Binario due, seiequaranta: prendi un foglio bianco e mettici sopra decine di penne a sfera che scarabocchiano i propri itinerari e convergono tutte nel medesimo punto. Al binario due: col vento in faccia alzato da un treno che fuori puzza di gomma bruciata e dentro ti strangola con uno stagnante odore stantìo di cane bagnato.
Scene quotidiane di una stazione di provincia, per la trama di un capitolo che ognuno ha ancora da scrivere. Troppo impastati di sonno, i pendolari del seiequaranta non hanno tutto chiaro in mente già dal primo minuto, lì sulla banchina: la loro trama emerge stazione dopo stazione. E in fondo al viaggio, ecco Milano: un mito se sei adolescente, un frullatore se sei un lavoratore. A Milan gh’è al pan, ma è un pane che ha un prezzo…Un pan che al g’ha sett crust: e intanto sulle carrozze del seiequaranta Milàn si porta via i sogni di tutti, il resto è mancia.
Agnese ha una laurea in economia da far fruttare: Milano vive di pil, Agnese l’han fatta studiare nel nome del pil e per farsi una posizione. La sera, a letto, sogna di sposarsi e di avere figli, ma la mattina c’è il pil che si ruba tutta la scena: centodieci e lode alla Bocconi, la sua famiglia ha speso una fortuna per quel pezzo di carta. Dai da mangiare all’economia e lei nutrirà anche te… ma a quale prezzo? Intanto è già in prima fila, Agnese, davanti alle porte del treno: perché non c’è tempo. Per cosa? C’è da fare in fretta: perché? A Milano c’è il pil che comanda, si va di fretta e basta.
Said, invece, non sa cos’è il pil e non capirebbe perché gli economisti di gran moda vanno al governo convincendo il mondo che se dai da mangiare in continuazione a una capra, questa crescerà all’infinito. Non ha capre e nemmeno di che nutrirsi tutti i giorni, Said, ma forse oggi mangerà: perché va a fare il magùtt di nascosto, giù al cantiere accanto alla stazione. E un kebab, male che vada, lo mette sotto i denti comunque, con un paio di sacchi di cemento scaricati in nero: ma se va bene, anche qualcosa in più lo porta a casa, pure un’aranciata salta fuori. Il biglietto lui lo paga, non è mica un accattone, ci tiene a non sembrarlo: e comincia la giornata con sotto una nuvola di deodorante acquistato in un discount. Aroma mughetto, per un magutt magrebino, è un segno di distinzione. Inesorabilmente, anch’egli andrà ad alimentare la grande puzza, la somma di milioni di odori che produce una metropoli.
L’ingegner Tibiletti, seduto al suo fianco, punta tutto sul dopobarba al profumo di ginepro, roba che arriva dalla Svizzera: «Sa, perché io ho lavorato una vita, mica per andare al discount. La roba buona la compro ancora». Spera di andare in pensione, ma non gliela daranno per un bel po’… Non ci vuole pensare, lui finge di sentirsi inossidabile, ma non ne può più di far ‘sta vita. Fa il pendolare da più di trent’anni, da quando i treni avevano gli scompartimenti e poteva capitare di trovarsi solo, a tu per tu con la donna dei sogni. Una donna di cui ci s’innamorava per tre fermate e poi ci si lasciava senza platonici rancori. Oggi, per stare al passo con i tempi, l’ingegnere unge a colpi di ditate lo schermo di un’i-pad: «Perché l’informazione, ormai, l’è cambiada. Ormai la carta non si usa più, il futuro è questo qui»… e fissa lo sguardo su quello schermo.
Non son più i tempi dei quotidiani, l’edicolante giù in stazione lo manda a quel paese sottovoce, ogni volta che lo vede passare e si ricorda di quando, ogni mattina, l’ingegnere si portava in treno una mazzetta di giornali alta così: e oggi, in nome della nuova informazione tecnologica, tutto finito. «Vadavialcù, ingegnere», e non dimentica di quando al mercoledì, dentro al Corriere gli metteva anche il porno, altro genere finito fuori moda nelle stazioni. Oggi tette e culi, l’ingegnere li clicca, non li sfoglia più. Ma non gli fanno più l’effetto di allora: sarà l’età, ma anche rincoglionirsi davanti a un’i-pad contribuisce alla sua impotenza. Un’università del Minnesota, presto, studierà anche questo.
Sparisce la carta, sparisce ogni dialogo in carrozza: seduti nei vagoni, i pendolari dell’ultima generazione sembrano automi radiocomandati, tutti con fili e auricolari, con la testa già bombardata da un regista occulto, che non ama chi se ne sta in silenzio a pensare… Potrebbe accadere che, nel silenzio, a qualcuno venga voglia di tornare a sfogliare quel Pratolini che odorava di muffa, ma che tra le pagine ti portava dentro tutto il treno: tutto il treno sembrava trasformato in via del Corno, nella Firenze anni Venti… Sparisce la carta, spariscon le carte, quelle delle partite a briscola che infiammavano le mattinate di viaggio, spariscono i termos pieni di caffè e le schiscette, simbolo dell’amore coniugale di provincia, quando ancora non si sapeva cosa fosse il brunch.
Lunga vita ai sacerdoti della tecnologia: “Stay hungry, stay foolish”, solo che a Milano non si sogna più ciò che si vuole, ma ciò che è imposto dal destino. Sei dentro a un frullatore: non sei più tu a decidere in quale senso far girare il mondo. Resti a tu per tu col destino, che quando apre una porta, ne chiude un’altra. Dati certi passi avanti, non è possibile tornare indietro. Filosofia non quotata in borsa, ma anche tutta roba che non capirà mai l’ultima generazione del libro elettronico, quella che trionfa con la logica del pil … vallo a spiegare a Kevin, primo anno di giurisprudenza, cosa vuol dire sfogliare Dickens, aprirlo e chiuderlo quando cacchio ti pare, tra i sobborghi di Busto Arsizio e le prime case di Legnano: immaginarsi Londra, oltre il finestrino, è un atto di libertà. Vallo a spiegare a Kevin, lì seduto che mastica un chewing gum gusto fragola, sotto una cresta scolpita da un chilo di gel. Kevin mastica e ha già in mente dove vuole arrivare, alle seiequaranta del mattino. Su Facebook lo ha già scritto: “ciao raga, oggi mi faccio il piercing, stasera ve lo taggo”.
Kevin, primo anno di giurisprudenza, alla scoperta della legge, quella che col tempo gli ammoscerà la cresta e gli farà risparmiare sul gel: e pure il piercing, prima o poi, lo getterà in una latrina. Una Milano che sforna migliaia di avvocati, non può che affogare nelle carte bollate senza senso: Kevin sogna gli ultimi assoli di chitarra, ma presto a suon di diciotto su trenta, si ritroverà a tu per tu con quel seiequaranta, sempre lo stesso, a fissare il finestrino senza guardare oltre. Incazzato col mondo. Andata e ritorno, si va e si torna, senza piercing, ma in giacca e cravatta. “Porca troia se fossi il figlio di un segretario di partito! Porca troia, sarei consigliere regionale e mi farei una donna al giorno”. Altro che codice civile, fanculo pure agli assoli di chitarra, da qualche parte si dovrà pur uscire da ‘sta vita in gregge.
La mandria sale e scende, la governa il capotreno Caruso, partito da Aci Trezza, finito a Domodossola, in una casa popolare che è più grigia del suo treno: partenza all’alba, ritorno che è già notte. Una giornata a litigare con carrozze fatiscenti, porte incastrate, impianti di riscaldamento costantemente guasti, finestrini rotti e sedili lerci. Il seiequaranta non è un treno per signori, il capotreno Caruso sa già che si prenderà insulti gratuiti dai soliti imbestialiti, gente ammassata nei vagoni sempre troppo pieni. Ma giù all’ultima carrozza sa che troverà la Tilde, di professione receptionist, con l’hobby di fare innamorare uomini sempre troppo soli, catturati tra un’andata e un ritorno. Tutti a indugiare dentro a quella scollatura infinita, che sembra una finestra sul paradiso.
Caruso, capotreno innamorato, pregusta ogni giorno quel suo viaggio dalla prima all’ultima carrozza, fin dentro la scollatura: e dove lo sguardo non arriva, prosegue con l’immaginazione, così che anche Vanzago Pogliano, da quel punto di vista, gli sembra bella più di Taormina.
L’unico a non distrarsi è Treves l’intellettuale: nemico del sapone e del sistema. Frustrato che sognava di diventare il più grande giornalista di Milano, l’uomo nuovo del reportage, la voce della verità, il cane da guardia del potere, finito a correggere bozze per i raccomandati che affollano le redazioni di quei giornali che nessuno legge più. Treves sul seiequaranta è sempre fisso accanto alla Tilde, il suo odore muschiato si confonde col parfume francais della signora. Treves la marca stretta, non per corteggiarla, bensì per sfuggire al controllo biglietti di un Caruso preso da ben altre prospettive. Treves, l’intellettuale che sognava il premio Pulitzer, viaggia a scrocco per risparmiare: sia lodato il seno della Tilde, ma nel frattempo progetta il romanzo che gli cambierà la vita. Immagina un capitolo per ogni fermata, ma poi Milano gli offuscherà ogni idea, come un cancellino passato sulla lavagna: l’indomani, tuttavia, quella lavagna sarà pronta per una nuova storia tutta da scrivere. In fondo, è così che nascono i libri da treno.
Bello! Sembra la diligenza di “Ombre rosse” del terzo millennio. Un ringraziamento particolare per la citazione del dimenticato Pratolini che mi ha tenuto compagnia nei miiei lontani anni liceali e che ancora nel cuor mi sta.
Leggerti è sempre un piacere, ma certo non viene quella gran voglia di trasferirsi a Milano. I tuoi ritratti sono belli e incisivi, ma malinconici e senza speranza… una luce in fondo al tunnel? Forse i seni della Tilde.