Zorro, pendolare che sogna. Ha la mascherina per non vedere, per non rassegnarsi allo spazio stretto e deprimente di una carrozza, per darsi una speranza nel sonno. All’alba è il primo a salire sul treno, quando la stazione è ancora sovrastata dalla luna che tramonta: scatto felino per il posto migliore, quello non troppo vicino alle porte, lontano dagli scocciatori che, sul locale del mattino, di solito hanno le sembianze di segretarie affrante e in acido con le suocere, pettegole interregionali, turisti al primo giorno di ferie, nonni con bambini fuori orario e pertanto in euforia molesta. Tutta gente che, insomma, non ha motivi per tacere e parla, blatera, irrita, emette suoni di ogni tipo: umanità che non apprezza il valore di un’ora di sonno.
Zorro, invece, si affida a quella mascherina sgraffignata all’Alitalia durante un viaggio aereo aziendale, roba di molti anni fa. Si siede e si nasconde sotto quella pezza sintetica, nera: e lì dietro immagina spazi di un’altra realtà. Ma a ogni fermata, in viaggio per Milano, c’è sempre qualche scocciatore che osa violare quella sua dimensione onirica. Il lunedì mattina, poi, tiene banco il campionato: e non c’è carrozza che non abbia un angolo di opinionisti sul 4-4-3 e su Benitez.
Zorro si spazientisce, prova a farsi valere, non con la spada, ma a colpi di “ssssst”. Niente da fare. Passa, allora, alla sbuffata energica, alla mimica facciale, alla mimica corporale. Infine, gesto estremo, emette un “basta, silenzio!”. Così temibile da ottenere una risata.
Alternative? Tappi nelle orecchie o i-pod acceso su un concerto di Vivaldi. Zorro sceglie i tappi: e la musica ha deciso di sognarsela. Più economico, di questi tempi. La riconquista della fase rem non è più un miraggio: fermata dopo fermata, lo stridìo dei freni e la ripartenza si fanno sempre più ovattati. Busto, Legnano, Canegrate, Parabiago, fermate sbiadite, come viste da una nuvola. Fino a immergersi in un altro mondo: un ufficio con vista spiaggia, palme e pappagalli ai lati, poltrona ergonomica e massaggiante, assistenti e colleghe in bikini, capufficio dalle sembianze di Pamela Anderson, caipiriña servita alla scrivania, olio di cocco da spalmare contro lo stress da precariato, sindacalisti con l’ukulele, braccialetto all-inclusive per il servizio mensa rigorosamente vista mare, corso di balli caraibici retribuiti come aggiornamenti professionali. Peccato soltanto per quella strana sensazione sotto il piede destro: come se, in tutto quel “lavorare”, avesse lasciato il piede troppo tempo sulla sabbia calda.
«Capolinea!». Anche i tappi lasciano filtrare la voce della realtà. Pronti, via: non c’è tempo da perdere se si vuol saltare al volo sul metrò e timbrare in orario, su, al quinto piano di un palazzo del centro. Zorro ha già riposto la mascherina nella valigetta e, come un don Diego qualsiasi, si appresta allo scatto giù, sul marciapiede, quando… «La scarpa! Sabotaggio». Come l’effetto cicca bomba sull’asfalto in un giorno di luglio, la suola mollemente si affloscia tristemente sullo zoccolino laterale della carrozza, quello del riscaldamento: rovente, come il nocciolo di un reattore nucleare. Il mistero dei vecchi treni è in quegli zoccolini laterali, capaci di sopportare temperature da alto forno, in grado di trasformare un vagone in una sauna. Mezza suola rimane lì, il resto si prende libertà impensabili e impreviste, modellando una triste scarpa made in India, come una canoa. Zorro è un uomo senza più rincorsa, con il metrò ormai perduto e il ritardo irreparabile. Zoppicando, ancora sul treno, scorge in fondo, come fosse in un deserto, il capotreno, di spalle: lo raggiunge, inviperito con il mondo, ma con qualcuno a tiro cui dare addosso. «Ma che razza di treni! Roventi da far sciogliere le scarpe! Chiederò i danni». La sagoma in divisa Fs e cappello rosso si volta: Pamela Anderson, in persona, scollatura compresa. «L’ufficio reclami è sul molo in fondo alla spiaggia, signore».