L’amore muto

Terzo appuntamento con la rubrica filosofica di Yaaas. Il tema di oggi non può non interessare perché interessa tutti: l’amore e di conseguenza l’amare. Il titolo della rubrica sottolinea un intento: lasciare domande senza la presunzione di dare risposte. L’obiettivo è parlare di filosofia per non avere “paura” della filosofia. Lo strumento sono le domande; vanno fatte qui, a casa, nel mondo, ovunque.

Nella cultura contemporanea l’amore vive un periodo poco roseo, diciamolo chiaramente: è dato per scontato, sembra essere un atto dovuto al quale non è necessario prestare attenzione. Non si discute più d’amore, è roba da poeti. Il discorso sull’amore ha smesso d’esistere, svilito «nell’assiduo contatto della gente, nell’assiduo gestire e nelle ciance». (K. Kavafis, Per quanto puoi) Ci si potrebbe chiedere se la difficoltà nel riflettere circa l’amore (eros) possa essere causata dalla sua separazione dal pensiero (logos)?

Infatti, fra eros e logos intercorre un legame stretto, quasi inscindibile, la storia del pensiero lo mette bene in evidenza su più fronti e quasi ininterrottamente nello scorrere dei secoli. La filosofia stessa è eros che trasmuta in logos. Il pensiero non è tale se non è erotico e la stessa condizione del filosofo si erge sulle fondamenta dell’amore: egli è un amante della sapienza, una sapienza goduta, toccata, passionale, una sapienza che riabilita l’umano restituendogli la linfa della vita. Quando l’uomo riconosce la verità di un pensiero, la sensazione di pienezza ch’egli prova è simile a quella dell’atto amoroso.

Le fondamenta dell’amore sono nel pensiero e quelle del pensiero stanno nell’amore. La fine dell’uno implica quella dell’altro. Oggi, nel pensare all’amore viviamo immersi in una delle più proficue eredità platoniche, potremmo chiamarla il paradigma della completezza. Quante promesse matrimoniali, quanti fidanzamenti e quante dichiarazioni si sono erse nelle piazze e nelle chiese al grido: “ti amo perché mi completi!”. Questa diffusa affermazione deriva dalla mitologia platonica, più precisamente dal mito dell’androgino descritto nel Simposio. «Allora, una volta divisa in due la natura primitiva, ciascuna metà, bramando la metà perduta che era sua, la raggiungeva […] perché non volevano fare nulla l’una separata dall’altra. […] Ciascuno dunque cerca sempre il proprio complemento». L’uomo e la donna, essere manchevoli, cercano nel mondo l’anima gemella senza la quale si sentono a pezzi. L’angoscia di questa ricerca ha una matrice psicologica: “ho bisogno dell’amore per completare la mia vita. Senza quella persona sono nulla”. Così comincia la frenetica ricerca mossa dal bisogno di sentirsi completi, o forse giusti.

Un Io fagocitatore del mondo assume le sembianze umane, trasformando anche la verbalizzazione dell’amore: il ti amo diviene espressione di un IO TI amo, dove l’Io si nutre dell’amore e dell’altro, di fatto annullando entrambi, con l’unico scopo di soddisfare i propri bisogni. Il ti amo inteso in questi termini è autoreferenziale, il Tu è ammutolito dal monologo dell’Io. Ci si chiede se il paradigma dell’amore come completezza sia l’unico possibile: può esistere un altro modo di amare? Si può amare mantenendo la centralità del logos come garanzia di irriducibilità dell’altro? Luce Irigaray (1930) riflette a lungo su questa tematica. La filosofa francese, nel suo testo Amo a te, propone una rivoluzione linguistica e concettuale nell’esprimere e nello sperimentare l’amore: Il Tu – che è l’amato – non deve essere ridotto a mezzo per il soddisfacimento dei bisogni dell’Io – l’amante. L’amare non ha una direzione di soddisfacimento, nell’amo a te «l’a è il garante della in[1]direzione», ovvero della possibilità di amare senza annullare. Irigaray scrive così in proposito: «Amo a te significa “osservo nei tuoi confronti un rapporto di in-direzione”. Non ti sottometto, né ti consumo. Ti rispetto (come irriducibile). Ti saluto: saluto in te. Ti lodo: lodo in te. Ti ringrazio: rendo grazie a te per… Ti benedico per. Ti parlo, non soltanto di una certa cosa, ma ti parlo a te. Ti dico, non tanto questo o quest’altro, ma ti dico a te». L’amato non è la riduzione a cosa dei più intimi bisogni di autorealizzazione e di riconoscimento sociale dell’amante, piuttosto egli è il luogo dell’attenzione e della delicatezza. «Desidero essere attenta(o) a te nel presente e nel futuro, ti chiedo di restare con te, sono fedele a te». L’amare in tal senso non è mai possesso, ma sempre e solo incarnazione di possibilità, la possibilità di esistere nel miglior modo pensabile: tu amata(o) collabori a questa possibilità, tu rendi me capace di azioni che non conoscevo come fattibili. «Non puoi sapere chi sono, ma puoi aiutarmi a essere scorgendo quello che mi sfugge di me».

L’amore è la forma più alta del logos in quanto produttore di conoscenza e di possibilità. Un ulteriore aspetto affascinante del ragionamento che abbiamo impostato emerge quando si considera il logos come discorso. Infatti, l’uomo conserva una specificità discorsiva anche nell’atto sessuale stesso. Seguendo la celeberrima definizione aristotelica dell’uomo come animale razionale, si potrebbe dire che la razionalità del logos penetra l’intimità dell’umano. La riproduzione animale avviene sempre di schiena, l’uomo, invece, è l’unico animale a potersi riprodurre frontalmente. In tal senso, la morfologia umana piega la sessualità a servizio del logos. Come? Il filosofo Fabrice Hadjadj (1971) scrive: «Ciò di cui ci si rende meno conto è che il fatto di stare in piedi fa spostare la vagina dalla parte posteriore alla parte anteriore.

Non si ha più una femmina da attaccare da dietro. Si ha una femmina che bisogna affrontare frontalmente». Come ricorda Hadjadj già Alberto Magno (1206- 1280) aveva notato questo, la possibilità dell’incontro frontale fra gli amanti traccia il sentiero per il passaggio del logos. L’uomo e la donna possono guardarsi in faccia nell’atto sessuale; possono leggere il volto dell’altro andando oltre il viso. Attraverso il bacio poi, si scopre la bocca, il veicolo della parola, il mezzo del logos. Si potrebbe dire: “per questo non bacio solo la tua bocca, non amo solo il tuo corpo; bacio e amo i tuoi sogni, le tue speranze e le tue crisi, bacio e amo tutto ciò che quella bocca può pronunciare, tutto ciò che quel corpo può fare”. Molto nell’uomo conduce all’affermazione del rapporto fra logos ed eros; il mancato riconoscimento o l’annientamento di tale binomio produce un pensiero disincarnato incapace di amore e compassione oppure un amore “malato” non consapevole di sé stesso e degli altri.

L’amore, per essere tale, ha bisogno delle giuste parole. Scrive così Mariangela Gualtieri (1951) in una sua poesia: «Tu resta nella nicchia,/ parola, per quel giorno quando/ risuonerai – di nuovo nuova». Oggi sentiamo la necessità di tornare ad amare ma non conosciamo più il vocabolario dell’amore; solo attraverso un atto di quella umiltà che appartiene al silenzio potremmo tronare a pronunciare l’alfabeto dell’amare. L’eros unito al paziente lavoro del logos ci conduce a una sola consapevolezza: dobbiamo imparare a parlare prima di tornare a dirci ti amo. 

Lascio di seguito la poesia citata nel finale. Per me è una scoperta recente, un regalo a cui sono grato. Credo che evochi molto bene la potenza della parola e la sua splendida gravità.
Quando non morivo
di Mariangela Gualtieri
Spingo nella frana i miei pensieri
poi guardo il cielo. Corvi insolenti
stanno sul davanzale.
La parola Amore mi gira attorno.
Vuole sempre venire
in ogni riga. La tengo buona,
indietro. Come avvolta in un panno
di lana. Non puoi uscire, le dico.
Cara parola. Non puoi uscire oggi.
Ci vuole una mano spadaccina
per quel tuo carico ingombrante
e invece oggi noi siamo
nel calmo della nuvola turchina
siamo stupidi un poco, un poco
stanchi. Tu resta nella nicchia,
parola, per quel giorno quando
risuonerai – di nuovo nuova.

di Luca Lanfranchi