Un tepore torpore dal quale non vorresti uscire. Cinque minuti ancora, per pietà. La fermata dell’autobus, vista Sempione, è il primo fotogramma di una scena di ordinaria tristezza: va in scena il lunedì del pendolare, uomini e donne da marciapiedi e banchine, colletti bianchi e bambini prodigio, ex talenti del giornalismo, precari da scrivania e frustrati del 110 e lode. L’arietta gelida dell’inverno sale dai piedi, s’infila dentro i pantaloni e sale su, fino allo stomaco che, per grazia ricevuta, è ancora vuoto perché alle 6,30 del lunedì mancano la forze anche per il breakfast: l’esperienza insegna a prendere ogni tipo di precauzione contro il terrorismo intestinale, per il bene proprio e degli altri. I brividi spazzano via le ultime tracce di una notte che è sempre troppo breve, ma con l’intima speranza che il viaggio a bordo del torpedone possa in qualche modo prolungare almeno il dormiveglia: il corpo implora un’Autolaghi intasata, ovvero un viaggio interminabile sprofondato in un sedile del pullman, ma la mente è già in un breafing autogeno, ultima variante del training autogeno. Perché il pendolare del ventunesimo secolo è l’ultimo anello dell’evoluzione della specie, un animale di provincia innestato per taléa al polmone marcio della città, la grande Milano, che, vista da piazza Duomo, può ancora stimolare l’orgoglio padano, ma vissuta nelle periferie somiglia a una pentola di zuppa di cavolo troppo piena, lasciata sul fornello in ebollizione: destinata a sbrodolare e spandere puzza ovunque.
Già, la puzza: dopo un fine settimana in provincia, è il primo ceffone che offre la metropoli, ma del fetore ci si accorge soltanto il lunedì, poiché, dal martedì in poi, le narici non sono più in grado di avvertirla e anche il pendolare diventa parte di questa grande puzza. Tre milioni di abitanti attendono l’invasione. Ogni giorno a Milano si sommano ai residenti circa 630mila lavoratori che arrivano in macchina, oltre 80mila in treno, più 28 mila turisti, 8mila tra pazienti provenienti da fuori città in cura presso gli ospedali e i loro accompagnatori. Bisogna poi aggiungere oltre 50mila universitari fuori sede non registrati come milanesi all’anagrafe. Più tutti gli altri, mendicanti, clandestini, uomini invisibili, puttane, fantasmi. Uomini e mezzi, ognuno con il proprio odore che va a formare, appunto, la grande puzza.
Fermata viale Certosa, vista Cimitero Maggiore. Si scende. Perché non sei abbastanza “in” per fare il giornalista nei salotti del centro, troppo grezzo per entrare in redazione alle due del pomeriggio. I reporter di provincia, come topi di campagna, cominciano all’alba, scaricati su marciapiedi già occupati dai magùtt che entrano nei cantieri, mentre i viados voltano l’angolo barcollando. Il film è lo stesso per tutti, la trama cambia per ognuno e, come in un musical di Broadway, si cambia lo scenario. Vanno in scena gli attori del giorno, quelli della notte scemano dietro le quinte. I teatranti s’incrociano appena, davanti al bancone di un bar che sforna caffè, indifferenza e bestemmie sull’Inter e sul Milan. Tazzina bollente e croissant, macchie di colore su un tavolino riempito di carta dei quotidiani, per masticare notizie e caffeina. La borsa va giù, Wall street si sgretola, mentre un giovane rumeno sventola un gratta & vinci: «Tu spiega me come io vinco», s’incazza con la barista. Un bancario lì seduto lo guarda e si dà una risposta: «Ne dia uno anche a me». Tell me why, i dont’like Monday…