Tumtutum, tumtutum. E si è fermato. Erano le 18 di una settimana fa, quando il cuore della Rica ha smesso di battere, chissà, forse dando retta a un cervello che, spegnendosi giorno dopo giorno, gli chiedeva di fermarsi. Aveva sempre avuto una paura terribile della morte, ma negli ultimi tempi non sembrava più così. Erano le 18 di un venerdì umido di fine gennaio e il tramonto aveva appena spento l’ultima fiamma arancione, dietro il Sancarlone: i tramonti di gennaio, sul lago, hanno tinte così forti che le colline del Vergante sembrano davvero investite da un incendio indomabile e quel rosso si riflette nel lago che, quasi sempre, in questa stagione, è uno specchio immobile con dentro un battello che tira l’unica riga sull’acqua.
Tumtutum: dentro la via di mezzo soffiava un silenzio gelido. La Rica apparteneva a un’altra Angera: quella delle cento botteghe, quella del Siro che appendeva i quarti di bue sulla porte della macelleria, quella del lattaio cieco, quella del Lipin e i suoi salami appena fatti, perché gennaio era il mese del purscel, quella di Piola lattoniere e della sua bottega di tutto un po’, quella della Egle e della sua cartoleria profumata, quella del Dorando e le sue arance di prima scelta, quella del Faccin riparatutto, dentro la sua bottega di elettrodomestici, la più polverosa del mondo, quella della Bianca e i suoi sali e tabacchi, comprese le cicche alla fragola a dieci lire l’una, quella del Graziano, o del Mobiglia, ovvero i “figaro angeresi”, quella della Gianina giurnalata, nell’edicola più piccola del mondo, quella dell’Antonio ferramenta e le sue mille viti tranne quella, porca miseria, che serviva a me, quella del Gemelìn che faceva le scarpe a tutti.
L’altra Angera, quella della Rica, aveva il cuore in un’osteria, fumo, briscola e scopa d’assi e quel vino che faceva cantare il paese dei vecchi e dei sognatori, dei barcaioli e pescatori dalle mani cotte dal lago e dal freddo, degli operai della magnesia e dei loro polmoni scossi da potenti colpi di tosse, che li sentivi già in fondo alla via. “Non ti potrò scordare, piemontesina bella” e la spuma nera annacquava la bonarda alla bisogna, per quelli che l’alcol lo reggevano meno o temevano le parolacce delle mogli non appena si fossero accorte della sbornia, dagli aliti pestiferi e da quel russare inconfondibile, che faceva tremare le pareti.
Via alla Rocca e la sua osteria, tinte forti e caricature, mille personaggi come in un quadro di Bruegel: dentro quella strada di Angera, oggi deserta, non si respira più l’odore del fieno delle stalle, i cortili sembrano svuotati. C’erano contadini e furfanti, squattrinati e cantastorie, artisti incompresi e amanti traditi, puttane e donne sante, chierichetti e malandrini, furbacchioni e fessacchiotti, generazione di affamati che, con il suo brulicare, vociare e cantar stonato, dava ritmo a quel tumtutum, la vita di ogni giorno. E la Rica a mescere il vino fino a sera, a rimestar la buséca o a friggere alborelle, a far di conto e a tenere testa a un popolo di bevitori, con piglio severo e austero.
Il lavoro e la terra ripagano sempre, ma non come pensano oggi le generazioni del “tutto e subito”. Le regole supreme le detta il cielo, il ritmo lo scandisce il senso della misura di ogni uomo, ovvero la sua scala di valori. La Rica aveva mani callose e mai ferme, anche quando avrebbe potuto riposarsi e già la sua Angera si stava spegnendo: com’era bella sotto quel cappellone di paglia, dentro al suo orto all’Altinada, fuori dal paese. Con gli occhi più accesi del sole, raccoglieva i tumàtiss più belli e rossi del paese. Dentro quel caldo immobile, dominato solo dal ronzare delle api, il pulsare quasi impercettibile della natura le regalava la felicità. Tumtutum, quanta vita c’era dentro quell’orto, mentre le case di Angera, anno dopo anno, si mangiavano campi e vigne, fino a circondarlo: ma l’anima del paese, fatta da uomini e donne, e non da cemento e lottizzazioni, si era già estinta.
La Rica, anche lei se n’è andata, dentro a un tramonto di gennaio. Rica, diminutivo di Enrica: non era il suo vero nome, ma non ho mai saputo perché tutti la chiamassero così.
La Rica, come la mia Anita.
Donne d’altra tempra che rimarranno, forse, solo nei racconti e nei ricordi, oltre che nel cuore di chi le ha conosciute.
C’è un modo di ricordare che rende il giusto merito all’esistenza delle persone, qualunque sia stata la loro avventura su questa terra. Da semplici comparse o da protagonisti cambia poco. Ciò che conta, alla fine, è l’essere entrati nei sentimenti e nei ricordi di chi ci ha vissuto accanto.
Grazie Lorenzo per questo bellissimo ricordo della Rica
Tumtum, tumtum , tumtum
bellissimi ricordi la rica era come il mio Dante infermiere che curava piccoli grandi e vecchi sempre con un sorriso grazie per questa storia speriamo che i nostri figli ci ricordano cosi come noi ricordiamo il passato
Laura srvcie:Mi sono commossa anch’io che non seguo il calcioe mi fai cominciare a credere che non e poi tutto cosi marcio come pensavo Clap Clap!