Alle sedici e un quarto vedo in lontananza il cartello che indica Trieste. Lo raggiungo e mi fermo. Lo fotografo e resto lì, in mezzo alla strada come uno scemo rischiando di farmi prendere sotto da qualche auto.
Sono passati trenta giorni esatti dalla partenza da Ventimiglia. Quattromila seicento chilometri, che fanno più o meno centocinquanta al dì. Sapevo dall’inizio che non contava la meta, ma le emozioni che giorno dopo giorno avrei incontrato e provato a raccontare. Eppure, di fronte a quel cartello, questa certezza per un momento ha vacillato.
Non potevo immaginare come sarebbe andata. Ero partito spoglio da qualsiasi tesi precostituita, proprio per provare a capire, conoscere, riflettere attraverso l’incontro con i luoghi, le persone, le storie e le memorie. Il viaggio è stato straordinario e ora sono alla meta.
Trieste si presenta subito in tutta la sua bellezza. Mi sono fermato ad ascoltare il flusso delle emozioni su una panchina lungo il sentiero che porta al castello di Miramare. Tanta gente a prendere il sole e in pochi minuti ho sentito lingue diverse.
Da lontano si vede subito il grande porto. È particolare anche in questo Trieste. Dei porti classici ha poco: niente navi e impianti industriali in vista, niente centro storico zozzo e scrostato come ho visto a Genova e a Napoli. È una città colta, austera, elegante, d’una eleganza d’altri tempi, asburgica. E pazienza se è anche una città un bel po’ anziana, anzi tra le più anziane d’Italia. È una città ricca, ma non sguaiata. E la sua eleganza si può persino dire democratica: i caffè liberty sono frequentati da tutti, i ragazzini un po’ tamarri e le due amiche sudamericane sono a loro agio a fianco delle signore con abiti griffati che leggono il “Piccolo” (ma di giornali da leggere ce ne sono sempre una mezza dozzina almeno in ogni luogo pubblico).
I locali sono forieri di incontri, e così in uno dei più noti, nato due secoli fa, mi imbatto nell’entusiasmo degli istruttori di mini basket provenienti da mezza Italia. Indossano una maglietta color fucsia, o giù di lì, con su scritto “Vin crucis 2010”. Sulle spalle l’elenco dei locali che li accolgono. Cantano quasi fossero un vero coro. Intonano canzoni di vario genere e la gente li fotografa, li filma. «Sono diciassette anni che veniamo qui, – mi racconta Gianfranco di Varese – e ormai è una tradizione nel giorno della finalissima andare tutti insieme per osterie». Ecco, se cercavo un’immagine che desse il senso della capacità di accoglienza, di fratellanza, di confronto, che la città sa offrire, questa ventina di buontemponi di ogni età, mi è venuta in aiuto.
Guai a chiamare friulana Trieste. «Noi siamo giuliani, con un po’ di sangue blu», mi dice Paolo Degrassi che è nato ed è vissuto qui fino a ventitre anni. Poi ha scelto la divisa e oggi è comandante di una stazione dei carabinieri in Lombardia. «Trieste è unica. Coniuga il bello dell’Italia con la cultura e l’architettura Mitteleuropea. Somiglia a Budapest eVienna e chi ci vive è giovale».
Trieste è anche una città di frontiera, di confine, crocevia tra culture. Mondo latino, mondo tedesco, mondo slavo. Una città che per un secolo e mezzo, prima che arrivassero i nazionalisti a fare a pezzi tutto, godeva di grandissima tolleranza. Così, con queste emozioni già forti, lo choc che si prova entrando nella Risiera di San Sabba è enorme. Un groppo alla gola che ti strozza. Qui siamo nel cuore della Mitteleuropa e non te l’aspetti.
Il cielo e il vento sono un altro elemento che distingue Trieste da ogni luogo incontrato. In un attimo cambia tutto, passando dal sole ai temporali, e di nuovo al sole con veri sbalzi di temperature.
Per quanto straordinaria questa città, però ha ragione Michele Serra, «sono solo uno dei milioni di passanti che a Trieste vuole assolutamente tornare, e tanto basta». Così chiudo questo fantastico viaggio a Muggia, paesino di pescatori a una manciata di chilometri dalla Slovenia. È un gioiello, e mi godo un altro tramonto che sarà difficile da dimenticare.
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