Questo non è formaggio della mia dispensa… è un bel racconto del mio grande amico Gino Cervi, innamorato di sport, ma non inteso come attività esasperata dal denaro e dal doping. Sport inteso come scuola di vita e d’ispirazione narrativa. E con questo racconto, ci ricorda una “vecchia” storia accaduta un po’ di anni fa…
Il professor Smith guarda sconsolato Douglas che sale con fatica le scale. I suoi diciott’anni si portano addosso almeno un quintale di ciccia. I pantaloni calati bassi a mezzo culo e in testa un cappellino rosso da baseball di traverso. Sbuffa sugli scalini come fossero appigli di un’arrampicata di sesto grado. Uno sforzo enorme: però, salendo e ansimando, non smette mai di infilare la mano nel sacchetto di patatine per poi portarsela alla bocca. Un gradino, una chips, un gradino, due chips.
Il professor Smith lo sta aspettando davanti alla porta del suo studio, al secondo piano del building 4 del Santa Monica College. Lo guarda arrivare e scrolla il capo. Se la sarebbe immaginata diversa la sua America, quarant’anni e passa fa.
Il professor Smith è al suo ultimo anno di insegnamento al Santa Monica College. Ne sono passati ventisette da quando ci arrivò per la prima volta. Una vita fa. Ne ha visti di studenti, non solo in classe e in biblioteca, ma anche al campo sportivo, sulla pista di atletica.
Il professor Smith insegna sociologia dello sport. Ma è un prof un po’ speciale. Diciamo che la sua materia non l’ha imparata proprio solo sui libri. Sta aspettando Douglas per il primo incontro di preparazione per la tesina di metà anno. Douglas, anzi Hot Doug, come lo chiamano i compagni, per la sua irrefrenabile passione per il fast food, è un tipo sveglio. La lentezza e l’impaccio con cui affronta le scale, e qualsiasi altra attività fisica, non gli rendono giustizia. Se il suo corpo sbuffa a scavalcare anche un gradino, la sua testa corre veloce come un centometrista. Il professor Smith se n’è accorto fin dalle prime lezioni. Doug capisce tutto al volo, non gli scappa mai nulla e sa sempre rispondere a tono, spesso in modo divertente, a volte fin troppo sfacciato.
«Eccomi, prof! Com’è?»
«Come com’è? Non avevamo appuntamento alle undici? Sono le undici e mezza!»
«Eh prof, mi scusi. Dovevo terminare la mia sessione mattutina di addominali… Sa com’è, ci tengo alla forma…»
«Certo, si vede! Le chips sono il tuo integratore, eh?»
«Le chips? Quali chips?» risponde Doug passandosi le dita unte sul di dietro dei bragoni neri.
«Lascia perdere, Doug. Basta scherzare. Entra.»
Lo studio del professor Smith è pieno di libri. Dietro la scrivania, appesa al muro c’è una foto incorniciata. È l’unica in tutta la stanza. È una foto di una premiazione. Ci sono due atleti di colore, hanno indosso la tuta USA. Entrambi a testa china, alzano il pugno, un pugno guantato di nero: quello sul gradino più basso, il sinistro; il destro, quello sul gradino più alto del podio, il vincitore. Tutti e due sono scalzi.
Una foto vista mille volte. Ma Doug la guarda come se la vedesse per la prima volta.
«Bella, prof, quella foto! Chissà perché ma mi sembra di averla già vista. Ma che stanno facendo quei due?»
Il professor Smith guarda Doug da sopra gli occhiali. Possibile che non sappia? Possibile.
«Premiazione dei 200 m alle Olimpiadi di Città del Messico. Era il 16 ottobre del 1968.”
«Sì, ho capito. Ma perché stanno così? Perché fanno il pugno e hanno un guanto nero? E sono a piedi nudi?»
«Perché protestano.»
«Protestano? Hanno vinto, perché protestano?»
«Doug, apri bene le orecchie. Non c’entra aver vinto o perso. Anzi, il fatto che avessero vinto e che tutto il mondo li stesse vedendo, lì, sul podio, era proprio la migliore occasione per far sapere come la pensavano.»
«Come la pensavano su cosa?»
«Doug, ne abbiamo parlato qualche settimana fa, a lezione, ricordi? 1968. La lotta per i diritti civili, contro la discriminazione razziale, contro la guerra in Vietnam. Le rivolte degli studenti nelle università, Berkeley, Parigi. Dopo di allora, il mondo non sarebbe stato più come prima …»
«Sì, ma che c’entra: questi stanno correndo alle Olimpiadi…»
«Certo. E correvano pure forte. Pensa che nelle semifinali avevano tutti e due migliorato il record dei giochi. E che in finale, quello che poi vinse, lo vedi quello col numero 307, fece il record del mondo, primo atleta a scendere sotto i 20 secondi nei 200 m: 19 secondi e 83 centesimi. Dopo di lui, ci sarebbero voluti anni per fare di meglio… Perché le gambe da sole non bastano, ci vuole la testa. Tu dovresti saperlo, mi pare…»
«Sì, sì, le gambe, la testa… Però continuo a non capire. Quelli fanno i record del mondo, vincono le medaglie e invece di festeggiare e cantare l’inno, se ne stanno lì incazzati, a piedi nudi e col pugno nel guanto nero…»
«Ehi Doug, guardali bene. Quei due incazzati sono due afroamericani. Come te, come me. Fermati e pensa. Forse oggi immaginare un presidente degli Stati Uniti afroamericano non è più un sogno, anzi sono sicuro che tra pochi anni succederà davvero. Ma immagina cosa fosse nel 1968. Pensa che soltanto sei mesi prima che quei due vincessero le Olimpiadi, a Memphis, avevano ammazzato Martin Luther King…»
«Sì, ma il guanto, il pugno, i piedi nudi…»
«Volevano attirare l’attenzione di milioni di persone sul fatto che per una volta gli Stati Uniti non avrebbero potuto mostrare a tutto il mondo la bravura dei loro campioni afroamericani, come se fosse la bandiera a stelle e strisce, mentre l’indomani tutto sarebbe continuato come prima: coi fratelli neri che continuavano a essere discriminati e trattati come cittadini di serie B. E sai, Doug: qui due ci riuscirono. Quei loro pugni alzati divennero un simbolo, come il volto di Che Guevara, che avevano fatto fuori giusto un anno prima… Certo, non fu facile farlo e ne pagarono le conseguenze…»
«E cioè?»
«Vennero immediatamente espulsi dai Giochi Olimpici. Il presidente del Comitato Olimpico, sir Avery Brundage era un vecchio arnese che era ancora convinto che lo sport fosse un ancora soltanto una specie di esercizio militare, di disciplina: più veloce, più alto, più forte . Avery dichiarò che quei due avevano infangato il sacro significato delle Olimpiadi. Già: perché secondo quello lo sport non doveva avere nulla a che fare con la politica… Anche la Federazione statunitense li squalificò e non disconobbe il loro successo. La carriera sportiva di entrambi finì in quello stesso istante, proprio nel momento in cui decisero di alzare il pugno al cielo, e di abbassare lo sguardo, invece di fissare ispirati e commossi lo sventolare della bandiera americana… »
«Ehi, però, ci voleva del fegato… E poi, come andò a finire?»
«Finì che si trovarono da soli. Molti li presero di mira, con pubblici insulti, addirittura con minacce. Altri si dimenticarono di loro, e fecero come se non esistessero più. Non furono molti quelli che dimostrarono la loro solidarietà. Perché il mondo dello sport non era ancora pronto per accogliere le libere scelte di pensiero dei suoi campioni. Ricorda, che in quegli stessi anni anche il grande Muhammad Alì venne arrestato, processato, e poi squalificato dall’attività per quattro anni per aver rifiutato la chiamata alle armi per andare a combattere in Vietnam. “Io non ho nulla contro i viet-cong: nessuno di loro mi ha mai chiamato negro!” diceva Alì, con i suoi occhi stralunati e la parola più veloce di un rapper.»
«Vero. Ricordo di aver visto un video in cui diceva “Ieri sera ero così veloce che mi sono alzato dal letto, ho attraversato la stanza, ho girato l’interruttore e sono tornato sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta”. Grandioso! Neanche Snoop Dogg saprebbe fare di meglio…”
«Ok, ora basta Doug. Parliamo della tesi che devi preparare per fine mese… Cosa mi dici?»
«Le dico che questo è un bell’argomento, no? I campioni dello sport e la società in cui vivono. Che dice prof? Potrei cominciare da qui, anzi da quei due lì, a piedi nudi e col pugno e il guanto alzato al cielo…»
«Perché no, Doug! Mi sembra una buona idea… Vediamoci nel pomeriggio e cominciamo col preparare una bibliografia. Ci vediamo alle 4 in biblioteca. Mi raccomando: puntuale, stavolta.»
«Ci conti, prof! Ci sarò! Ehi, ma è mezzogiorno passato: mi sembrava che il mio stomaco volesse dirmi qualcosa… Buon appetito, prof! Ci vediamo più tardi.»
«Doug! Non sarebbe ora di smetterla con hamburger, ketchup e patatine?”
«Tranquillo prof! Sono a dieta… e ho perso mezzo etto in una settimana. È il mio record personale…» disse Doug alzandosi pesantemente dalla sedia e dirigendosi verso la porta. A proposito, prof: gran tempo quel 19 e 83. Complimenti! Peccato che abbia alzato le braccia dieci metri prima del filo di lana: avrebbe potuto fare nettamente meglio…”
Il professor Smith, senza levare il capo dal libro che aveva aperto, alzò lo sguardo da sopra gli occhiali e inquadrò Doug oltre la porta che lento si allontanava nel corridoio ondeggiando nelle sue braghe corte. Lo stava salutando alzando il pugno destro.
Questo è altri splendidi racconti li potete leggere su:
Gino Cervi, Storie a cinque cerchi. L’uomo molla e altri racconti, Editpress, 128 pagine, 16 euro
Davvero notevole. Confesso un po’ di commozione; ricordo bene quella foto, anche se è stata scattata 2 anni prima della mia nascita