L’eredità di un seme

Un antico detto arabo recita così: «Nel giorno dell’apocalisse, se hai un virgulto, piantalo»

Cosa può significare questo con un discorso circa il tema dell’eredità? Questo virgulto rappresenta ciò che da sempre siamo stati: un gesto, una continuità, un andare oltre la morte per scoprire la vita. Esso rappresenta quella creazione continua che ci coinvolge ogni giorno in quanto uomini e donne; rappresenta la speranza di qualcosa di nuovo su un suolo vecchio; rappresenta l’eredità di un mondo che è stato verso un mondo che ancora non è. Massimo Recalcati (1959) nel testo Il complesso di Telemaco tratta il tema dell’eredità come riconquista: una riconquista che vede l’erede non come un ricevitore passivo di quanto il “padre” ha conquistato col suo sudore e che gli ha lasciato ma come un esploratore del passato, in movimento dunque, con l’obiettivo di far rivivere nella propria storia personale quello che è già vissuto nella storia di qualcun altro.

In tal senso, sembra emblematica la citazione che Sigmund Freud riprende da Goethe: «ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero». L’eredità è un fattore che coinvolge la vita del singolo in quella dell’altro e questo non è da pensare semplicemente in chiave biologica. Infatti, l’eredità è tale quando essa aiuta a definire ciò che il soggetto è; la biologia riguarda la nascita “primaria” dell’individuo ma ciò che rende cosciente lo stesso individuo di essere tale è una nascita che parte dalla consapevolezza di «non essere altro che l’insieme stratificato di tutte le tracce, le impressioni, le parole, i significati che provenendo dall’Altro ci hanno costituito». Non possiamo parlare di noi stessi senza parlare degli altri che ci hanno “marchiato”. Tale dipendenza si manifesta nella quotidianità quando, dopo aver fatto esperienza di un qualcosa – gioioso o meno che esso sia – sentiamo la necessità di raccontarla ad un’altra persona, quasi non bastassimo noi soli a rendere vero e reale quel fatto. L’uomo è essenzialmente un essere dialogico ed è nel comunicare che egli ri-scopre sé stesso.

Dunque, ci troviamo in una situazione di dipendenza poiché senza l‘altro saremo privati di due vite: quella biologica e quella esistenziale. Senza l’altro saremo morti ancor prima di venire alla luce.

L’eredità è quindi quel processo di riconquista che permette di definire i soggetti che siamo alla luce di quello che l’altro è già stato. E se questo non dovesse avvenire? È possibile “fallire” l’eredità? E in quale modo posso invece conquistarla nonostante le circostanze? Recalcati avvalendosi della psicoanalisi individua due possibilità per cui questo fallimento potrebbe verificarsi.

In prima battuta l’eredità può svanire quando si assume nei suoi riguardi un atteggiamento di destra, conservatore, che si potrebbe intendere come il ricalcare per filo e per segno quanto è già stato fatto dall’altro. Si ha una nostalgia verso il passato, una sorta di attaccamento morboso verso “ieri”, non si vuole accettare che esso sia già stato, non lo si vuole seppellire.

Ma questa non è eredità: questa è venerazione, nostalgia, è mera riproduzione. L’eredità implica una linea temporale che si muova costantemente verso il futuro, che attraversi il passato ma senza farsene carico, “ieri” si abbandona in quel punto da cui non si passerà più. Quel passato ha istruito? Ha insegnato qualcosa? Certamente e lo si ricorderà, ma non si tornerà mai indietro a ringraziare. Il “grazie” silenzioso lo pronunceremo nel portare l’eredità ricevuta verso quel punto infinito e indefinito che è il futuro. «Lasciate che i morti seppelliscano i morti» scrive Matteo nel suo Vangelo.

Il morto è ciò che è già stato, è necessario dunque prendere le distanze da esso, non per dimenticarlo ma per evitare la malinconia di chi si ostina a ricercare nel “ieri” le risposte alla vita che deve vivere oggi. «Dimenticare i morti non perché li abbiamo cancellati dalla nostra vita, ma perché li abbiamo fatti nostri», diventiamo eredi perché, in modo personale, continuiamo la loro opera, «in questo senso possiamo dire che abbiamo potuto dimenticarli, che abbiamo potuto lasciarli morire».

Lo strappo col passato deve essere radicale, netto, solo così esso potrà essere ricordato senza dolore, solo così potrà essere riprodotto senza paura di sbagliare, solo in questo modo si potrà vivere senza timore di fallire.

Vediamo ora la seconda modalità individuata dalla psicoanalisi per fallire l’eredità. Essa è quella di sinistra, progressista e che tende a rifiutare ogni possibile legame col passato. Lo stesso passato viene visto come un limite da distruggere – eppure senza di esso non si potrebbe avere nemmeno l’eredità. In questa visione avviene lo scontro, il rifiuto con quello che ci lega al passato – è una tappa dell’adolescenza che tutti, più o meno, abbiamo vissuto – e tutto questo accade in nome della libertà, un ideale che si vuole ottenere senza nessun limite imposto. Si vuole essere padroni e padri di sé stessi. L’uomo si rifugia nell’ideale assolutizzato della libertà e si ritrova talmente libero da non appartenere più a nessuno, nemmeno a sé stesso. Senza passato che futuro si può avere? Genitori di sé stessi perché figli della libertà: di chi si sarà padri? L’Io vi è solo mediante la relazione con il tu: «alla domanda: “che cos’è l’uomo?”, saremo più vicini se impareremo a comprendere nell’uomo l’essere nel cui stato dialogico, nel cui reciproco attuale essere due, si realizza e si riconosce ogni volta l’incontro dell’uno con l’altro» scrive Martin Buber (1878-1965) ne Il problema dell’uomo. Alla luce di quanto detto l’esempio più genuino di buon erede sembra essere Telemaco figlio di Ulisse, capace di viaggiare in cerca di quell’eredità che ha perduto e che intende riconquistare, un’eredità che porta il nome di suo padre, Odisseo. È sempre come orfani che si può ereditare nel modo giusto.

Il movimento ereditario si snoda in un equilibrio sottile fra perdizione e ritrovamento, fra oscurità e luce. Tuffarsi nel passato non per rimanervi invischiati ma per riemergervi con forza nuova. Scrive ancora Recalcati con una felice sintesi «l’essere figli senza padri», intendendo con questo essere eredi capaci di distinguersi dai padri. L’eredità rimarrà solo una pratica giuridica, un concetto, un richiamo a chi non c’è più se non la si trasforma in concretezza di vita attiva all’interno del proprio personale vissuto.

Nonostante quanto detto però, l’uomo d’oggi vive sempre all’interno di una inconsapevolezza dell’eredità. L’eredità non la si riconosce subito, ci vuole tempo. Tempo che a volte non si ha il coraggio di aspettare e rispettare. Tempo lungo che ci fa pensare di essere orfani ancor prima di aver riconosciuto il padre. È lo stesso tempo che ci consente di comprendere che siamo divenuti quello che già eravamo, ma per esserne consapevoli abbiamo dovuto viaggiare, morire e rinascere; abbiamo dovuto riconquistare quello che già possedevamo. Risulta illuminante quanto scrive il teologo Silvano Fausti (1940-2015): «a differenza di tutte le altre cose che sono ciò che sono, l’uomo in realtà è ciò che ancora non è, e diventa ciò verso cui tende. Di natura “eccentrico”, con il suo centro fuori di sé, è necessariamente viator, in cammino verso il suo “luogo naturale”», un luogo da conquistare e ri-conquistare.

La conquista dell’eredità rende tutti noi quel seme che prima dell’apocalittica morte del tutto ha dato speranza al mondo scegliendo di nascere, ancora una volta. 

 
di Luca Lanfranchi