Giacomo è un lupo della cronaca, detto Schiscetta. Un lupo diurno che parte da lontano ogni mattina: un’ora di treno, stop in periferia. Milano Certosa, la porta del far west, e un chilometro a piedi fino alla redazione. Mentre il treno saltella sulla traversine dei binari, ha tempo per sognare e pensare, leggere e tacchinare giovani studentesse inebetite dal fascino del reporter. Lui, esperto lavoratore ai fianchi, soprattutto quelli scavati e sinuosi, non ha tempo da perdere, deve “far girare il giradischi“, dice lui. Inteso come sfangare parole e notizie ai margini della città. E così, per risparmiare tempo e denaro, la moglie Nunzia, sarta in cassa integrazione nella “Brianza bene”, gli confeziona pranzi al sacco alla vecchia maniera: al bar dell’angolo, panino, birra e caffè fanno più di dieci euro. Per molto meno, Nunzia propone sfilatino agli sgombri alternata a michetta con taleggio e focaccia con mortadella, rigorosamente con pistacchi. Regola numero uno, variare il menù, secondo l’alternanza classica: tre sapori opposti, tre odori diversi che si spandano, uno per giorno, tra le quattro mura di un ufficio polveroso e pieno zeppo di carta e scrivanie.
Il posto di Giacomo è il playground dell’acaro, ma poco distante c’è il paradiso della Wilma, pantera della rosa, regina del pettegolezzo e del cambio merci: notizie glamour al prezzo di profumi ed elisir di giovinezza. Il suo silenzio sugli scandali in cambio di creme per il seno e autoabbronzanti.
Sedici metri quadri nei quali concentrare i fatti di un giorno sudicio, suddivisi in quattro angoli, tra i quali spiccano l’angolo della bionda che manda aroma di mughetto e menta e, ai confini della realtà, la nicchia modello Calcutta, dove abitualmente siede e sverna Giacomino che “gira il giradischi”.
Pausa pranzo in solitudine per lui, un uomo in trincea tra scrivanie deserte: oggi è il giorno del taleggio, pasta morbida che stoppa un po’, ma con un buon chinotto va giù senza fare il bozzo in gola. Tace Milano, la cronaca fatta di coltelli, transessuali e gelosia, per ora lascia un po’ di tregua. Masticando in intimità, la mente viaggia agli anni della gavetta, quando il Giacomo faceva il galoppino in provincia, sempre a caccia di liti da cortile, scambi di vedute e ceffoni in consiglio comunale, roba da poco. Nella periferia di una metropoli si vive impelagati nel torbido, con la vita che ogni giorno vale sempre meno: nei palazzi bene, si accendono telecamere e si mostrano paillettes, qui la gente si accoltella per un niente, sangue che diventa titolo per un giorno, anzi meno. E poi i morti scompaiono presto, oscurati del delitto del giorno seguente: tritacarne mediatico, lo chiamano. E Giacomo fa “girare il giradischi”, nel senso che muove un sottobosco d’informatori, una rete costruita da topi e talpe di città.
Nemmeno il tempo per il secondo morso al panino, nemmeno un fiato di chinotto, il telefono è come una fitta allo stomaco, se squilla quando non dovrebbe: «Per Dio, pronto! Ex domatore depresso è fermo sul cornicione di via Sapri? E che fa, aspetta il trapezista? Guarda giù e non sa che fare? Senza la rete? Forse non si butta, ah…ok, corro lì». Boiavacca a ripetizione, nel giro di dieci secondi, panino in mano, canapino e penna a sfera nel taschino della giacca, Giacomo scatta dalla scrivania, ma sbaglia le misure di dieci centimetri: inciampa e vola, con un porc…. formato arcobaleno. Gomiti a terra e una michetta che rotola inesorabilmente sul pavimento come un frisbee lanciato male. Non c’è tempo, c’è da correre sotto il cornicione, il panino finisce nel cestino dell’immondizia, beffa vigliacca prima di sparire e raggiungere il domatore.
Cose che capitano, si dice in questi casi, ma a volte la sorte prende pieghe bizzarre: come la piega della fetta di taleggio che, per uno strano destino, va a infilarsi sotto la scrivania della Wilma, ignara e assente. Un centro perfetto in un pertugio tra scrivania e parete, prima di scomparire nelle tenebre. Ma il taleggio, si sa, non è all’occhio che desta scalpore, bensì all’olfatto: la sua presenza non la si vede, ma la si avverte sempre, questo è sicuro. La peggior disgrazia immaginabile per la bionda Wilma che, mezz’ora dopo il rientro dalla pausa coiffeur, sospira nervosamente come se stesse preannunciando un attacco d’asma. «Non è nemmeno colpa del Giacomo», pensa tra sé, accorgendosi che il collega è fuori sede, ma l’inquietudine non si placa. Il dramma impone un intervento drastico, firmato Chanel numero 5 spruzzato a litri: ne esce, però, un mix mefitico, perché il taleggio è bastardo, non si placa nemmeno dentro una tanica di acqua di colonia.
La redazione si anima, un viavai di collaboratori, informatori, pony express, nella selva di parole e squilli di telefono, ma anche agli uomini più avvezzi al sentore selvaggio non sfugge l’olezzo della Wilma: un istante, quasi un mancamento, imbarazzo di un secondo e tutto riprende. Ma per la Wilma, no, la vita non è più la stessa, questa è la peggior tragedia che le sia mai capitata, dopo il black out della doccia solare del 2004: continua a guardarsi attorno, sul pavimento, non vede nulla, tutto è come sempre. Non resta che passare in continuazione la scrivania con il multiuso, ma niente, l’aroma è quello di un sandalo di marciatore al termine di una giornata d’estate.
E così va per tre giorni, con Giacomo e i suoi panini che non fanno più breccia nell’atmosfera guastata dal terribile nemico invisibile. La cronaca corre, non ha tempo per guardarsi attorno, ma la Wilma non potrà resistere a lungo. Fino alla catastrofe. Il caporedattore si alza con fare scocciato e gli si para davanti, mentre lei è al pc: «Wilma, porca troia, ta spuzzan i pé». Non servono traduzioni per immaginare l’effetto devastante di tale attacco frontale che fa vacillare il volto truccatissimo della pantera della rosa. Volto color fucsia, misto rabbia.
Dieci minuti di terrore sulla sua scrivania, la Wilma fulmina tutti con lo sguardo e sposta furiosamente ogni cosa gli capiti sotto mano, alla ricerca di una prova che possa in qualche modo scagionarla: «Se potessi sbattergli i piedi in faccia, a quello là, per fargli capire che io i piedi me li lavo eccome».
Un urto accidentale, la scrivania si muove di un centimetro. Dall’oscurità, vicino alla parete, fa capolino qualcosa di giallo, che visto da vicino viene identificato. Wilma lancia un urlo che è più di liberazione che di terrore: «È formaggio! Non sono io!» Gelo e silenzio tra le quattro mura e quattro giornalisti accampati lì: volti che si girano all’angolo Calcutta, con Giacomo che diventa un punto di domanda vivente. Prima non capisce, poi accetta il verdetto: il destino ha voluto punirlo, beffardo, e a girare il giradischi, ora, è nel sottoscala, per ordine del direttore. Lontano dal mondo che conta, esattamente come le sue notizie giornaliere.
«È una questione di sopravvivenza. Qualità e immagine prima di tutto!», urlano le gerarchie dentro gli uffici passati con la cera. Una fetta di taleggio, oggi, è quanto basta per rivoluzionare la politica di un giornale, soprattutto se va a scapito della reputazione di una gattona che vive in una nuvola di Chanel. La prima pagina ora è un gran florilegio di sfilate e feste, scollature e lustrini. Non c’è futuro per i cronisti con la schiscetta. Tempi duri anche per gli ex domatori che passeggiano sui cornicioni.