94.000 vedove e un rubacuori (seconda parte)

Un pegno d’amore a misura di gregario: non un appartamento in riviera, non una Lamborghini coupé, ma un ciclocomputer, evoluzione del vecchio contachilometri, feticcio da ciclosuonato, voluto per mero riscontro scientifico della sua prestazione sul giro, quello dei suoi mausolei della miglior vita, 1.000 metri da registrare metro per metro con media oraria. Perché Tano non specula sull’amore, non fa il gigolo, ma è un artista double face, giorno e notte, nel surplace alla Maspes e nel tango casqué con finale “champagne”, plaisir des femmes.

Due giorni, anzi tre: la rossa inconsolata vacilla sotto un assedio che sa di dopobarba, coccole per la mente del becchino gentiluomo. E tra quelle tombe e la lapide del Gianni, la donna si è accorta di quanta vita scorra lì, dentro un camposanto: brulicano quei vialetti fioriti, sotto un cielo tornato azzurro. Tano, a suo modo, è un benefattore: riporta alla vita sensi che sembrano ingrigirsi. Altri due giorni e scatta il primo appuntamento, poi il secondo, poi il terzo e, al quarto, ecco il momento della resa: appuntamento al buio, motel con specchi e materasso ad acqua, zona tangenziale, mordi e fuggi. Rose destinate al ricordo degli estinti cambiano destinazione: il fioraio sul piazzale del Maggiore è di buonumore quando confeziona un mazzo che farà palpitare un cuore, anziché far da sigillo floreale a una gelida sepoltura. «Non capita quasi mai da queste parti», commenta ad alta voce. «Non andranno sprecati», replica Tano.

Dodici ore più tardi, il fioraio strabuzza gli occhi nel veder Tano passare, lentamente, quasi tramortito, accanto al marciapiede, in sella alla sua bicicletta color nero senza scritte: volto tumefatto, fisico sofferente, animo a pezzi. «Non avrai mica trovato un cornuto ad aspettarti?», lo aggancia dall’uscio del chiosco.
«No, sono vittima di una belva assassina», risponde sconsolato. E si ferma lì accanto, in sella, ma con il piede sul marciapiede, a spiegare la sua disgrazia, a discutere con l’amico, a cercar conforto, raccogliendo invece sfottò, non cattivi, ma comunque dolorosi. Al motel, Tano è capitolato più o meno così: ritrovo al buio con porta che si apre dall’interno, Drupi in sottofondo intona “Piccola e fragile”. La porta richiusa dietro le spalle e, in una frazione di secondo, montante al mento da capogiro e calcio in culo con stivale in cuoio lucido. Preliminari alla Mike Tyson, lui senza fiato, lampadine che si riaccendono e fanno luce su una femmina indiavolata, tutta fruste e borchie. Alla signora piace così, le rose si sbriciolano sotto un tacco a spillo, come la poesia. L’ultimo dei romantici incassa come una zampogna: «’A capa ‘e sotto, fa perdere ‘a capa ‘e coppa», è il suo unico commento a bassa voce. Fuga in bicicletta a metà della prima ripresa, nemmeno la brillantina lo assiste più, pedala con una cresta strapazzata e la vedova urlante: «Non andartene, ti prego».
Uomo distrutto negli attributi e nel carattere ricomincia a vivere nel suo camposanto. Solo una sgambata a fine pomeriggio, lo può ritemprare. C’è un consolatore da consolare, perso tra camere ardenti e sepolture da allestire. Ora basta, invece di una sigaretta c’è un ciclocomputer da sfidare: «Voglio vedere quanto impiego ad arrivare da zero a quaranta all’ora», pensa tra sé, mentre spolvera la sua bici nascosta in un bugigattolo vicino all’ingresso. Pausa ciclismo, dunque: con il collega Capuano a fargli da starter. Occhi puntati alla tecnologia, a quell’oggettino elettronico fissato sul manubrio, vialetto delle rimembranze deserto, pronti, via. Un istante, una visione, un incubo, a centro strada si materializza lei, la rossa: «Tano! Tano mio!». Terrore mozzafiato, svolta a destra e via a testa bassa a più non posso.

Destino vuole che le esequie del povero Sante Augello, ex netturbino, seguano un percorso alternativo, causa lavori: lo stesso del povero Tano che alza appena lo sguardo e si accorge del carro funebre, lì a un metro. Immagini confuse e concitate: una bici prosegue da sola la sua marcia lungo il vialetto andando a sbattere contro la lapide del geometra Facchinetti. Tano precipita a corpo morto sul cofano, sfondandolo con un botto da pelle d’oca. La vedova Augello in preda a un collasso, corteo nel panico, un vecchietto sopravvissuto alla campagna di Russia va in tachicardia e non si tiene: «U Signùr cara Madona». Solo il povero Sante, rigido nel feretro, rimane impassibile a osservare la scena. Segno del cielo, qualcuno lo interpreta così, ma non il proprietario del carro che libera dal cuore un’ode che sale su, nell’alto dei cieli. Mezzo mondo impegnato a soccorrere la vedova che, per volere degli spiriti, viene riportata alla vita, nel suo affacciarsi all’aldilà dev’essersi ravveduta: Sante vai avanti tu, per ora.
Tano in versione meteorite celeste passa in secondo piano, anzi nessuno lo nota più: in un baleno rotola giù dal cofano, recupera la bici e scappa via. La vicenda avrà strascichi, il destino è crudele e in meno di dodici ore finisce una gloriosa carriera. «Ed ero appena a trentaquattro all’ora», pensa tra sé. Consolazione degli afflitti, missione impossibile in questa società: «Da domani si cambia, si va in balera». Ma la signora Augello, come le altre 94.000 milanesi, ora, reclama una spiegazione.

2 pensieri su “94.000 vedove e un rubacuori (seconda parte)

  1. sono un pó in arretrato nel leggere i racconti, questo mi ha lasciato proprio senza parole, inizialmente pensavo che ti fossi lanciato sulla letteratura hard, poi sul finale non ti sei smentito! .. nel mentre ho rischiato di bruciare la cena …

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