù, simbolo di redenzione di una casalinga che sta per partire verso l’ignoto.

Il 5 giugno 1949, a sposare il Callisto ci era andata in bicicletta, partita da una corte del Giambellino con mamma Ines, papà Giuseppe e i fratelli più piccoli, Rosaria e Santino. Per lei, papà aveva fatto il sacrificio di acquistare una Dei di seconda mano, nera e con i freni a bacchetta, regalo di nozze conquistato centellinando ogni risparmio. Tutta la famiglia era arrivata alla Certosa con altre due biciclette chieste in prestito al panettiere vicino di casa: mamma e papà in sella, Rosaria sul portapacchi, Santino sulla canna della bici usata da papà. Gli zii e altri parenti si erano arrangiati con altri mezzi o erano venuti a piedi, una decina di persone in tutto. Aveva detto sì al Callisto, perché prima o poi a qualcuno avrebbe dovuto dirlo, una zitella in casa non ci sta mai volentieri, e in fondo gli voleva bene. Gliel’aveva presentato la sua amica Gisella che, come il Callisto, lavorava in fabbrica a Greco. Si erano conosciuti per caso in una balera improvvisata fuori da un’osteria: ci andava di nascosto per ballare mezz’ora, non di più, il tempo massimo consentinto affinché a casa nessuno se ne accorgesse. Anche il Callisto l’aveva sposata per amore, ma di quel giorno ricorda soltanto l’ossobuco con il risotto, pranzo da re dopo la cerimonia, alla trattoria della Nina, un vecchio locale sul Sempione. Poi via, in treno, per il viaggio di nozze: tre giorni a San Mamete, sul lago di Lugano sponda italica, ospiti della zia Giacinta.

Da allora, tutto aveva cominciato a sbiadire, destino segnato per una casalinga senza figli: sua madre gliel’aveva detto, «sensa bagai, la famiglia la va a ciapàa i quai», ma la natura aveva deciso per lei mentre il Callisto si bruciava anno dopo anno, tra catena di montaggio e osteria. Nella camera da letto c’era giusto il tempo per “svenire”: giornate senza parole, nottate solo di suoni sordi e rumori corporali.
Ottant’anni lei, ottantaquattro lui, nozze di diamante nel segno dei tempi moderni: Adelina si separa, «come la tosa della Gisella, ventisette anni, divorziata dopo sei mesi». Sessant’anni, invece, per lei: non trascorsi, ma scontati. Guarda la stanza, allunga lo sguardo fino in salotto e pensa a cosa mettere in valigia, cosa salvare: la foto di mamma, la statuetta di Papa Giovanni, “Tu sei quello”, 45 giri di Orietta Berti, e poi? Lo sguardo vaga tra pareti e mensole, Adelina prova a pensare cosa valga la pena di portare con sé di quella vita, vorrebbe scegliere mille oggetti, ma non trova niente. Prova almeno a immaginare un gesto che scalfisca la scorza spessa e dura di quell’uomo di pietra, l’orso Callisto che rivive ogni giorno la stessa trama. Da quando è in pensione, Greco Pirelli è dimenticata, gli restano l’osteria e l’Inter. Adelina allora ha una lampadina che le si accende nello sguardo, una vendetta, la ripicca che almeno lo faccia bestemmiare: c’è il quadro con la foto autografata di Mariolino Corso, in camera, stella neroazzurra che Callisto ha voluto accanto alla Madonna di Caravaggio e sta lì dal 1963. Lo spolvera ogni giorno con devozione sincera nei confronti dell’Inter dei miracoli. Un istante, un movimento rapido ed è in valigia: Mariolino Corso rapito per vendetta, da una casalinga che la domenica ascoltava la Pavone, mentre il marito, senza soldi per andare a San Siro, ascoltava le partite in cucina, alla radio, lì davanti a lei, senza mai dire una parola. «Perché perché, la domenica mi lasci sempre sola», «Adelina tass, silenzio!».

Il campanile della Certosa scandisce il mezzogiorno, l’ora del desinare di ogni operaio milanese della vecchia guardia: ma il Callisto oggi si aggira per la casa senza sentire né rumori, né odori di cucina, i polmoni scuotono fumo e catarro, con litanie di “istu” a ripetizione. Un girovagare inquieto e in preda al disorientamento, il suo, fino alla camera da letto: una parete vuota, la Madonna di Caravaggio non ha vegliato sulla disgrazia. Capisce e rimane impietrito: la moglie in fuga con Mariolino Corso, crollano certezze. Adelina corre sul 14, destinazione ignota, sui binari della libertà assapora sensazioni mai provate prima.
Passa il pomeriggio, Callisto continua a masticare lo stuzzicadenti con fare rassegnato, il volto corrucciato spulcia con gli occhiali sul naso l’elenco degli annunci sul Giorno: cercasi badante rumena, possibilmente giovane e nubile. Ma le voci a quattro, cinque stellette riportano solo le offerte di Luana, Ramona, Chantal, Sharon, Astrid: segno dei tempi che cambiano, della società che consuma, che tutto compra e tutto vende. «Lo diceva il curato che il diavolo è tra noi, il diavolo ha scelto le donne, le donne la libertà», mormora tra sé. Eppure non ha rancore: «Me lo poteva almeno dire, in sessant’anni, che teneva per l’Inter».

Lo scandalo del florilegio

Ore 7,30 puntuale, tutte le mattine. L’Ernesta del Musocco è presenza fissa davanti all’altare della Certosa. Riempie il silenzio della navata deserta, con i suoi pateravegloria: un regno mistico inesplorato, lasciato in pace dalla città là fuori che tira in ballo i santi anche soltanto per un inciampo sul marciapiede. Rosario d’ordinanza o lodi mattutine, la cantilena è più o meno sempre la stessa e chi vuol partecipare tenga il ritmo dell’orapronobis, oppure non si permetta di disturbare. Roba da professionisti, vietata agli asmatici.
«L’Ernesta dialoga con il Signore», spettegola la tabaccaia in visita mattutina all’acquasantiera, giù in fondo, vicino alla porta, senza tempo né voglia di avanzare sulle panche davanti. La tabaccaia alza i tacchi e se ne va, ha già visto quanto basta per diramare il bollettino di giornata: il Signore, in realtà è un signore ben più terreno, benché l’Ernesta faccia di tutto per non dar scandalo, la tabaccaia ha capito, ha saputo, ha commentato. E le parole hanno preso a volare, gonfiando mugugni e risatine da Musocco fino a Pero.

Sulle volte vegliano figure di angeli, là in alto, affreschi del Crespi e del Peterzano, il maestro del Caravaggio: lì sotto, tra la luce e le ombre disegnate dalle vetrate, una santa donna dall’età indefinibile manda in scena il suo rito. C’è un amore che non trova consolazione, ma soprattutto il timore di confessare un pensiero impuro. Il rito dello scandalo è un gioco di gesti e parole, tra lei e il Fausto, il bonsaista, che ogni venerdì arriva in chiesa con fare circospetto. Ha in mano un mazzo di fiori e si esibisce in audace corteggiamento: lontano dagli occhi della gente, ma davanti all’Altissimo, confidando negli angeli e per non mancar di rispetto a loro e alla signora, i fiori li depone davanti all’altare. Sono per l’Ernesta, ma lei sopraffatta dalla vergogna mai avrebbe il coraggio di raccoglierli e li lascia lì in omaggio, anzi in espiazione. Fausto va oltre, lei inginocchiata davanti alla panca, lui anche, alla sua destra, solo per qualche istante: «A te ricorriamo esuli figli di Eva, a te, sospiriamo gementi e piangenti», incalza lei alzando la voce come a difendersi da una sicura avance. «A te mia cara Nesta, che sei la rugiada di questo mattino, fresca e pura nel mio cuore», incalza lui con volto fisso al crocifisso, a mezza voce, tanto da inserirsi appena nella cantilena che, dal fondo della chiesa risulta un suono incomprensibile alla tabaccaia vigile. Un minuto, ognuno con la propria preghiera, poi il Fausto si alza e se ne torna alle sue piante, a due isolati dalla chiesa. A litania finita, l’Ernesta si rialza facendo scrocchiare le ginocchia, spalle all’altare e fugge via a passo spedito, paonazza in volto, arriva a casa con il batticuore di un’adolescente e tira giù d’un fiato un sorso di grappa, per ritrovar le forze. La giornata scorre vie veloce, nella sua solitudine di vedova, scorre anche la settimana con la testa e il cuore al venerdì.

Bonsaista sì, ma quando serve il Fausto non fa le cose in piccolo, per i suoi mazzi non bada a spese e dimensioni: calle, gladioli, rose, gigli, persino orchidee. Vestito della festa, profumato al pino silvestre, fermacravatta d’argento e fazzolettino in tasca, Fausto è tutto cuore e poesia, uomo d’altri tempi: «A te, o Nesta il mio pegno in dono a te al cielo». E lei: «O Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso…». Altro venerdì. «A te Nestina mia, un segno di primavera a te a al Signore, che custodite il mio cuore…». «… preservaci dal fuoco dell’Inferno, porta in cielo tutte le anime». Il rito si ripete per settimane, ma la Quaresima del Fausto sta per finire.

Una mattina di primavera, ore 7, “la sventurata rispose”. Ernesta del Musocco sceglie l’amore con la benedizione del cielo. “In que’ momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva”. Sente dei passi avanzare dal fondo della chiesa, si volta appena, quanto basta per intravvedere una sagoma d’uomo su scarpe di vernice. Fausto oggi sembra voler esagerare, il mazzo è enorme, immenso bosco floreale, esplosione di colori che emanano un profumo di primavera che purifica l’aria inquinata di una chiesa sopravvissuta ai bordi dell’autostrada. Ernesta si volta ed esce dal banco, l’enorme cespuglio fiorito avanza lentamente su piedi un po’ malfermi. “Un prodigio della natura”, pensa lei. E rompe gli indugi: «Basta, non aspettiamo più. Ti amo, il cielo è con noi, uniamo la nostra passione». Silenzio, secondi interminabili, il tempo di far precipitare a terra l’enorme florilegio. Don Nicola sembra di pietra, bianco in volto: «Se te gh’è? Vade retro Satana». L’Ernesta spalanca la bocca,sbotta, viola in volto: «U Signùr cara Madona, al ma scusa», e fugge via. Si prepara il Corpus domini, alla Certosa, e il curato ha già un po’ sciupato i fiori per l’altare, finiti miseramente sotto i suoi tacchi, durante la fase convulsa.
In fondo alla chiesa, la tabaccaia sgrana gli occhi e si trova nelle orecchie la notizia del secolo, tutta da spifferare a manetta sulle frequenze di radiopettegola. Fausto, il bonsaista, è in coda al semaforo, arriverà in ritardo, il suo primo venerdì in ritardo. Tipico da “due di picche”. Gode soltanto il fiorista.

La rivincita del risotto

Chi fa il risotto più buono di Milano? Il concorso impazza in città. In fondo a viale Certosa c’è Ugo che non raccoglie la sfida, ma da un’ora rimesta la sua pentolona, aggiunge brodo di pollo al suo riso che si ammorbidisce lentamente e manda un profumo di zafferano. Gira e rigira il suo capolavoro con il cucchiaio di legno, nel mezzo della pentola ha messo a macerare una crosta di grana durante la cottura. Venti minuti, venticinque al massimo ed è pronto per essere servito. Attende i clienti al bancone e davanti a lui, a pranzo, si forma la fila degli affamati. Il risotto è lì in attesa, accanto ad altre leccornie, bello esposto dietro un vetro, ma visibile a chi deve scegliere. Il primo in coda è Tano, il becchino: «Damme à soppressata, per cortesia, con un po’ di gorgonzola spalmato», dice. «E un po’ di risutin?» propone Ugo. «No grazie» è la risposta.
Ecco il turno di una dama d’altri tempi, la Matilde dell’impresa di pompe funebri “L’alba”, che forse avrebbe dovuto chiamarsi “il tramonto”, ma lei stessa ha voluto chiamarla in controtendenza, per dare un messaggio di speranza, per chi crede in una vita migliore: «Al ma daga un hotdog, per favore». Ugo s’irrigidisce, prova a trattenersi, ma sbotta: «C’è qui un risottino… e che cazzo. L’ha mai ciapà un wurstel in vita soa, proprio oggi ci è venuta voglia dell’hotdog?». La signora sorride, finge di non capire, ma viene servita comunque, nonostante il brontolio del cuoco.
Terzo della fila, Sauro l’elettrauto, giovane trendy, rasato a grechine, intarsiato di gel e orecchini, pregevolmente agghindato con medaglioni al collo e di una carnagione gialla da autoabbronzante, perché non ha il tempo di andare a farsi le lampade: «Li fai i cisburgher, amico?». Non è giornata: Ugo pianta in asso tutta la fila in attesa e si ritira in cucina con la sua pentola di risotto, mastica un “vacagà” che gli esce così spontaneo soltanto quando sente parlare di nouvelle cuisine. Oggi si autosostituisce, chiama un inserviente a prendere il suo posto al banco della trattoria, va al lavoro dietro le quinte, perché gli sembra una di quelle giornate da prurito alle mani. Ma il suo risotto ripudiato è sempre lì e lui, intanto, medita giustizia.

Passato l’orario del pranzo, mentre la clientela è al caffè, Ugo ritorna in scena con la sua pentolona: esce e si siede a un tavolino all’ingresso, accanto all’esposizione di tombe dell’agenzia “L’alba”. Lì fuori passa il Nebbia che coglie l’attimo: eccolo seduto lì accanto, con la fame dei giorni migliori. La coppia mette in scena una mangiata d’altri tempi, con megapiattoni di risotto che spandono il loro profumo per la via. L’aroma va a stuzzicare l’olfatto non completamente sazio della Matilde che, dopo il pranzo, passa di lì e attacca discorso: «Ma che buon risottone, ragazzi! E l’Ugo il brodo come lo fa? Perché è il brodo che fa la differenza, si sa…».
La risposta, con il volto scuro, non è esattamente da Oxford: «Di supercazzola non lavata». La signora ha un sussulto come di spavento, finge di non capire e rientra in ufficio con l’orecchio attaccato a un telefonino che, in realtà, non ha mai squillato. Un minuto più tardi, è il turno del Sauro che non rimane indifferente, da buon segugio, al profumino: «Minchia Ugo, ma che hai fatto, dai fammi fare un test, un assaggio please». Ugo mangia in silenzio con il Nebbia, alza lo sguardo a s’interrompe: «A te voret un test? Una cucchiaiata?. «Sì». E allora, sbang: lo chiamavano Trinità, con il cucchiaio. Sfodera un colpo sul cranio del Sauro che gli fa risuonare la testa, a conferma che forse è vuota. «Ciapa una bella cugiarata sulla testa, alura». Sauro reagisce con un «cazz, che scherzo di merda», in pieno tenore da buon appetito. Ma non è giornata, nessuno osa più sfidare e provocare Ugo, offeso nell’intimo meneghino. «E domani pastina per tutti», minaccia ad alta voce.

Per saperne di più (www.cibo360.it/cucina/mondo/risotto_milanese.htm)
Il risotto alla milanese è il piatto tipico per eccellenza del cuore economico del nord Italia. Questo piatto molto semplice affascina soprattutto per il colore dorato conferitogli dallo zafferano, ingrediente principale della ricetta. Non tutti sanno, però, che un risotto alla milanese come tradizione vuole contiene il midollo di bue, ingrediente fondamentale per arricchirne il gusto.
I piatti ad effetto, mascherati, contraffatti, multicolori erano prerogativa della cucina araba ed europea medioevale, destinati a stupire i ricchi signori alle tavole dei potenti dell’epoca.
Nel ‘300 il riso veniva coltivato estensivamente solo nel Napoletano. Da qui, grazie agli stretti rapporti che legavano gli Aragonesi ai Visconti e agli Sforza, la sua coltivazione si affermò nella pianura padana ed in particolare nel Vercellese. I primi ricettari trecenteschi iniziano a proporre piatti dove il riso svolge un ruolo fondamentale.

Il progenitore del risotto alla milanese è descritto da Bartolomeo Scappi nella meta’ del’500. La “Vivanda di riso alla Lombarda” era composta da riso bollito e condito a strati con cacio, uova, zucchero, cannella, cervellata (tipico salume milanese colorato di giallo dallo zafferano) e petti di cappone.
Ma è necessario attendere la fine del 1700 perché il riso alla milanese, così come oggi e’ conosciuto, prenda forma. L’anonimo autore della “Oniatologia” (scienza del cibo) titola una sua ricetta “Per far zuppa di riso alla Milanese”, dove il riso, lessato in acqua salata, alla quale si aggiunge un buon pezzo di burro quando bolle, è condito con cannella, parmigiano grattato e sei tuorli d’uova, per fargli acquisire un bel colore giallo.

La ricetta definitiva nasce all’inizio dell’800 nel libro “Cuoco Moderno”, stampato a Milano nel 1809, di un misterioso L.O.G. La sua ricetta: “Riso Giallo in padella”. Cuocere il riso, saltato precedentemente in un soffritto di burro, cervellato, midolla, cipolla, aggiungendo progressivamente brodo caldo nel quale sia stato stemperato dello zafferano.
Ai primi del ‘900 compare anche il vino: l’Artusi fornisce due ricette del Risotto alla Milanese, la prima senza vino e senza midollo e grasso di bue, la seconda con vino bianco, che serve con la sua acidità a sgrassare il palato dall’untuosità del midollo e del grasso di bue.
Ai giorni nostri Gualtiero Marchesi, maestro della cucina creativa, perfeziona la ricetta, consigliando di tostare il riso in poco burro, iniziare la cottura col brodo, poi aggiungere lo zafferano; frattanto fare sudare a parte la cipolla in pochissimo burro e vino bianco, aggiungere burro fresco ben freddo per ottenere una crema omogenea. Mantecare il Risotto, con questo burro, a fine cottura.

Tra il paradiso fiscale e l’inferno

Il Beppe di Musocco sorseggia il suo caffè sceccherato al Parkinson, ovvero a piccoli sorsi scanditi dal tremolio del suo braccio. Per l’occasione ha indossato una giacca che manda odore di tabacco misto a naftalina, dal condominio al bar ha depistato la badante nigeriana stipendiata dal comune, dicendole che sarebbe andato a comprare la sigarette: e, invece, è arrivato al bancone del bar dell’angolo, che dà sulla Certosa. Fuori c’è il Nebbia che pontifica su Silvio e Veronica, novelli Paolo e Francesca che lui ribattezza la “bella e la bestia”. Beppe, invece, dietro il suo nasone paonazzo ha ben altro a cui pensare, sta aspettando il Tino detto “burzìn”, ex partigiano come lui, poi diventato falegname e noto agli amici per il suo attaccamento maniacale al denaro. Tirchio quanto basta, sempre sul chi va là su dare, ma ben più sull’avere, attento osservatore del mercato dal marciapiede antistante la Cassa di risparmio, dove è stato posto uno strano televisore che informa dell’andamento delle borse e dei titoli. «Il momento è serio – aveva avvisato l’altro giorno sulla panchina del parco -, prima o poi si sbaffano tutto, compresi i tuoi quattro soldi…», e aveva terrorizzato il Beppe che, dopo una vita a lavorare alla Pirelli, si ritrova a gestire un estratto conto da 3.783 euro e 22 centesimi. «Ga veur na sulusiùn – aveva risposto lui-. con lo stesso fervore di quando ci si trovava a parlare al buio nelle baite dell’Ossola, in tempo di guerra». Duri e puri, il Tino e il Beppe, mai piegati al perbenismo di questi tempi. Anche a costo di finire in commissariato a ottanta e passa anni, con la fama di sovversivi. Reato? Tre settimane fa, alle sei del mattino, si fecero beccare da un metronotte con i pantaloni abbassati mentre pisciavano sulle saracinesche del centro sociale di ultradestra “Cuore nero”, una ragazzata che un tempo finiva con uno scatto a gambe levate e una risata, oggi, con la sciatica, l’asma e la tachicardìa congiunte, si è risolto con una misera debacle.

La “sulusiùn” il Tino ce l’ha scolpita in mente da tempo, per anni ha meditato, ma mai aveva osato, per via del senso dello Stato che tuttavia cozzava spesso con la sua anima capitalista, e anche perché lo sconfinamento in un paradiso fiscale, secondo la sua coscienza, lo faceva assomigliare troppo a Berlusconi. «Ma restare in bolletta è ben diverso che non pagar le tasse, sacramento!». Il paradiso fiscale del Tino e del Beppe è Chiasso, un’oasi del risparmio in fuga a trentatré minuti d’auto dalla Certosa, cinquanta forse poco più in sella alla Gina, la Lambretta resuscitata per l’occasione. Onoratissima carriera sulle strade e nelle campagne della Brianza, dove il Tino andava a lavorare in un mobilificio, molto tempo fa: «Anca par fala partire ghe veuran i danée», aveva riconosciuto, suo malgrado, il Beppe. Per giorni i due si erano asserragliati nel garage del Tino dopo aver raccattato marmitte e pezzi di ricambio da Ciro lo sfasciacarrozze. Ma tutto doveva essere in regola per la grande fuga, bollo assicurazione, caschi: «Non dobbiamo destar sospetto», aveva avvertito il Tino. E il Beppe si era adeguato, a cominciare dalla Carta d’identità rinnovata di fresco: «E giò altri danée». Poiché Tino ci metteva l’idea e i mezzi, al Beppe toccava l’investimento iniziale, Milano-Chiasso e ritorno, tutto compreso. Il giorno precedente era andato in banca e prelevare tutto, suscitando qualche perplessità nell’impiegato allo sportello: «Ci ho delle spese, lei non le ha?», si era giustificato grattandosi la crapa spelacchiata. I suoi 3.783 euro, però, li aveva riottenuti e intascati, rigorosamente nascosti all’interno dei calzini, tanto che lo spessore delle banconote sotto i talloni lo facevano zoppicare più del solito. Nel frattempo, il Tino aveva fatto il suo, nascondendo nelle mutande i suoi 4.129 euro frutto risparmiati in 82 primavere, un rotolino accuratamente infilato sul davanti che gli davano un certo orgoglio poiché, a prima vista, la sua mutanda sembrava nascondere una virilità ritrovata. «E ma racumandi, acqua in bocca», aveva avvisato il Beppe.

Ed ora, ecco il gran giorno, ritrovo al bar dell’angolo. Il Tino è in ritardo di qualche minuto, ma dopo il caffè, Beppe ritrova vigore, è pronto e già con il casco in testa, stile Mugello. «Ma se t’è gnu in ment», gli grida il Tino appena dopo aver parcheggiato la Lambretta lì sul marciapiede. Si avvicina circospetto: «Cunt il casco in cò, pirla! Bisognava essere più sobri, facciamo gl’indifferenti», gli bisbiglia sottovoce nel bar stracolmo di operai, studenti e impiegate in attesa della propria tazzina. Ripasso generale della grande fuga, metro per metro: non lì, ma in bagno «lontano da orecchi indiscreti».

Tre minuti, non di più, tutto chiaro, si parte: il tempo di cacciare fuori il nasone dal bar e scatta un “istu” a tutto volume… Gina, la Lambretta, saluta in impennata e se ne va sotto il sedere di un grasso teppista dalla testa rasata , facendo il dito medio, sparisce dietro l’angolo lasciando in scia l’urlo di battaglia: «Assssorrreta!». Il Tino vorrebbe inseguirlo, ma al primo passo si ferma e si mette le mani al petto, un dolore gli toglie il fiato, la vista s’annebbia è il segnale, suona la campana, ma è quella della Certosa, per fortuna. Beppe ha il naso blu mirtillo, ma il cuore regge: «Vile sabotaggio, vaccaboia». Rumori di sirene, corsa al pronto soccorso, la tempra del vecchio partigiano non può piegar sial destino, al segnale venuto da chissà dove, forse anche dal cielo per ricordargli che la via per il paradiso (fiscale) è lunga e in salita. Il Tino, però, si vede già all’inferno, sente di non aver più nulla da perdere. Sulla barella del pronto soccorso, il suo volto si apre in un ghigno beffardo: la massa informe del corpo sfatto nasconde un fiero dardo proprio lì sotto le mutande, ovvero 4.000 euro arrotolati ad effetto sorpresa. Lo sguardo non indifferente dell’infermiera, ignara del trucco, lo ripaga della cocente delusione. Oggi, come nel 43, l’imperativo è resistere.

94.000 vedove e un rubacuori (seconda parte)

Un pegno d’amore a misura di gregario: non un appartamento in riviera, non una Lamborghini coupé, ma un ciclocomputer, evoluzione del vecchio contachilometri, feticcio da ciclosuonato, voluto per mero riscontro scientifico della sua prestazione sul giro, quello dei suoi mausolei della miglior vita, 1.000 metri da registrare metro per metro con media oraria. Perché Tano non specula sull’amore, non fa il gigolo, ma è un artista double face, giorno e notte, nel surplace alla Maspes e nel tango casqué con finale “champagne”, plaisir des femmes.

Due giorni, anzi tre: la rossa inconsolata vacilla sotto un assedio che sa di dopobarba, coccole per la mente del becchino gentiluomo. E tra quelle tombe e la lapide del Gianni, la donna si è accorta di quanta vita scorra lì, dentro un camposanto: brulicano quei vialetti fioriti, sotto un cielo tornato azzurro. Tano, a suo modo, è un benefattore: riporta alla vita sensi che sembrano ingrigirsi. Altri due giorni e scatta il primo appuntamento, poi il secondo, poi il terzo e, al quarto, ecco il momento della resa: appuntamento al buio, motel con specchi e materasso ad acqua, zona tangenziale, mordi e fuggi. Rose destinate al ricordo degli estinti cambiano destinazione: il fioraio sul piazzale del Maggiore è di buonumore quando confeziona un mazzo che farà palpitare un cuore, anziché far da sigillo floreale a una gelida sepoltura. «Non capita quasi mai da queste parti», commenta ad alta voce. «Non andranno sprecati», replica Tano.

Dodici ore più tardi, il fioraio strabuzza gli occhi nel veder Tano passare, lentamente, quasi tramortito, accanto al marciapiede, in sella alla sua bicicletta color nero senza scritte: volto tumefatto, fisico sofferente, animo a pezzi. «Non avrai mica trovato un cornuto ad aspettarti?», lo aggancia dall’uscio del chiosco.
«No, sono vittima di una belva assassina», risponde sconsolato. E si ferma lì accanto, in sella, ma con il piede sul marciapiede, a spiegare la sua disgrazia, a discutere con l’amico, a cercar conforto, raccogliendo invece sfottò, non cattivi, ma comunque dolorosi. Al motel, Tano è capitolato più o meno così: ritrovo al buio con porta che si apre dall’interno, Drupi in sottofondo intona “Piccola e fragile”. La porta richiusa dietro le spalle e, in una frazione di secondo, montante al mento da capogiro e calcio in culo con stivale in cuoio lucido. Preliminari alla Mike Tyson, lui senza fiato, lampadine che si riaccendono e fanno luce su una femmina indiavolata, tutta fruste e borchie. Alla signora piace così, le rose si sbriciolano sotto un tacco a spillo, come la poesia. L’ultimo dei romantici incassa come una zampogna: «’A capa ‘e sotto, fa perdere ‘a capa ‘e coppa», è il suo unico commento a bassa voce. Fuga in bicicletta a metà della prima ripresa, nemmeno la brillantina lo assiste più, pedala con una cresta strapazzata e la vedova urlante: «Non andartene, ti prego».
Uomo distrutto negli attributi e nel carattere ricomincia a vivere nel suo camposanto. Solo una sgambata a fine pomeriggio, lo può ritemprare. C’è un consolatore da consolare, perso tra camere ardenti e sepolture da allestire. Ora basta, invece di una sigaretta c’è un ciclocomputer da sfidare: «Voglio vedere quanto impiego ad arrivare da zero a quaranta all’ora», pensa tra sé, mentre spolvera la sua bici nascosta in un bugigattolo vicino all’ingresso. Pausa ciclismo, dunque: con il collega Capuano a fargli da starter. Occhi puntati alla tecnologia, a quell’oggettino elettronico fissato sul manubrio, vialetto delle rimembranze deserto, pronti, via. Un istante, una visione, un incubo, a centro strada si materializza lei, la rossa: «Tano! Tano mio!». Terrore mozzafiato, svolta a destra e via a testa bassa a più non posso.

Destino vuole che le esequie del povero Sante Augello, ex netturbino, seguano un percorso alternativo, causa lavori: lo stesso del povero Tano che alza appena lo sguardo e si accorge del carro funebre, lì a un metro. Immagini confuse e concitate: una bici prosegue da sola la sua marcia lungo il vialetto andando a sbattere contro la lapide del geometra Facchinetti. Tano precipita a corpo morto sul cofano, sfondandolo con un botto da pelle d’oca. La vedova Augello in preda a un collasso, corteo nel panico, un vecchietto sopravvissuto alla campagna di Russia va in tachicardia e non si tiene: «U Signùr cara Madona». Solo il povero Sante, rigido nel feretro, rimane impassibile a osservare la scena. Segno del cielo, qualcuno lo interpreta così, ma non il proprietario del carro che libera dal cuore un’ode che sale su, nell’alto dei cieli. Mezzo mondo impegnato a soccorrere la vedova che, per volere degli spiriti, viene riportata alla vita, nel suo affacciarsi all’aldilà dev’essersi ravveduta: Sante vai avanti tu, per ora.
Tano in versione meteorite celeste passa in secondo piano, anzi nessuno lo nota più: in un baleno rotola giù dal cofano, recupera la bici e scappa via. La vicenda avrà strascichi, il destino è crudele e in meno di dodici ore finisce una gloriosa carriera. «Ed ero appena a trentaquattro all’ora», pensa tra sé. Consolazione degli afflitti, missione impossibile in questa società: «Da domani si cambia, si va in balera». Ma la signora Augello, come le altre 94.000 milanesi, ora, reclama una spiegazione.

94.000 vedove e un rubacuori (prima parte)

Capolinea del 14, finisce Milano, comincia il camposanto. La metropoli dei morti, con le sue strade e i suoi monumenti, ritrovo per un popolo con il velo, luogo di culto per 100.000 vedove, ma anche il velodromo di Tano. Piscopo Gaetano, cinquantacinque chili di maschio mediterraneo sotto un etto di brillantina Linetti. Masculo da Casoria a Milano, dalle sopracciglia a cespuglio, di professione becchino, ma con sentimento. Nel senso che, nella sua vita tra il cimitero Maggiore e il monolocale di Quarto Oggiaro, va dove lo porta il cuore. E il cuore di Tano vede due sole cose: la «fessa», come dice lui alzando il mento con orgoglio, e la bicicletta. Un becchino sensibile, insomma, ma professionale sul lavoro. Tra una messa da requiem e una sepoltura, trova il tempo per dare sfogo alle sue passioni. Mai provato a pedalare a Quarto Oggiaro? E a tacchinare? La risposta a entrambi i quesiti è la stessa: meglio il camposanto. La giornata è lunga, al Maggiore, e le strade della passione sono infinite: chilometri di vialetti, velodromo dei sogni per inscenare sfide immaginarie e pedalate reali, negli orari di scarsa affluenza e con il benestare del suo superiore terreno (tifoso di Pantani) e, probabilmente, anche del caporeparto ultraterreno, non avendo mai ricevuto malefici né dal cielo, né dall’inferno. E lì che la lacrima della vedova diventa rito quotidiano, anima in pena tra anime celesti, cuore da consolare. Dove non arriva più l’anima del marito, giunge la preghiera e quando nemmeno la preghiera può, Tano può.

L’approccio alle quarantenni è la sua specialità, come la volata in spazi stretti, due esercizi che mette in scena in orari generalmente diversi, ma con egual classe. In mente ha tutta la mappa delle sepolture che, a seconda degli orari, diventano terreno di caccia o percorsi ideali. Tra il fu Gilberto Pirola, classe 19, e la lapide della marchesa Torelli, di questi tempi va in scena la tragedia di una signora in tailleur grigio e cappello con retina, dal quale s’intravvedono riccioli rossi di una sensualità peccaminosa in quel luogo, almeno per i benpensanti. E il volto di quella creatura, rigato dalle lacrime non è sfuggito all’uomo brillantina, che dopo attenta valutazione, una passata di pettine e aggiustatina alla cravatta, mette in scena il suo miglior repertorio. Faccia contrita, ma occhio sveglio, si avvicina e si ferma quanto basta: «Eh povero Gianni, solo tu mi sapevi capire», recita a mezzavoce, ma con un tono sufficientemente alto da farsi sentire dalla signora lì accanto. «Ma come, lo conosceva anche lei?», sospira la sconsolata.
«Conosceva? Se non lo conoscevo io, chi semmai? Siamo cresciuti insieme».
«Anche lei è cresciuto alla Barona?», ridomanda lei.
«La mia famiglia è emigrata tanto tempo fa, io e il Gianni eravamo inseparabili», risposta che fa da conforto alla vedova rossa che, da quell’istante, avverte un senso di solidarietà, un senso di condivisione del dolore che induce a ridurre le distanza tra lei e quell’uomo che, se era amico di Gianni, non è più un estraneo.

La dinamica vincente di Tano è più meno sempre la stessa, strategia della consolazione che, a volte, richiede lungo corteggiamento, altre volte esplode in passione bollente in pochi giorni, dipende da caso a caso, ma quasi mai va a vuoto. Tano ci sa fare. Come quella volta in cui consolò la moglie del banchiere. Avete capito bene: banchiere, non bancario. Ricca ereditiera che, per superare il trauma della vedovanza, impiegò sette settimane, ma ritrovò stimoli da troppo tempo affogati nelle lacrime grazie a una crociera sul suo panfilo e a un maggiordomo tuttofare. E quel maggiordomo era Tano che seppe conquistarsi anche un premio partita: «Dimmi cosa vuoi come regalo», gli aveva chiesto la ricca signora. «Un ciclocomputer», era stata la sua risposta immediata. (…) continua

La linea della perdizione

Il Trivero non è un autobus come tutti gli altri. Lì sopra si è pendolari per vocazione: non potrebbe essere altrimenti per chi percorre ogni giorno centoventichilometri all’andata, centoventi al ritorno, tre ore a ogni viaggio. Si parte all’alba, si rientra che è notte: d’inverno, il capolinea lo si vede sempre al buio, andata e ritorno sotto la luna. Il fedelissimo del Trivero è Caronte, autista segaligno, crapa pelata ed espressione rassegnata: saluta la sua terra alle 5, vi rientra dopo le 21. In mezzo, un fiume di chilometri, tra il Piemonte e la metropoli, arrivi e ripartenze, attese fatte di panini col salame e sigarette. La radio sempre accesa, ma tanta voglia di scambiare due parole appena possibile. Sogni ad occhi aperti: caricare la sventolona che passa ancheggiando tutte le mattine dalla fermata, ma non si sa dove va, probabilmente abita qui, ma si potrebbe farla salire, chiudere le porte e portarla dove vuole: «Destinazione ignota, scelga lei». E invece nulla, sul Trivero salgono impiegati che sprofondano senza forma sui sedili più in fondo, studentelli avvolti in una dimensione tutta loro, tra i-pod e telefonino, zitelle inacidite e vecchiette con la sciatica: naturalmente le ultime due categorie sono sempre lì, quasi a soffiargli sul collo, nei primi posti del bus. «Ma si paga uguale anche dietro…», avvisa lui. «Sì, ma dietro mi vien la nausea, soffro le curve», risponde la tardona di turno senza lasciargli tregua. E così, la nausea la fan venire a lui, a furia di sorbirsi una tiritera senza rime, ma che suona più o meno così: «Io non so come si possa andare avanti con tutti questi extracomunitari. Ma cosa vogliono,dico, cosa vogliono!».
«Ah non lo dica a me che non trovo più una badante per mia suocera, che non voglia essere messa in regola, ma con tutte quelle tasse da pagare, come si fa».
«Io non so come Berlusconi riesca a sopportare tutta questa sinistra, non si può più tollerare».
«Ma sì, ma sì, non lo dica a me, che un vicino di casa sindacalista e al lavoro non c’è mai, è sempre lì in malattia».

E via discorrendo, su questo tono, prigioniero silenzioso tra pettegolezzi e luoghi comuni, su quell’Autolaghi sempre e costantemente ridotta a un imbuto stracolmo di fagioli. Un autobus, incastrato lì, finisce per sembrare un enorme borlotto che, da quel buco che conduce a Milano, ci passa quando e come può: a colpi di boiavacca e tevegnissuncancher. Stamane, poi, il Caronte è più depresso del solito. Ha due sole passioni: l’Inter e Nilde Iotti. «Ieri l’Inter ha perso a Napoli, giocando da cani…». Nemmeno il ricordo ormai lontano della Iotti lo consola: «… e Berlusconi si è preso pure il 25 aprile, pure quello, non gli bastavano le televisioni». Si lamenta ad alta voce, trovando come interlocutrice soltanto la più moderata tra le pettegole, che, però, fatica a contrastare l’arteriosclerosi e parla a vanvera, provando a complicare un cruciverba: «La mi scusi bel sciur… ma in dov’è Costantinopoli? Cinque verticale, il fondatore della città di Costantinopoli».
«Non c’era nemmeno un giovane ieri, al corteo di Valle Mosso…».
La signora replica: «Ah l’avessi io un ballerino come l’Emanuele Filiberto…».
«Voilà Milano, il gran Milan, città della Resistenza, ma qui la faccio io la resistenza».

Capolinea, Lampugnano: discesa in massa, vecchiette, pendolari, tutti tranne lui, il Caronte, che sfinito si assopisce al volante del mezzo, con la porta dell’autobus aperta. Passa un istante o forse un’ora, un periodo indefinito e una voce come dall’aldilà lo ridesta: «Non sa dove si prende l’autobus per Dongo? Lago di Como…». È proprio lei, la sventolona dei suoi sogni…camicia di raso attillata, bottoni che soffrono sul davanti, capello biondo platino sopra cappotto nero, stivalazzo color nero vernice con tacco altissimo e un mazzo di fiori in mano.
«Dongo? Lago di Como..eh dunque…». Una frazione di secondo di follia per una risposta che non può sbagliare, come un calcio di rigore al novantesimo: «… ma prego venga, salga. Aspettiamo un attimo se ci sono altri viaggiatori e partiamo…».
Cuore che batte a mille, pelata che prende colore e turgore, l’occasione per andare in gol: due minuti a guardare la cartina dell’Aci e Dongo è presto localizzata. Un tantino fuori linea: «Altro che Costantinopoli…», pensa tra sé. Tre ore di attesa per la corsa successiva, se le gioca così. La bionda non paga, ma il prezzo che paga il Caronte è alto: «Ci vado ogni anno a Dongo, il 27 aprile, ma è la prima volta che ci vado in autobus», dice lei. E lui manda giù: «Gran bel posto, ha scelto bene».
«Non si sceglie, è dovere andare a Dongo», confida la bionda.
«Già, facciamo il nostro dovere, dunque…».
Nilde Iotti, se fosse in vita, lo perdonerebbe. Tanto forse è solo un sogno, o forse un incubo. Ordinaria storia di vita di una generazione disorientata: prende la prima a destra e l’ultimo boiavacca è tutto per l’Inter.

Stelle e pianeti alla fermata del bus

Barnaba Oriani, illustre astronomo: che avrà fatto di male costui? Aveva studiato una vita per diventare l’orgoglio di una città e, invece, Milano gli ha intitolato la strada più intasata e tossica, con vista cavalcavia dell’autostrada e, un piano sotto, marciapiedi davanti all’entrata e all’uscita dalla città, verso i laghi, Torino e la Brianza. Proprio lì, c’è la fermata d’autobus più unta d’Italia, sul retro di un fast food, tutti in piedi sul marciapiede, chi in apnea, chi a pieni polmoni, immersi in una bolla di scarico della città. Concentrazione di marmitte incazzate, clacson isterici e un cielo che, a volte, non si vede nemmeno: Barnaba Oriani, che hai fatto di così terribile? Un astronomo, per una strada quasi senza cielo. Unico conforto: un metro quadrato di edicola, con tanto di separé per i pornolettori. Esistono ancora: oggi sono per lo più pensionati esclusi dal grande pornodromo mediatico, il web. Una volta c’erano il Nando e il Tromba, oggi i titoli sono più aggressivi, internazionali, ma lo stile anni Ottanta del voyeur è rimasto identico: Corriere della Sera “special edition” con allegato invisibile all’interno. Johnny, l’edicolante, conosce già tutta la scena a memoria, e anche il prezzo. Dieci euro lasciati lì da una sagoma, sul banchetto, nove più il prezzo del quotidiano, niente resto e rapido allontanamento dietro ai classici occhiali neri.
Tre metri più in là, pendolari in attesa, corpi che ciondolano sul posto, da un piede all’altro. Uomini e donne in stand-by, cento e più occhi fissi sul fiume impazzito di automobili in fuga, pensieri che vagano e scavano nei meandri di una giornata o magari nelle scollature generose di qualche segretaria. Alla fermata, oggi, è scoppiata l’estate. Ad aprile, il sole rammollisce già il bitume del marciapiede: senza pensiline, il solarium di via Oriani segna impietosamente la zona ascelle delle camicie d’impiegati sfatti dalle bizze di una settimana filata via a suon di “senz’altro signor direttore”. Per arrivare fin lì, sfidano la sorte alla roulette del pendolare: slalom e scatto felino da un marciapiede all’altro, in orario di punta e senza strisce pedonali. Sembra che tutto scorra a nastro, ma ecco la tragedia: tacco 12 e cosciona languida sotto una minigonna vertiginosa, fondoschiena da poster avvolto in un tessuto che sembra Domopak. La pantera mette il piede giù dal marciapiede e, taaaac, anche il Suv più cafone inchioda per farla attraversare. Con i pendolari non succede, ma con lei sì. Una frazione di secondo, non di più, e si torna alla realtà, ovvero a un crash da pelle d’oca, lamiere di una Panda proletaria che si sbriciolano contro il Suv, indistruttibile: litanie di vaffanculo e constatazione “amichevole” compilata con il cric sventolato come una bandiera… La pantera si volta appena e la poesia finisce: Ramona, completissima da Rio de Janerio, raggiunge il suo ufficio sotto il cavalcavia. Prima di entrare in servizio, piscia in piedi dietro la colonna. E proprio lì, trecento anni fa, Barnaba Oriani studiava le stelle e i pianeti.