Il professor Smith, la rivoluzione e il fast food

16 ottobre 1968

Questo non è formaggio della mia dispensa… è un bel racconto del mio grande amico Gino Cervi, innamorato di sport, ma non inteso come attività esasperata dal denaro e dal doping. Sport inteso come scuola di vita e d’ispirazione narrativa. E con questo racconto, ci ricorda una “vecchia” storia accaduta un po’ di anni fa…

Il professor Smith guarda sconsolato Douglas che sale con fatica le scale. I suoi diciott’anni si portano addosso almeno un quintale di ciccia. I pantaloni calati bassi a mezzo culo e in testa un cappellino rosso da baseball di traverso. Sbuffa sugli scalini come fossero appigli di un’arrampicata di sesto grado. Uno sforzo enorme: però, salendo e ansimando, non smette mai di infilare la mano nel sacchetto di patatine per poi portarsela alla bocca. Un gradino, una chips, un gradino, due chips.

Il professor Smith lo sta aspettando davanti alla porta del suo studio, al secondo piano del building 4 del Santa Monica College. Lo guarda arrivare e scrolla il capo. Se la sarebbe immaginata diversa la sua America, quarant’anni e passa fa.

Il professor Smith è al suo ultimo anno di insegnamento al Santa Monica College. Ne sono passati ventisette da quando ci arrivò per la prima volta. Una vita fa. Ne ha visti di studenti, non solo in classe e in biblioteca, ma anche al campo sportivo, sulla pista di atletica.

Il professor Smith insegna sociologia dello sport. Ma è un prof un po’ speciale. Diciamo che la sua materia non l’ha imparata proprio solo sui libri. Sta aspettando Douglas per il primo incontro di preparazione per la tesina di metà anno. Douglas, anzi Hot Doug, come lo chiamano i compagni, per la sua irrefrenabile passione per il fast food, è un tipo sveglio. La lentezza e l’impaccio con cui affronta le scale, e qualsiasi altra attività fisica, non gli rendono giustizia. Se il suo corpo sbuffa a scavalcare anche un gradino, la sua testa corre veloce come un centometrista. Il professor Smith se n’è accorto fin dalle prime lezioni. Doug capisce tutto al volo, non gli scappa mai nulla e sa sempre rispondere a tono, spesso in modo divertente, a volte fin troppo sfacciato.

«Eccomi, prof! Com’è?»

«Come com’è? Non avevamo appuntamento alle undici? Sono le undici e mezza!»

«Eh prof, mi scusi. Dovevo terminare la mia sessione mattutina di addominali… Sa com’è, ci tengo alla forma…»

«Certo, si vede! Le chips sono il tuo integratore, eh?»

«Le chips? Quali chips?» risponde Doug passandosi  le dita unte sul di dietro dei bragoni neri.

«Lascia perdere, Doug. Basta scherzare. Entra.»

Lo studio del professor Smith è pieno di libri. Dietro la scrivania, appesa al muro c’è una foto incorniciata. È l’unica in tutta la stanza. È una foto di una premiazione. Ci sono due atleti di colore, hanno indosso la tuta USA. Entrambi a testa china, alzano il pugno, un pugno guantato di nero: quello sul gradino più basso, il sinistro; il destro, quello sul gradino più alto del podio, il vincitore. Tutti e due sono scalzi.

Una foto vista mille volte. Ma Doug la guarda come se la vedesse per la prima volta.

«Bella, prof, quella foto! Chissà perché ma mi sembra di averla già vista. Ma che stanno facendo quei due?»

Il professor Smith guarda Doug da sopra gli occhiali. Possibile che non sappia? Possibile.

«Premiazione dei 200 m alle Olimpiadi di Città del Messico. Era il 16 ottobre del 1968.”

«Sì, ho capito. Ma perché stanno così? Perché fanno il pugno e hanno un guanto nero? E sono a piedi nudi?»

«Perché protestano.»

«Protestano? Hanno vinto, perché protestano?»

«Doug, apri bene le orecchie. Non c’entra aver vinto o perso. Anzi, il fatto che avessero vinto e che tutto il mondo li stesse vedendo, lì, sul podio, era proprio la migliore occasione per far sapere come la pensavano.»

«Come la pensavano su cosa?»

«Doug, ne abbiamo parlato qualche settimana fa, a lezione, ricordi? 1968. La lotta per i diritti civili, contro la discriminazione razziale, contro la guerra in Vietnam. Le rivolte degli studenti nelle università, Berkeley, Parigi. Dopo di allora, il mondo non sarebbe stato più come prima …»

«Sì, ma che c’entra: questi stanno correndo alle Olimpiadi…»

«Certo. E correvano pure forte. Pensa che nelle semifinali avevano tutti e due migliorato il record dei giochi. E che in finale, quello che poi vinse, lo vedi quello col numero 307, fece il record del mondo, primo atleta a scendere sotto i 20 secondi nei 200 m: 19 secondi e 83 centesimi. Dopo di lui, ci sarebbero voluti anni per fare di meglio… Perché le gambe da sole non bastano, ci vuole la testa. Tu dovresti saperlo, mi pare…»

«Sì, sì, le gambe, la testa… Però continuo a non capire. Quelli fanno i record del mondo, vincono le medaglie e invece di festeggiare e cantare l’inno, se ne stanno lì incazzati, a piedi nudi e col pugno nel guanto nero…»

«Ehi Doug, guardali bene. Quei due incazzati sono due afroamericani. Come te, come me. Fermati e pensa. Forse oggi immaginare un presidente degli Stati Uniti afroamericano non è più un sogno, anzi sono sicuro che tra pochi anni succederà davvero. Ma immagina cosa fosse nel 1968. Pensa che soltanto sei mesi prima che quei due vincessero le Olimpiadi, a Memphis, avevano ammazzato Martin Luther King…»

«Sì, ma il guanto, il pugno, i piedi nudi…»

«Volevano attirare l’attenzione di milioni di persone sul fatto che per una volta gli Stati Uniti non avrebbero potuto mostrare a tutto il mondo la bravura dei loro campioni afroamericani, come se fosse la bandiera a stelle e strisce, mentre l’indomani tutto sarebbe continuato come prima: coi fratelli neri che continuavano a essere discriminati e trattati come cittadini di serie B. E sai, Doug: qui due ci riuscirono. Quei loro pugni alzati divennero un simbolo, come il volto di Che Guevara, che avevano fatto fuori giusto un anno prima… Certo, non fu facile farlo e ne pagarono le conseguenze…»

«E cioè?»

«Vennero immediatamente espulsi dai Giochi Olimpici. Il presidente del Comitato Olimpico, sir Avery Brundage era un vecchio arnese che era ancora convinto che lo sport fosse un ancora soltanto una specie di esercizio militare, di disciplina: più veloce, più alto, più forte . Avery dichiarò che quei due avevano infangato il sacro significato delle Olimpiadi. Già: perché secondo quello lo sport non doveva avere nulla a che fare con la politica… Anche la Federazione statunitense li squalificò e non disconobbe il loro successo. La carriera sportiva di entrambi finì in quello stesso istante, proprio nel momento in cui decisero di alzare il pugno al cielo, e di abbassare lo sguardo, invece di fissare ispirati e commossi lo sventolare della bandiera americana… »

«Ehi, però, ci voleva del fegato… E poi, come andò a finire?»

«Finì che si trovarono da soli. Molti li presero di mira, con pubblici insulti, addirittura con minacce. Altri si dimenticarono di loro, e fecero come se non esistessero più. Non furono molti quelli che dimostrarono la loro solidarietà. Perché il mondo dello sport non era ancora pronto per accogliere le libere scelte di pensiero dei suoi campioni. Ricorda, che in quegli stessi anni anche il grande Muhammad Alì venne arrestato, processato, e poi squalificato dall’attività per quattro anni per aver rifiutato la chiamata alle armi per andare a combattere in Vietnam. “Io non ho nulla contro i viet-cong: nessuno di loro mi ha mai chiamato negro!” diceva Alì, con i suoi occhi stralunati e la parola più veloce di un rapper.»

«Vero. Ricordo di aver visto un video in cui diceva “Ieri sera ero così veloce che mi sono alzato dal letto, ho attraversato la stanza, ho girato l’interruttore e sono tornato sotto le coperte prima che la luce si fosse spenta”. Grandioso! Neanche Snoop Dogg saprebbe fare di meglio…”

«Ok, ora basta Doug. Parliamo della tesi che devi preparare per fine mese… Cosa mi dici?»

«Le dico che questo è un bell’argomento, no? I campioni dello sport e la società in cui vivono. Che dice prof? Potrei cominciare da qui, anzi da quei due lì, a piedi nudi e col pugno e il guanto alzato al cielo…»

«Perché no, Doug! Mi sembra una buona idea… Vediamoci nel pomeriggio e cominciamo col preparare una bibliografia. Ci vediamo alle 4 in biblioteca. Mi raccomando: puntuale, stavolta.»

«Ci conti, prof! Ci sarò! Ehi, ma è mezzogiorno passato: mi sembrava che il mio stomaco volesse dirmi qualcosa… Buon appetito, prof! Ci vediamo più tardi.»

«Doug! Non sarebbe ora di smetterla con hamburger, ketchup  e patatine?”

«Tranquillo prof! Sono a dieta… e ho perso mezzo etto in una settimana. È il mio record personale…» disse Doug alzandosi pesantemente dalla sedia e dirigendosi verso la porta. A proposito, prof: gran tempo quel  19 e 83. Complimenti! Peccato che abbia alzato le braccia dieci metri prima del filo di lana: avrebbe potuto fare nettamente meglio…”

Il professor Smith, senza levare il capo dal libro che aveva aperto, alzò lo sguardo da sopra gli occhiali e inquadrò Doug oltre la porta che lento si allontanava nel corridoio ondeggiando nelle sue braghe corte. Lo stava salutando alzando il pugno destro.

Questo è altri splendidi racconti li potete leggere su:

Gino Cervi, Storie a cinque cerchi. L’uomo molla e altri racconti, Editpress, 128 pagine, 16 euro

 

Un maestro di giornalismo al Tour de France

Lo sport si prepara all’Olimpiade, ma questi sono giorni di ciclismo. Giorni di Tour de France: ciclisti supertecnologici, squadre iper programmate, tutto sembra robotizzato. Tuttavia, la fatica non è molto diversa da quella di sempre. Certo, notarlo è più difficile.

Ci sono maestri, però, che non dovrebbero passare di moda. E, infatti, sono senza tempo, immortali. IN questi  giorni ho riscoperto un libro meraviglioso di Albert Londres, quello che può essere considerato i padre del moderno reportage e del giornalismo d’inchiesta. Un vero maestro, un mio maestro. Anch’egli, nel 1924 si misurò con il Tour de France: e lo raccontò alla sua maniera. Un romanzo, un’opera d’arte.

 

È successo dopo Le Ciotat. Huot guida il gruppo, finisce con la ruota in una rotaia e cade. Noi veniamo dopo di lui. Con un colpo di volante riusciamo a evitarlo. La polvere nasconde tutto alla vista a un metro di distanza. Una vettura che viene dietro di noi trascina Huot. Ecco l’accaduto.

Ed ecco la causa.

Ciò che è successo oggi, da Perpignan a Tolone, non è stata una corsa, ma un vero e proprio atto di follia popolare.

Cento chilometri prima di Tolone, il Midi aveva portato sulle strade tutti i suoi veicoli. All’inizio, in queste vetture, la gente esultava, danzava e lanciava grida. Poi tutti persero le proprie sembianze umane: quei pazzi parevano usciti da un sacco di farina.

Dopo trecento chilometri e la traversata della Crau a mezzogiorno, i corridori finirono in quella bolgia. UN peccato. Erano circondati, imbottigliati; con la rabbia in gola gridavano:

«Largo! Largo! Fate attenzione, per pietà!».

«È un assassinio!»

La folla urlava più forte. Una folla in abito della festa, in tute di tela blu e persino in mutande di lana. C’erano persone sui camion dei traslochi, nei furgoni commerciali, sui sidecar, con le biciclette e, se il momento fosse stato gioioso, diremmo che erano stati tirati fuori persino i vecchi cavalli meccanici…

Le corse sono un divertimento per il pubblico. Non bisogna comunque confonderle con una corrida.

I corridori non sono dei tori, non si deve cercare di metterli a morte alla fine dello spettacolo.

Il fatto strano è che l’incidente non è che arrivato alla settima tappa.

Ieri avevamo segnalato che uno stradista, viste alcune automobili che gli ostruivano la strada lungo una discesa, aveva urlato: «Banditi! Banditi!».

Huot, questa sera, non ha potuto che gemere, con il sangue alla bocca.

Albert Londres

Tour de France, Tour de souffrance

Excelsior 1881

Biciclette di carta, una poesia di Mario Luzi

Ripropongo un tema che avevo suggerito tempo fa, quello dello sport che ispira letteratura e vi segnalo che, proprio in provincia di Varese, vive uno tra i maggiori esperti in Italia. L’amico Alberto Brambilla, di Busto Arsizio, è un importante ricercatore universitario (in Francia e in Italia), e tra le sue numerose pubblicazioni vi sono anche diversi libri dedicati alla letteratura e lo sport. Tra questi, c’è un bel volume uscito qualche anno fa (2009) per Limina, dal titolo “Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo” nel quale il bravo Alberto sviluppa un’accurata ricerca dedicata ai maggiori poeti italiani che si sono ispirati, almeno in qualche componimento, alla bicicletta. E da questo volume, vorrei proporvi una poesia di Mario Luzi che parla di salite e montagne. Così, in tempi di Tour de France, magari qualcuno di voi, davanti alla tivù, chissà, potrebbe trarre qualche ispirazione poetica nel guardare i corridori faticare sulle grandi vette. Un modo “alto” per sfuggire alle notizie dell’attualità, sempre macchiate di mediocrità.

Il termine, la vetta

di quella scoscesa serpentina

ecco, si approssimava,

ormai era vicina,

ne davano un chiaro avvertimento

i magri rimasugli

di una tappa pellegrina

su alla celestiale cima.

 

Poco sopra

alla vista

che spazio si sarebbe aperto

dal culmine raggiunto…

immaginarlo

già era beatitudine

concessa

più che al suo desiderio al suo tormento.

Sì, l’immensità, la luce

ma quiete vera ci sarebbe stata?

Lì avrebbe la sua impresa

avuto il luminoso assolvimento

 da se stessa nella trasparente spera

o nasceva una nuova impossibile scalata…

Questo temeva, questo desiderava.

 

Questa poesia s’intitola Il termine, la vetta, ed è contenuta nella raccolta di Mario Luzi del 2009, dal titolo Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime

Quando il calcio è da romanzo

«Damiano Tommasi, l’attuale presidente dell’Associazione Italiana Calciatori, è stato il primo italiano a giocare nel campionato professionistico cinese. Lo dice anche Wikipedia. Ma non è vero. Ad anticiparlo, di qualche anno tra l’altro, è stato Arnold Schwellensattl da Merano. Uno che nel gigantesco Paese asiatico ha rischiato la vita, due volte. Prima quando è finito in ospedale per una ginocchiata al fegato, poi quando i dirigenti del suo club, il Chongqing Lifan, gli hanno comunicato che non gli avrebbero più garantito l’incolumità. Volevano ingaggiare un altro straniero al suo posto. Un serbo, non Tommasi….».

Mauro Corno parla sempre volentieri dell’altro calcio, anche se è un gigante che non stonerebbe in un quintetto base di una squadra di basket: fisico da cestista per uno tra i più sensibili giornalisti di calcio italiani. No, lasciate pardere le mille tribune sportive delle tv locali e nazionali: questo cronista brianzolo non è il tipo che troverete ogni sera a sbraitare in diretta tv a proposito di calciomercato e gossip.

Mauro Corno si è invece ritagliato una spazio tutto suo, è tra gli ultimi “romantici” di uno sport che vive sempre più di vanità e aria fritta. Ha scritto un libro con dentro decine di storie di un altro calcio: e ogni storia potrebbe essere una valida trama per un romanzo. Emigranti del pallone, sconosciuti o quasi, avventurieri che sembrano di un altro pianeta, se paragonati alle primedonne del campionato italiano.

Ora vi sorprendo: come è bello il calcio quando ritorna povero ed essenziale! Ecco accontentato, dunque, chi mi credeva allergico al pallone.  Quando lo sport s’intreccia con le storie di vita, anche i calciatori possono evocare poesia.

Qual è il vostro campione da romanzo?

Ah, mi raccomando, vi consiglio il libro di Mauro:  

Mauro Corno

Ai confini dell’impero. Storie di emigrazione del calcio italiano

Sedizioni, 126 pagine, 11 euro

Lo sport moderno può ispirare letteratura?

Em Bycicleta: tra calcio e ciclismo, con tutto il resto dello sport nel mezzo. Si tratta di un presidio di fabulazione sportiva nato in un’osteria di Lodi, nel dicembre del 2003. È un nome collettivo che raccoglie “sognatori e balenghi” uniti in un’idea di sport diversa da quella proposta dallo show-business. Sport come metafora di vita, fonte di “favole”, nutrimento dei brevi sogni dei poveri che siamo stati, ora che il rischio è di diventare miserabili di mente e di cuore.

Si presentano più o meno così, i ragazzi di “Quasi rete”, il blog letterario della Gazzetta: già, perché a guardare lo sport di oggi, c’è ancora qualche sognatore che si sforza di vedere poesia. Li ringrazio per questo, perché mi ricordano che, in fondo, nel fare il cronista si hanno privilegi che molti romanzieri non avranno mai. Per vedere la poesia, la letteratura nello sport, bisogna soltanto avere molta pazienza, “disobbedire” almeno per un po’ ai capi delle redazioni e tornare un po’ bambini, o un po’ scrittori: trovare spunti letterari nello sport moderno non è difficile, basterebbe meno presunzione.

Gli eroi tragici del ciclismo, per esempio, potrebbero sembrare a molti soltanto miti di un passato in bianco e nero, gente che non appartiene a questo mondo: eppure non è così, occorre, tuttavia, avere l’umiltà di fermarsi e osservare, non avere fretta di dire, di sapere, ma rimanere a guardare in silenzio, rimanere ad ascoltare e a osservare ogni dettaglio, ogni sfumatura. E così, anche il rockettaro Tyler Farrar (nella foto), sprinter americano, che sgomita a settanta all’ora in sella a una bici da sei chili è profondamente letterario. Farrar, emblema del ciclismo moderno, con la cresta sotto il casco e il chewing gum, l’i-phone sempre in mano e i Green day che gli martellano i timpani dalle cuffie che ha nelle orecchie: che ci potresti scrivere con uno così? Eppure lo vorresti in un romanzo, Farrar, quello che non sei mai stato capace di scrivere: perché l’hai visto piangere in silenzio, ancora la scorsa settimana, otto mesi dopo la tragedia, quando l’amico, Wouter Weylandt, ciclista belga, si schiantò sull’asfalto giù da un valico appenninico ligure. Al Giro d’Italia. E lui, Farrar, era là, poco più avanti, che pedalava in apparente incoscienza, mentre l’amico moriva in diretta tv. Ora quel Farrar dice: «Se vuoi fare il ciclista, devi sforzarti di non pensare, perché per tornare a fare una volata a settanta all’ora non devi avere paura, non puoi pensare». Dice così, il ciclista, ma mente e sa di mentire: perché la bici, il ciclismo, ti costringe a pensare. Non è la formula uno. E tu che stai lì accanto, lo vedi pedalare e sudare, vincere e perdere, devi soltanto fermarti e riflettere: e dentro al dramma di un Tyler Farrar finisci per vedere un eroe da tragedia greca, o un’invenzione di Shakespeare.

Tuttavia, non è tutto dramma, c’è anche tanta comicità. Leggetevi questo spassosissimo racconto su Juventus-Udinese e scoprirete quanta letteratura potrebbe fiorire in uno stadio moderno:

http://quasirete.gazzetta.it/2012/01/30/il-posticipo-_-juventus-udinese-sodomie-11-contro-11/

C’è un campione dello sport attuale che vedreste come eroe/protagonista di un romanzo? Oppure esiste una disciplina sportiva che considerate ancora oggi poetica e letteraria? Dai, dopo avervi fatto arrabbiare per Camilleri (che continuo a non sopportare), queste sono domande in segno di pace…