Rubato un Pomodoro

«… mi sarei aspettato una melanzana». Il volto di Nebbia è corrucciato stamattina, dietro a una nuvola di fumo e a un foglio di giornale. «Un pomodoro del valore stimato di 50.000 euro. Ma l’arte, si dice, non ha prezzo… e se ce l’ha, secondo me, significa che non è arte, ma roba da ortomercato. Oggi tra le cassette scaricate dai camion ho rubato anch’io. Con questi prezzi, non si può fare altrimenti. Ma non c’è strada, bisogna arrangiarsi, io sto con Obama, ma Obama non sta con me, quando è il momento di mettere qualcosa sotto i denti».
È tempo di semina, negli orti abusivi ai confini della città: non esattamente il giardino della Casa Bianca, ma i muri di cinta imbiancati del Cimitero Maggiore fanno da riparo a un’improvvisata piantagione di clochard contadini: Nebbia ha le sue piantine di pomodoro ben nascoste, dall’altra parte della strada. Ci va a dare un’occhiatina ogni giorno, dopo pranzo. «Passo di là a concimare, tutto naturale e io sono regolare, come un orologio». E le piantine crescono bene. «Ma mai come quelle del Tarcisio, giù vicino al cavalcavia», si lamenta. Vengono da tutta Milano a comprargli i germogli, si dice: «E io mi chiedo, ma cosa cavolo mangia per averle già così alte? No non sarà questione di concime e nemmeno di terreno, li avrà prese dai cinesi quei semi, una qualità che resiste». Ma i suoi sospetti vanno oltre l’invidia per l’erba del vicino: «Stai a vedere che c’entra qualcosa anche il Tarcisio con quel pomodoro rubato? Ieri c’erano i carabinieri con la mosca al naso…, ma il Tarcisio corre veloce, è scappato, e le piantine migliori le ha già vendute ai signori con la Mercedes». Jack, il barista, lo guarda e non sa se ridere o preoccuparsi: «Nebbia, sei sicuro che non c’entri nulla? Guarda che poi ti chiamano a testimoniare!».
«E che me ne fotte, hanno visto di persona che io faccio l’orto bio e basta. Entrano nella mia vita senza chiedere permesso e poi cosa pretendono? Mi hanno cercato loro, nonostante fossi ben accovacciato. La volante si è fermata a bordo strada, i carramba hanno tirato giù il finestrino e uno mi ha chiesto: “che fa?”, “non vede? concimo”, gli ho risposto. E volevano denunciarmi per atti osceni. Poi, però, hanno detto di andarmene che dovevano lavorare».
Si indaga sull’orto dei miracoli, ma intanto le piantine continuano a crescere un po’ più in là, anzi quasi nell’aldilà. Oltre le mura imbiancate del cimitero, sotto la lapide del fu Osvaldo Rossi, classe 1903, c’è un gran viavai di ortolani. “L’amore per la patria, generò un eroe, l’Italia tutta esprime somma riconoscenza”. E anche la luna cresce, intanto, ma è presto per sapere se sarà una buona estate per i pomodori.

La trattoria dell’ex terzino

Piedi e spalle da terzino, bestia nera dei centravanti di provincia, quando il football era la favola di giovani con le scarpe grosse e la pancia vuota. Ma un piatto di minestra non lo si nega a nessuno, «Ugo piantala di tirare calci al vento, vegn a cà», c’è da lavorare, operai in bicicletta da sfamare: fine del sogno. C’era la fila fuori. Così ordinò il padre, così ha fatto lui. Vista cimitero, al capolinea del quattordici, eccolo portare avanti la trattoria, volto squadrato, naso scolpito: sembra un pugile, ma è la risposta meneghina al fast food, “mangia alla svelta” e torna a lavorare.
C’è ancora la fila fuori, gli operai sono spariti, ma i becchini del Maggiore ci sono sempre, per quelli non c’è cassa integrazione. Là, dietro il cimitero, finisce Milano, davanti, invece, l’industria della vedovanza è sempre florida e, anche se sembrerà umorismo nero, il tempo pare essersi fermato. E qualche “sciura” col velo nero, di tanto in tanto, non rinuncia a consolarsi con un piatto di trippa fumante, ma soltanto dopo il rituale saluto al caro estinto. Pancia piena e pace all’anima sua.

Verso i quartieri “bene”, la concorrenza è un fiorire di lounge café, brunch, happy hour, burger land, sushi bar: Ugo, invece, rimesta pentole che sembrano vecchie di cent’anni, ma non invecchiano. Perché laggiù, sotto i portici, Milano è diventata una città bugiarda, che mente a se stessa e agli altri: qui, invece, si respira sincerità, la si distingue ancora bene nel profumo di vino di un brasato. Ugo non mente, qui si mangia quel che c’è e guai a chi storce il naso: è la rivincita dei “pulpett cunt i verz” contro ai nuggets precotti e unti, dell’onesta cotoletta che, altrove, soccombe con insalatine plastico/dietetiche. Nervetti e cipolle contro rucola e gamberetti, carpione di curegùn opposto al pesce crudo giapponese.

Una zuppa di fagioli non ha mai mentito, caso mai lo fanno, dopo, i becchini del turno del pomeriggio, con balle che puzzano di zolfo e fuochi fatui, ma in una redazione di giornale non c’è scampo, meglio evitarsi gli sguardi atterriti di segretarie “drogate” di Chanel: una più prudente lasagna non manca mai, come alternativa. Basta non darla vinta al fish & chips o agli involtini primavera.
C’è la fila fuori, ma Ugo serve “fast”. Anche il suo cuore, ogni tanto, corre veloce, tanto da far sospirare la signora che gli sta accanto da sempre, o quasi. “Niente paura, resisto”, risponde lui, facendo le corna. La grinta del terzino c’è ancora, c’è sempre traccia di quel sogno “anni Sessanta” affogato in un paiolo di polenta, ma riaffiora di tanto in tanto, accompagnato da un bicchiere di bonarda. Sincero, non mente mai.

Pina va in pensione e «Forza Milan»

«Sei per sette? Dunque, sei per sette diviso quattro, più tredici…Frenco, lo fai anche tu il sistemone?». Pina, la barista non si separa mai dalla sua calcolatrice, una Sciarp, sottomarca comprata al discount, ma perfettamente funzionante. Forse. «Quanto pago?». «Il caffè più il giornale, dunque… ottanta più un euro, uguale uno e ottanta. Che mi dai, cinque euro? Ok, due e venti di resto a te». «Se vogliamo essere pignoli, mi deve ancora un euro di resto, se vogliamo…». «Vogliamo? Ah, che sbadata, ho sbagliato a schiacciare i tasti. Sa, queste calcolatrici hanno sempre i tasti troppo piccoli, io comincio a vederci poco…». La sua è una forma di astigmatismo per eccesso, mai per difetto, però. Ma i clienti fedeli la perdonano: ci prova sempre, ma è così simpatica…

E il sistemone? Sono giorni che fa i conti, c’è il Superenalotto, jackpot da favola, che mette a dura prova la Sciarp. Tutte le mattine, scatta il tormentone che è diventato un affare di quartiere: «Una quota, vuole comprare una quota? Un euro, due euro, cinque euro». La squadra conta già 20 giocatori, si punta ad arrivare a trenta, trenta sognatori che, puntualmente, al lunedì mattina li ritrovi tutti lì, a pensare a quel 22 che non è uscito, anzi che non esce da mesi. «Ma è meglio non cambiare, facciamo sempre la stessa giocata». La Pina suggerisce la strategia, tira le fila di questo plotoncino di devoti alla cabala che, prima o poi, dicono, mostrerà loro le terga e li sommergerà di fortuna. Per ora, le terga le porge il popolo che si affida alle illusioni delle roulette di Stato: «E lo zio vince anche stavolta», sfotte un meccanico in tuta blu, che sorseggia al banco il suo cappuccio. «E lo zio chi sarebbe, il governo?» ribatte la Pina indispettita. «Il Berlusca vince sempre, comunque», è la risposta pronta.
Pasticcio fatto: con la politica di mezzo, scattano i battibecchi. Talk show in corso. Caffè e grappino alle sette e mezza, Gazzetta sul tavolo, il vecchietto del piano di sopra ha la sua massima: «Quant la merda la munta al scagn, o che la spussa o la fa dagn». Silenzio. Facce perplesse, punti di domanda stampati negli sguardi: «asssorreta, che minchia hai detto?», risponde il più colto dei teatranti. «Forsa Inter, Milanista dal menga», rilancia. E a questo punto, è tutto chiaro e i toni sbracano, ma la Pina getta acqua sul fuoco: «Gratta e vinci, fatevi un gratta e vinci e finitela lì», e distribuisce biglietti che sono pur sempre un euro in più da mettere nel cassetto, oltre agli ottanta per il caffè.
Nel frattempo, uno studentello va a pagarsi la merenda: «Un croissant». «Un cruà? E che è?!», alza lo sguardo al cielo, la Pina. «Una brioche!», riprova lui. «Ahh, così è chiaro. So’ di Foggia, io. Mica lo parlo il francese». Subito dietro, in coda, c’è il meccanico che ha fretta: «Pina ho vinto, paga qui paga qui! Dieci euro, ma vai!!!!». Commento urbi et orbi del vecchietto: «Quand v’un l’è furtunà ga pioeuv int al cuu anca quand l’è setà». Il chierichetto in tuta blu riscuote la vincita e intona il suo alleluia: «Forza Milan» e così sia.
Qualche secondo di silenzio, parlano solo i fogli della Gazzetta e del Corriere che si sfogliano ai tavoli: Kakà rinuncia a 19 milioni di euro l’anno offerti dal Manchester City. «Grande uomo, gesto fatto col cuore». Sbarcherà il lunario con i 6 milioni e rotti che prende in Italia. Il borbottìo intermilanista s’interrompe: «Oggi, ultima giocata. Da domani largo ai giovani». La clientela non capisce, la Pina spiega: «Domani vado in pensione, faccio la nonna a tempo pieno». Nessuno trova le parole, tranne il solito “politologo” che si sente in dovere di rincuorare tutti: «Eccccè la crisi, signori, c’è la crisi eppure si va ancora in pensione. Se non c’era a Berlusconi, altro che pensione!». Intanto, mentre parla, brucia il suo quindicesimo euro al videopoker.

Nebbia tra notizie, letteratura e caffè

Semplicemente Nebbia. Per tutti quelli del quartiere lui è Nebbia. Ha l’anima del clochard, ma una casa ce l’ha, un piccolo monolocale a due isolati dalla Certosa. Vive di piccoli riti, come un gatto nel suo territorio. Si dice, di lui, che abbia un passato di mille avventure, marinaio sulle navi, sguattero nelle bettole di mezzo mondo e che poi, non si sa come e nemmeno perché, sia approdato lì, in quell’isola tutto sommato vivibile di un quartiere alienante: «La gente pensa, la gente dice. Nessuno sa – dice lui -. Il pettegolezzo è il massimo che si può pretendere, qui, come sui giornali. Ed è pur sempre un grado in più dell’indifferenza, anche se tra indifferenza e pettegolezzo, ormai c’è poca differenza. Stessa monotonia. Perché in questa città ci si rassegna a rimanere nella superficialità. Non si ha più tempo per fermarsi e conoscere cose e persone. Anzi, le persone danno persino un po’ fastidio, metti che poi gli dai una mano e si prendono il braccio». Il suo essere fuori dagli schemi, il suo vivere controcorrente lo fa apparire, agli occhi della gente, come un uomo al confine tra normalità e follia. E lui ci sta a meraviglia in quei panni, così può dire sempre quello che pensa, sulla vita, sul mondo, su tutto. Una volta c’erano i grandi saggi e, lui, dietro quella barba folta un po’ lo sembra: oggi, però, in quello spicchio di periferia non si sa nemmeno cosa siano i saggi. Nebbia è uno strano e basta.

La mattina presto se ne sta seduto a un tavolino all’aperto del bar all’angolo, ha la faccia che sembra Carlo Marx, avvolto in una criniera folta e grigia, barba e capelli, un unica matassa. Piove, nevica, c’è il vento, fa freddo o fa caldo: il suo rito del mattino è sempre lo stesso, davanti a una tazza di caffè, sul viale alberato che porta alla chiesa. In quel bar non ci è mai entrato, ma il suo caffè arriva sempre puntuale, ormai Max, il gestore, è parte del suo rito.
Tra la tazzina e il sigaro ci sono il Corrierone, una freepress, un posacenere e un libro che Nebbia porta sempre con sé: ha la copertina rilegata in carta da pacchi, tanto che sembra sempre lo stesso, ma non è così. Si dice che i libri li vada a cercare dietro il cimitero dove, pare, ci sia un deposito del comune: è roba che dalle biblioteche milanesi va al macero, cultura destinata all’oblìo che lui recupera e rilega con la solita carta. Dal Corsaro Nero edizione del ’59, al Candide di Voltaire di provenienza ignota.

Ogni mattina, dietro a una nuvola di fumo, Nebbia se ne sta lì seduto e scruta uomini, donne e macchine, pensa e legge. E a chi lo interpella risponde con un saluto e, se trova terreno fertile, attacca discorso e commenta quel che gli va: dalla Moratti che non trova gli spalatori, all’ortolano che si è preso uno sganassone gratuito, capitato per caso in una rissa tra fascistelli e finti anarchici, dalla Chantal che scende dall’alcova a bere il cappuccino con le sue scarpe di vernice rossa al cumenda che aspetta il suo turno per salire da lei e, intanto, fuma nervosamente. E poi spulcia le notizie della sua Milano, una città che per intero non ha mai visto. Si è fermato sulla soglia, lì in quell’isola di case tra l’autostrada e il resto del mondo, un mondo che forse ha conosciuto per intero o, forse, è solo leggenda. Non è mai andato oltre quei palazzi e, leggendo le notizie, s’immagina come deve essere Milano più in dentro: «Chissà quanti trapasseranno, oggi, e nessuno lo saprà». Ha appena letto di un vecchio ritrovato cadavere nel suo appartamento, scoperto per caso, dopo settimane d’indifferenza: «Ecco l’immagine di una città, di una società in vacca. Ma a me non mi fregano mica. E non me ne vado da qui, sto in giro, perché quando schiatto voglio che la gente mi veda. Sono il Nebbia, io, nessuno si accorge più di nulla, ma la nebbia, volenti o nolenti, la vedono tutti».