Milano col sole, anche a Natale, eppure non mi entusiasma. Il cielo longobardo, così bello quando è bello, non mi piace perché è pur sempre offuscato dalle flatulenze della metropoli. Rubo l’idea a un grande scrittore che si chiama Bianciardi, ma io topo di campagna sono e sorcio resto, anche a fine anno, abituato a sgraffignare croste, in mezzo a tutta questa gente imbellettata, che scondinzola da un negozio all’altro. Anche la stazione è diventata un centro commerciale: e pare che oggi non si riesca a partire senza prima comprarsi un paio di mutande o un reggiseno, a giudicare dalla gran quantità di negozi di lingerie, in Centrale. Io, sorcio di campagna, le mutande me le compro al mercato, anzi me le faccio comprare, perché quando c’è mercato, su al paese, io sono in città a lavorare: sono fuori moda, ma pazienza, alla stazione vado a prendere il treno e basta.
A fine anno, è tempo di esercizi di memoria e pensieri: ma devono essere per forza politically correct, altrimenti il mondo non ti prende nemmeno in considerazione. A meno che non sei talmente bravo a sparar cazzate, da risultare molto originale e, quindi, di tendenza. Mentre si celebrano i funerali di Giorgio Bocca, la città si esibisce in tutto questo: Bocca, chi era costui? Un italiano. E come tutti gli italiani veri ha vissuto a cavallo di contraddizioni e contrasti, a volte sbagliando, altre volte facendo discutere. E questo è il pane dei tanti crapapelada che, sui seggioloni in pelle di una redazione, trovano spunto parlar di sé, al cospetto del morto. Un po’ come fanno i corvi con le carcasse…
Ma topo, come sei duro, oggi… direte voi. È il pensiero ai crapapelada che più mi manda in bestia: quelli che parlano di crisi con la tredicesima da cinquemila euro e fanno i giornali a colpi di comunicati stampa. Quelli che non è mai colpa loro, sono incapaci, ma ben referenziati. Ma come fa un sorcio, ultimo nella scala gerarchica del pollaio, a diventare un rivoluzionario? L’apparenza è tutto? A volte, penso di sì: ieri per esempio, sui sedili del mio solito scompartimento eravamo in tre, ognuno a pochi centimetri dall’altro. C’ero io, sfatto e pulcioso, e di fronte a me c’era un tenebroso trentenne con la faccia da fotomodello: la mia era barba sfatta, la sua di tendenza, la mia cresta era da stravolto, la sua era di moda. Giacca firmata, i-pad, i-phone e un gran portamento per tenere in mano tutti quei gioielli tecnologici e, al tempo stesso, guardare l’orizzonte (in fondo al treno o chissà) dall’alto di una cassa toracica da palestrato. E accanto, il terzo viaggiatore era una bionda signorina, che sembrava uscita da un sogno: l’occhio azzurro, il corpo da favola, la rendevano la studentessa perfetta per qualsiasi poeta. A un certo punto, alle porte della stazione di Gallarate, si diffonde un odore inequivocabile, pungente, intenso, imbarazzante. Da dietro le mie letture, alzo lo sguardo e fisso lui: tanto lo so che sei stato tu a scorreggiare, ho una gran voglia di dirgli. Mentre lui, fiero del suo apparire, resta impassibile, nel suo ruolo di cavaliere senza macchia. E, al tempo stesso, penso: ecco, la bionda signorina si sarà fatta l’idea più facile, al sorcio avrà attribuito le colpe della perfida loffa, non certo al manager trendy. Insomma, la mia platonica storia d’amore era già finita lì, al gioco di sguardi: per colpa delle apparenze.
Poi, però, scendendo dal treno, dopo aver cercato invano d’incrociare per l’ultima volta lo sguardo della signorina, mi è sopraggiunto un dubbio. E se fosse stata lei? Compra la lingerie in stazione, mia bella, ma se lasci il pancino troppo al vento… zac. Insospettabile, a detta delle apparenze: ma le apparenze sono tutto, in questo mondo e, alla fine, mi rassegno ad abbandonare la carrozza con appiccicato addosso il titolo di scorreggione.
Ecco, forse la rivoluzione di un topo di campagna deve cominciare da lì: dallo smascherare le apparenze, quelle apparenze che sembrano contare più della sostanza dei fatti. Anche tra un viaggio in seconda classe e una corsa su una scala mobile guasta, c’è molta apparenza: poi, però, a fine giornata, ci si ritrova nella tana, con la voglia di ripensare a tutto quanto, con la voglia di guardare oltre. Forse questo blog è troppo stretto, è ora di fare un passo avanti.
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Parole da treno: quattro matrimoni e un funerale
Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di quelli che ritrovo in treno. Topo di campagna scende prima e le sue cronache milanesi sono proiezioni di una realtà che s’intravvede all’orizzonte, dove la skyline del Portello cresce di giorno in giorno.
Giù in centro, all’ombra del Duomo, regalano abbracci, mentre a piazza Affari offrono ceffoni. Un cardinale fa le valigie, un altro sta per arrivare.
Crisi nera, lavoro a rischio, tasse da pagare, Tremonti e Berlusconi che prelevano altri soldi ai soliti italiani: ma i sopravvissuti da Milano, i compagni di viaggio che potrebbero riportare testimonianze di guerra o di gloria dalla città, di che parlano?
Di matrimoni. Di questi tempi, l’argomento clou più ricorrente nella conversazioni da treno è un invito a nozze: di una cugina, di una nipote, di un’amica, di un collega. Settembre andiamo, è tempo di sposarsi, si potrebbe dire.
Sprofondata sul sedile, in fondo a destra, una neolaureata parla al telefonino di una festa imminente: da secchiona sciatta e timida si trasformerà in avvenente pescatrice di uomini. Perché a ogni matrimonio che si rispetti c’è sempre chi gioca le proprie carte nella seduzione d’ignari ex compagni di scuola dello sposo. L’elemento determinante, a quanto pare, non è la laurea, benedetto foglio di carta, bensì la scollatura che la ragazza descrive nel dettaglio all’amica in ascolto dall’altra parte del telefono. La strategia è fondamentale e va preparata in anticipo.
Poco più dietro, invece, si scatena il dibattito tra un ragioniere senza sex appeal ma con tanta bella pancetta e un’un impiegata con girovita e petto larghi due fermate di tram: parlano di antipasti, di tortini al formaggio e salmone in crosta, quelli divorati pochi giorni prima alle nozze di una cugina. M’immagino la loro storia d’amore: un ragioniere e un’impiegata uniti in un’unica palla di lardo, mentre si riempiono la bocca a vicenda a colpi di tagliatelle al ragù.
Non c’è privacy sul vagone affollato e nemmeno la si pretende: e così, accanto ai ciccioni, si rivelano segreti di un’altra corsa all’altare di settembre, si gettano nel vento le storie di due sconosciuti innamorati incappati in una notte di troppa passione e in un preservativo bucato. Tra risatine e battute di finto gossip, mezza carrozza sembra inebriata da quel fatto che non li riguarda, che non riguarda nessuno di loro. O forse sì.
“Una mia amica che non trova marito, ha invece scoperto l’amicizia di un fisioterapista”, rivela sottovoce un’altra pendolare alla compagna di viaggio. “E come è andata a finire?”
“Che il massaggio dura un quarto d’ora in più, senza preliminari, ma con una piccola aggiunta sulla tariffa oraria”. Il matrimonio che non c’è e la sua consolazione misera: più che un pettegolezzo, sembra una morbosa confessione, ma tutto il resto si confonde nel brusìo generale della carrozza.
E lì accanto, c’è anche un bancario che parla di un suicidio, un colpo di pistola alla tempia, esploso alla fine delle vacanze. Settembre è il mese dei matrimoni, agosto quello dei suicidi. Un collega se n’è andato con un gesto estremo, senza un perché. A quanto pare.
I treni tornano a riempirsi di odori, di corpi stanchi e di storie: nel lento procedere delle solite giornate, Milano sembra più o meno quella che m’immaginavo. E si parla di vita e di morte.
Capocriceto e il suo toposutra
La libertà sessuale era la più grande conquista sociale di noi topi: sì, anche di noi topi di campagna, roba che voi uomini ve la sognate con tutti quei sensi di colpa e tabù che vi portate dentro. La libertà, in quanto tale, si sa, è totale, non ha limiti o schemi: unico confine, la libertà altrui. E così ogni roditore faceva come gli pareva, rispettando gli altri. Tutti, purché consenzienti e non paganti. La natura faceva tutto il resto: una volta, dentro un tombino del centro, vidi due criceti maschi strusciarsi la coda dentro le orecchie. Volevano provare, hanno scoperto una zona erogena. Se un giorno provassi un desiderio irrefrenabile di masturbarmi un orecchio, so che potrebbe essere interessante.
Sì sì, ognuno faceva come gli pareva, e a volte non faceva, proprio perché gli andava così: scoiattole occasionali che rifilavano due di picche come se piovesse, da noi, non accendevano risse tribali o pianti. Ma nemmeno in famiglia. Mamma topa, giù in periferia, aveva il lunedì come giorno fisso per babbo topo, ma per due mesi, marito e moglie si sono trovati nel loro giaciglio e si sono detti: “anche stasera l’emicrania! Pazienza, dai, dormiamo”. E nessuno dei due ha mai lanciato accuse isteriche del tipo: “ecco, non mi ami più!”. Perché libertà era dire sì, ma anche no. Strusciarsi solo i baffi con una ghira, oppure aggrovigliarsi in un’orgia di arvicole.
Ma ora, anche noi topi abbiamo un grave problema: capocriceto, che si crede un roditore alfa, ha monopolizzato il potere e la topoinformazione e ha fatto la sua rivoluzione. Sentendosi il più attraente e il più furbo ha inventato un nuovo modo per accoppiarsi: e pare che lo voglia imporre come legge. Lui paga le roditrici in noccioline e loro fanno a gara a lisciarsi le orecchie o a siliconarsi le code pur di mangiarsi quelle prelibatezze. Insomma secondo capocriceto non conta farlo se e quando hai voglia, ma basta seguire le istruzioni e tutto sarà perfetto. E così ha inventato il toposutra, una moda con tutte le sue posizioni preferite, per celebrare la mascolinità. Ma non solo toposutra, vuol imporre ai toposudditi anche una linea completa di mangimi per sviluppare l’appetito sessuale, in particolare delle roditrici, così la SUA libertà sessuale non verrà mai mortificata. Perché lui è il nostro capo, lui ci governa e dà l’esempio: e noi topisudditelettori dovremo adeguarci, IMPARARE da lui, per non passare nella categoria dei subroditori. Più tope per tutti, in fondo è un motto che piace a tutti noi topi maschi, ma prima non c’era nemmeno bisogno di dirlo.
E io, topo di campagna qualsiasi, che non sarà mai un roditore alfa, mi sento depresso: perché so che non sarò mai capace di eguagliare le prestazioni di capocriceto, mi sento inferiore. Ho visto pantegane in competizione con scoiattoli sulla dimensione della coda, ho assistito a risse tra ricci e talpe a causa delle tariffe troppo alte di queste ultime: “dieci noccioline come minimo, con te è sempre sadomaso” si lamentava la talpa. Insomma, a me sta storia della libertà non convince più, così è solo ossessione, ovvero schiavitù.
Ah, l’altro ieri, giusto lunedì, passavo in periferia e ho assistito all’ennesima cilecca di babbo topo con mamma topa. Ma lei stavolta gli ha urlato: “capocriceto l’avrebbe fatto sette volte di seguito!”. E lui non è stato zitto: “ma piantala che una vecchia batuffola di polvere come te, non attizza più nemmeno un toporagno”. E si sono separati.
Sì, lo so, di questo passo finiremo tutti all’inferno: che per noi topi sarà sicuramente una stanza completamente pulita e disinfettata. E qualcuno da un topopulpito sicuramente ci avvertirà che, se non rispetteremo il toposutra, diventeremo ciechi.
Esercizi di resistenza quotidiana
Sì, dai, basta silenzio. Un topo di campagna, dal basso della sua costituzione, non può certo tirarsela e diventare snob. Se la narrativa tace, da quando Nebbia è partito con il circo, un blog, o meglio un controblog, non può non comunicare.
Se oggi non hai un blog non sei nessuno, almeno sembra: proprio per questo avevo pensato a un controblog. Se i blog sono quasi sempre fiction camuffati presuntuosamente da realtà, sembrava giusto far sapere fin da subito che un topo altro non poteva che scrivere di finzione verosimile. Ma questo pallino del controblog ha poi finito stupidamente per prendere una piega sbagliata: se il blog è comunicazione, il controblog stava diventando silenzio. Ma allora, che ci sto a fare qua dentro, a occupare preziosi spazi virtuali? Lo spazio sul web è un privilegio che un roditore pendolare non può permettersi di sprecare. Si torna a viaggiare, un inverno è alle porte, come sempre in mezzo ai pendolari trafelati, a mille, centomila vite che s’incrociano e si sfiorano per un istante, qualche minuto, un’ora, su un treno o su un autobus. Direzione Milano metropoli, il gran Milan che tutto ingloba, hinterland compreso, ma che si distingue da un altro mondo che sta fuori, la provincia ipocrita e un po’ invidiosa, un enorme dormitorio che si anima soltanto poche ore, la sera e la mattina, il sabato, la domenica e le feste comandate.
E nei pochi spazi di libertà, dentro e fuori la metropoli, si lotta ogni giorno contro l’alienazione. Altro che silenzio! Un controblog, scritto da un topo, non può che essere un esercizio di resistenza quotidiana. Anche quando non c’è poesia. Ma stasera, sul locale per Varese, la poesia c’è: si chiama Mario e ha quattro anni, dorme profondamente sulla spalla della mamma. Lei cerca di svegliarlo, in vista della loro fermata, ma il piccolo Mario dorme e sogna chissà quale mondo: lontano da tutto, dalla mediocrità di noi adulti e dalla monotonia dei pendolari. Anche questo è un piccolo, grande, gesto di resistenza.