L’ispirazione, croce e delizia di migliaia di presunti artisti, compresi i topi narratori, quelli che rosicchiano storie negli angoli più polverosi e meno frequentati delle case. C’è chi vive nell’illusione di essere il prescelto, l’illuminato dal sacro fuoco e si produce in continui sforzi di scrittura, come in una forma di bulimìa narrativa. Altri, invece, sono come minatori, impegnati in una paziente ricerca del filone giusto, piccole rughe nella roccia da poter seguire e poi scavare: io appartengo a questa categoria di narratori. Sarà che, in quanto topo, ho più caratteristiche in comune con i minatori, ma è evidente che i miei silenzi dipendono da quello: la ricerca di un filone giusto. Con troppi pensieri a confondere le idee, il filone non si trova e anziché in miniera, sembra di camminare in una galleria di Roncobilaccio: i devoti dell’ispirazione vivono nell’apprensione di essere abbandonati. Tuttavia, prima o poi, capita a tutti: il vuoto, o meglio, il silenzio totale dell’ispirazione. Ed è il panico: ma come?! Uno scrittore, senza ispirazione, è come un koala senza foglie di eucalipto. Il vuoto è inesorabile e incombe su tutti, compresi quelli che per scongiurarlo si ripetono continuamente, dalla mattina la sera, di essere scrittori: come una sorta di training autogeno, come se bastasse alzarsi ogni mattina e sentirsi come Dumas…
Conviene, per esperienza, fermarsi e aspettare. Posare la penna e accostarsi alla vita come una persona normale: il mondo si può anche permettere di avere tanti Dumas impiegati di banca, migliaia di Jane Austen casalinghe e molti altri anonimi poeti che, ogni mattina, salgono sui treni e vanno al lavoro in città. E quando ritornerà? Tutto dipende non dai treni che uno prende, ma da con quale spirito ci salga. Io sono fermo al quinto capitolo del mio romanzo: da un anno. Dodici mesi, nei quali gli scrittori “veri” hanno riempito pagine e pagine, dato alle stampe chili e chili di carta: Vitali non si ferma mai, quel lago di Como è un continuo intreccio di piccoli misteri, Camilleri pare un a fonderia a ciclo continuo, con quella Sicilia tutta delitti. E a scendere, nella graduatoria delle hit parade, un gruppo immenso di piccoli Dumas. E io, topo narratore, dentro la miniera senza filoni buoni. Fermo al quinto capitolo: ma dopo un anno, tutt’altro che facile. Piano piano, il vuoto si colma: basta fermarsi e inseguire la voglia di ripartire.
Il pensiero di una nuova frontiera, o di una terra vergine tutta da scoprire, o di un’avventura tutta da vivere: insomma, la sensazione liberatoria che regala il voltare pagina, non ha eguali per chi scrive e legge, o legge e scrive. Niente panico, l’ispirazione arriverà. Ma arriverà? E se non arriverà?
Sembra così lontana, Milano, per queste cronache sempre più rintanate in un buco di provincia: eppure non è così. Ci ha pensato, ancora una volta, la mia piccola Anna a ricordarmelo: “Ma tu che a Milano ci vai spesso, quasi tutti i giorni, come fanno laggiù, le bambine come me a imparare ad andare in bicicletta? Come si fa a imparare ad andare in bici, se ci sono tutte quelle macchine, tutto quello smog, tutta quella gente che ha sempre fretta? Perché vorrei fare un disegno su questo, ma non saprei come”.
Geniale. Basta guardarlo, il mondo, e non attraversarlo tutte le volte, giorno dopo giorno, senza voler vedere.
Un giorno una grande fotografa che ora non c’é piú, Sebastiana Papa, mi disse che era stata chiamata a fotografare una fiera di paese. Era imperativo per lei andare ma non sapeva cosa poteva trovarci di bello, in quel paese. Facile ritrarre Israele, l’India. .. ma lí? Eppure andó e trovó la gente. E quel libro fotografico é meraviglioso…
Bella, la tua Anna. Sono sicura che anche a Milano si impara ad andare in bicicletta.