In giacca e cravatta a chieder l’elemosina

Le quattro mura della tana, stasera, non riescono a distogliermi dal senso di pesantezza che mi lascia la città, il viaggio quotidiano dalla provincia alla città. Ho sul tavolo “l’uomo che ride” di Hugo, l’ho iniziato da poco, ma non riesco ancora ad aprirlo, stasera. Io topo di campagna e scrittore di provincia non riesco a vivere la città come una cosa normale, non riesco a farmela scivolare via dalla pelle. Provincia e città, l’odore del lago e quello della metropoli, così diversi.
Stasera in cima alle scale di stazione Centrale, c’era un uomo in giacca e cravatta seduto su una panchina che mi guardava: io, diretto al binario, sono stato colto di sorpresa, quando questo mi ha fatto segno di fermarmi un secondo da lui. «Mi dai qualcosa, qualche spicciolo? Sono sulla strada, cazzo, sono finito sulla strada» mi ha detto.
Io nella fretta ho dato una risposta idiota, la più idiota: «Non ho moneta, ma se vuoi ti posso cedere il mio giornaliero per il metrò». Quello mi ha guardato, come per dirmi “ma che cavolo ci faccio io, col biglietto del metrò”, ma da signore distinto l’ha accettato. Avrei potuto dirgli: «Hai fame, posso offriti un panino?», ma avevo troppa fretta. Ero dentro il vortice del frullatore, il frullatore quotidiano che ti fa correre senza pensare. Ma a quell’uomo ci ho ripensato più volte, fino a ora. “… per intendere la città, per cogliere al di sotto della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui molti favoleggiano – adesso lo capivo – fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come loro, soffrire come loro”. Di questi tempi cito spesso Bianciardi, Luciano Bianciardi: questa sua considerazione è tratta da La vita agra, un capolavoro senza il quale, forse, il mio Nebbia sarebbe molto più banale, il mio ragionier Ponchio, licenziato e cornuto, non sarebbe mai passato nei miei racconti. Ma si capisce, anche, perché leggendo certi sacerdoti, le grandi firme della cultura e della letteratura che oggi imperversano sul Corsera o su altri grandi quotidiani, ho la sensazione che, quando parlano di romanzi e culture, questi vivano in un altro mondo, troppo lontano da quello che vedo io: ma non so più quale sia quello sbagliato o quello giusto, quello vero o quello finto. Eppure, la Milano dell’ex impiegato in giacca e cravatta che chiede la carità in Centrale, non mi sembra per niente diversa dalla città che vedeva Bianciardi cinquant’anni fa. E voi, scrittori e lettori di provincia, che Milano vedete? Tutte le crisi si assomigliano e forse è per questo che, tra tutti gli autori che conosco (sono pochini, lo ammetto), quelli che più mi sembrano attuali sono i classici. Se penso a certi passaggi di Charles Dickens… E secondo voi, cari amici, qual è il grande scrittore più attuale, pensando al nostro tempo?

Benvenuti nella tana del topo!

“Il topo chiude il blog?” Niente affatto, cari, ma i treni e le periferie di Milano non mi bastano più. Ora voglio dialogare con voi e per farlo vi porto nella mia tana: tana polverosa, nascosta tra i muri di una casa virtuale, che si apre sul mondo grazie alla parola scritta, narrata, romanzata. Vi porto dentro la mia tana a scrivere, a leggere, a raccontare, a pensare, ad ascoltare, a riflettere e a osservare il mondo là fuori. Emozioniamoci per la poesia dell’ultimo tra gli analfabeti e, magari, ridacchiamo senza timore per la boiata scritta da un premio Strega.
Prego signori! Entrate nella tana del topo, quel topo di campagna che viaggia, avanti e indré su un treno sgangherato e poi, la sera, si rifugia qui, dentro la narrativa, la letteratura, la poesia. In sintesi: si rifugia nella parola scritta che sa trasmettere emozioni, una parola scritta per arricchire chi legge.
Potere alla parola, signori, quella fissata sulla carta o sul foglio virtuale di un pc, quella che rimane lì e invita il lettore a viaggiare o a pensare. Perché, in fondo, l’arte e la letteratura vere non hanno la presunzione di certi cialtroni vanitosi: trasmettono emozioni gratuite, che restano, e che a loro modo arricchiscono la mente di tutti noi.
Chi ha il diritto di sentirsi scrittore, oggi? Chi lo può stabilire? Non certo prelati e guru autoreferenziati. Non certo le classifiche di vendita fasulle e pilotate. Verga, Manzoni, Montale e tutta la schiera dei grandi (quelli veri) non hanno critici a cui essere grati, ma solo lettori, milioni di lettori. La loro parola scritta, la loro arte li precede. La cosa più odiosa che puoi fare per farti cacciare dalla mia tana è salire su un pulpito e metterti a giudicare chi è un talento e chi no in base a un presunto pedigree. Non sopporto i sommelier della cultura: quelli che, al primo sorso, stringono la bocca “a culo di gallina” e giudicano. Preferisco gli onesti bevitori, che si lasciano inebriare dalle emozioni. Nella mia tana, il vino lo si distingue soltanto in due categorie: quello onesto e sincero e quello prodotto in malafede e traditore. Il vino d’Angera non può somigliare al chianti, se è così, significa che è disonesto: meglio un vino che racchiuda il sapore della propria terra, con il suo carattere unico che proviene dalle sue radici, che piaccia oppure no. Ma onesto. Lo stesso vale per l’arte e, in particolare, per la letteratura e la narrativa: nella mia tana non esistono scrittori abusivi, ma onesti e disonesti. E siccome qui dentro non ci sono pulpiti o piedistalli, io scrittore sono sullo stesso piano del lettore.
Nell’era in cui cadono tutte le barriere precostituite, sociali o culturali, soprattutto grazie a internet, grazie al senso di libertà sconfinata che deriva dal web, il minimo che si può pretendere è che scrittori e lettori si guardino negli occhi, sullo stesso piano, alla pari. I primi hanno il diritto di esprimersi e pubblicare con un solo dovere, il rispetto dei lettori. I secondi hanno invece il diritto di leggere, ma anche di non leggere, con un solo dovere: valutare la parola e non chi scrive. E, a ben vedere, un bel bagno di umiltà mischierebbe le carte e sarebbe meglio per tutti: tra lettori e scrittori, oggi, non può più esserci alcuna barriera. Io che mi sento scrittore, che propongo parole ed emozioni a un pubblico di lettori, devo essere il primo a dare l’esempio, ed essere anche un onesto lettore, predisposto al confronto, all’ascolto. Lo scrittore vero non è quello consacrato da chissà quale critica o dal sacro fuoco della letteratura, ma è colui che scrive con un solo obiettivo: essere letto. Vale per tutti, sia per i privilegiati o meritevoli che pubblicano per grandi editori, sia per quelli che si rivolgono agli editori abusivi (che pubblicano a pagamento), sia per quelli che rimangono solo nello spazio virtuale di un blog. E per chi pretende un pubblico di lettori, il primo atto di modestia e correttezza, oggi, è di essere lettore egli stesso. Per primo.
Nell’era di internet, viviamo in uno stato di bulimia da scrittura e, al tempo stesso, di anoressia da lettura. E questo non è che lo specchio di una società abituata a parlare sempre e non più ad ascoltare, ad esprimersi e non a lasciare esprimere. Nella mia tana proveremo a ristabilire un equilibrio.
Con la voglia di lasciarci attraversare dalla parola che scolpisce, che dipinge, che fotografa, che sintetizza e che plasma il mondo là fuori. Una parola onesta.