La linea della perdizione

Il Trivero non è un autobus come tutti gli altri. Lì sopra si è pendolari per vocazione: non potrebbe essere altrimenti per chi percorre ogni giorno centoventichilometri all’andata, centoventi al ritorno, tre ore a ogni viaggio. Si parte all’alba, si rientra che è notte: d’inverno, il capolinea lo si vede sempre al buio, andata e ritorno sotto la luna. Il fedelissimo del Trivero è Caronte, autista segaligno, crapa pelata ed espressione rassegnata: saluta la sua terra alle 5, vi rientra dopo le 21. In mezzo, un fiume di chilometri, tra il Piemonte e la metropoli, arrivi e ripartenze, attese fatte di panini col salame e sigarette. La radio sempre accesa, ma tanta voglia di scambiare due parole appena possibile. Sogni ad occhi aperti: caricare la sventolona che passa ancheggiando tutte le mattine dalla fermata, ma non si sa dove va, probabilmente abita qui, ma si potrebbe farla salire, chiudere le porte e portarla dove vuole: «Destinazione ignota, scelga lei». E invece nulla, sul Trivero salgono impiegati che sprofondano senza forma sui sedili più in fondo, studentelli avvolti in una dimensione tutta loro, tra i-pod e telefonino, zitelle inacidite e vecchiette con la sciatica: naturalmente le ultime due categorie sono sempre lì, quasi a soffiargli sul collo, nei primi posti del bus. «Ma si paga uguale anche dietro…», avvisa lui. «Sì, ma dietro mi vien la nausea, soffro le curve», risponde la tardona di turno senza lasciargli tregua. E così, la nausea la fan venire a lui, a furia di sorbirsi una tiritera senza rime, ma che suona più o meno così: «Io non so come si possa andare avanti con tutti questi extracomunitari. Ma cosa vogliono,dico, cosa vogliono!».
«Ah non lo dica a me che non trovo più una badante per mia suocera, che non voglia essere messa in regola, ma con tutte quelle tasse da pagare, come si fa».
«Io non so come Berlusconi riesca a sopportare tutta questa sinistra, non si può più tollerare».
«Ma sì, ma sì, non lo dica a me, che un vicino di casa sindacalista e al lavoro non c’è mai, è sempre lì in malattia».

E via discorrendo, su questo tono, prigioniero silenzioso tra pettegolezzi e luoghi comuni, su quell’Autolaghi sempre e costantemente ridotta a un imbuto stracolmo di fagioli. Un autobus, incastrato lì, finisce per sembrare un enorme borlotto che, da quel buco che conduce a Milano, ci passa quando e come può: a colpi di boiavacca e tevegnissuncancher. Stamane, poi, il Caronte è più depresso del solito. Ha due sole passioni: l’Inter e Nilde Iotti. «Ieri l’Inter ha perso a Napoli, giocando da cani…». Nemmeno il ricordo ormai lontano della Iotti lo consola: «… e Berlusconi si è preso pure il 25 aprile, pure quello, non gli bastavano le televisioni». Si lamenta ad alta voce, trovando come interlocutrice soltanto la più moderata tra le pettegole, che, però, fatica a contrastare l’arteriosclerosi e parla a vanvera, provando a complicare un cruciverba: «La mi scusi bel sciur… ma in dov’è Costantinopoli? Cinque verticale, il fondatore della città di Costantinopoli».
«Non c’era nemmeno un giovane ieri, al corteo di Valle Mosso…».
La signora replica: «Ah l’avessi io un ballerino come l’Emanuele Filiberto…».
«Voilà Milano, il gran Milan, città della Resistenza, ma qui la faccio io la resistenza».

Capolinea, Lampugnano: discesa in massa, vecchiette, pendolari, tutti tranne lui, il Caronte, che sfinito si assopisce al volante del mezzo, con la porta dell’autobus aperta. Passa un istante o forse un’ora, un periodo indefinito e una voce come dall’aldilà lo ridesta: «Non sa dove si prende l’autobus per Dongo? Lago di Como…». È proprio lei, la sventolona dei suoi sogni…camicia di raso attillata, bottoni che soffrono sul davanti, capello biondo platino sopra cappotto nero, stivalazzo color nero vernice con tacco altissimo e un mazzo di fiori in mano.
«Dongo? Lago di Como..eh dunque…». Una frazione di secondo di follia per una risposta che non può sbagliare, come un calcio di rigore al novantesimo: «… ma prego venga, salga. Aspettiamo un attimo se ci sono altri viaggiatori e partiamo…».
Cuore che batte a mille, pelata che prende colore e turgore, l’occasione per andare in gol: due minuti a guardare la cartina dell’Aci e Dongo è presto localizzata. Un tantino fuori linea: «Altro che Costantinopoli…», pensa tra sé. Tre ore di attesa per la corsa successiva, se le gioca così. La bionda non paga, ma il prezzo che paga il Caronte è alto: «Ci vado ogni anno a Dongo, il 27 aprile, ma è la prima volta che ci vado in autobus», dice lei. E lui manda giù: «Gran bel posto, ha scelto bene».
«Non si sceglie, è dovere andare a Dongo», confida la bionda.
«Già, facciamo il nostro dovere, dunque…».
Nilde Iotti, se fosse in vita, lo perdonerebbe. Tanto forse è solo un sogno, o forse un incubo. Ordinaria storia di vita di una generazione disorientata: prende la prima a destra e l’ultimo boiavacca è tutto per l’Inter.