Si inaugura oggi la rubrica filosofica di Yaaas. Permettetemi di ringraziare chi ha avuto il coraggio di promuovere il progetto e chi ha avuto la delicatezza di invitarmi a farne parte. In cosa consiste questo percorso? Tre righe per spiegarlo. Il titolo della rubrica sottolinea un intento: lasciare domande senza la presunzione di dare risposte. L’obiettivo è parlare di filosofia per non avere “paura” della filosofia. Lo strumento sono le domande; vanno fatte qui, a casa, nel mondo, ovunque.

Sì, lo so: vi aspettavate un titolo sull’essere, sul senso della vita, sull’ontologia o sulla metafisica della persona; oggi no. Parleremo di stanchezza.
Dal sondaggio fatto, pare che questo tema abbia affascinato parecchi! Ci sarebbe molto da dire, proverò a essere breve – con la consapevolezza di non poter essere esaustivo – lascerò dei rimandi e se qualcuno volesse contattarmi per continuare a discutere libero/a di farlo.
 
Proveremo a concentrare la nostra attenzione sugli stimoli offerti da due filosofi in particolare dai quali poi cercheremo di trarre qualche riflessione e alcune domande. Essi sono Blaise Pascal e il filosofo coreano Byung-Chul Han. Scrive così Pascal nei suoi Pensieri:
 
«Nulla è così insopportabile all’uomo come essere in un pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. E subito sorgeranno dal fondo della sua anima il tedio, l’umor nero, la tristezza, il cruccio, il dispetto, la disperazione».
 
Questo atteggiamento di irrefrenabile necessità di occupazione evidenzia come sia complesso per l’uomo stare solo con sé stesso. Il fare, talvolta, esclude il pensare, o come direbbe Pascal: il pensarsi. Questione complessa, anche perché, se si riflette bene, ragionare in questi termini vorrebbe dire aprire le porte ad una dimensione contemplativa. Ci si chiede se oggi come oggi conosciamo ancora il significato della parola contemplare; essa ha assunto solo una declinazione religiosa? È ancora possibile contemplare? Sarebbe bello impegnarsi a dare risposta a questi interrogativi, magari iniziando a contemplare l’umano, che poi siamo anche noi stessi.
E se il fuggire da noi stessi, e quindi rifiutare la contemplazione del sé, portasse l’uomo verso la costruzione – e la permanenza – di una società della prestazione, nel quale non è più importante essere ma fare?
 
Il terzo capitolo del Qoelet si apre così: «tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo», se esiste un tempo per fare è anche disponibile un tempo per contemplare, è necessario però sceglierlo. Oggi siamo abituati a sentirci in colpa quando “non facciamo nulla”, quando non sentiamo di corrispondere ai dettami prestazionali imposti dal mondo, ci sentiamo in difetto se per qualche tempo non riusciamo ad essere multitasking. Ecco, potremmo quasi dire che l’ultimo passaggio evolutivo nella scalata verso il progresso dell’umanità sia la creazione dell’Homo multitasking.
 
 
Non è di questo avviso il filosofo Han. Egli, nel suo testo La società della stanchezza, scrive: «Il multitasking non è un’abilità di cui sarebbe capace solo l’uomo del lavoro e dell’informazione tardo-moderna. Si tratta, piuttosto, di un regresso. Il multitasking infatti si trova già largamente diffuso tra gli animali in natura. E’ una tecnica dell’attenzione indispensabile per la sopravvivenza nell’habitat selvaggio. Un animale intento a nutrirsi deve svolgere contemporaneamente altri compiti. Per esempio, deve tenere gli altri predatori lontani dalla preda. Deve costantemente fare attenzione, mentre mangia, a non essere anche lui divorato. Nello stesso tempo deve sorvegliare la prole e tenere d’occhio i partner sessuali. Il multitasking genera un’attenzione diffusa ma superficiale, simile al modo con cui è vigile un animale».
 
Condivisibile o meno, sicuramente quanto espresso da Han fa riflettere. Il multitasking quindi non sarebbe l’ultima frontiera dello sviluppo umano, piuttosto esso rappresenterebbe un regresso ad una condizione animale, manchevole quindi dei presupposti per potersi concedere la contemplazione. Ecco il possibile senso della stanchezza: riportare l’uomo all’origine.
 
Già Aristotele nella sua Etica a Nicomaco aveva parlato dell’attività contemplativa come l’azione più elevata che compete all’uomo nella ricerca della felicità. Dedicare tempo a sé stessi – tempo autentico s’intende -, avere il coraggio di pensarsi e rimanere «presenti al proprio presente», possono essere delle utili pratiche per far fronte alla stanchezza che non è un nemico da estirpare ma un saggio consigliere che ci ricorda di respirare perché ognuno, infondo, ha il diritto di poter essere stanco.
 
 
Luca Lanfranchi