Nebbia è tornato

Irina dorme, l’inverno l’ha portata via con sé. Intanto, la città si riaccende. Dai forni delle panetterie esce un profumo antico, mentre i bar si riempiono di fagotti umani in cerca di un caffè. Altro che fitness, gli autisti hanno la loro bella ginnastica, nel grattare sui parabrezza congelati: bisogna ripartire, la giornata ricomincia con un raschietto in mano, mentre là in fondo, dietro il distributore di benzina, Irina continua a dormire, dentro a un cartone.
Anche il circo è tornato in città, come un rito fuori moda, ostinazione dei romantici: nascosto tra gli ultimi sognatori, condividendo un pezzo di vita con una trapezista, un piatto di minestra con un domatore, un pacchetto di sigarette con un fachiro pachistano, Nebbia rivede Milano dal predellino di una roulotte. Nomade per amore, se ne partì in treno, ritorna come uno zingaro: era la sua città, quella, ma da zingaro ora sa che non è bene accetto. Perché un uomo senza dimora sfugge a ogni regola e a tutte le convenzioni: Nebbia ha fatto la sua scelta, ora la gente non saprà più quale marchio attribuirgli e avrà paura di lui. In fondo, spera che qualcuno si ricorderà ancora delle sue risate sporcate di fumo: “Certo, ci sarà ancora qualcuno che non avrà dimenticato”, dice tra sé, mentre la sua sigaretta si consuma fuori da un tendone buio, ancora addormentato, dopo lo spettacolo della sera prima.
Stelle appese ai palazzi, sopra le strade, non cambiano un granché di questa Milano che, dall’energia che sta sprigionando, sembra avere miliardi di cose da fare, tutte più serie di ciò che farà lui, oggi, mentre alzerà lo sguardo verso i grattacieli tirati su dalle gru, oltre le luci del Natale. Tante parole, troppe, per una festa… «Va a finire che, anche quest’anno, tutti guarderanno il dito e non la luna, ma chissenefrega». Nebbia è tornato e presto darà fastidio a qualcuno: «Perché è sempre meglio che diventare invisibile» Anche a Milano arriverà Natale, ma tutte quelle luci, forse, non basteranno per illuminare milioni d’invisibili.
Intanto Irina dorme dentro un cartone e non si sveglierà più. Non dava fastidio a nessuno, ma presto, anche solo per un minuto, non sarà più invisibile.

“Mio Dio! Un intero minuto di beatudine! È forse poco, sia pure in una intera vita umana?”

Hotel stazione

Sono le 23 e Zoran guarda su, dal parcheggio verso i binari e la stazione. C’è l’ultimo treno che scarica tre sagome imbacuccate, raggiungono le rispettive auto ghiacciate sotto il lampione, all’uscita del sottopassaggio. Motori accesi per qualche minuto, quanto basta per sbrinare il parabrezza. E se ne vanno. L’ondata dei pendolari è finita, anche oggi.
Si torna a udire solo il vento, gelido, che trasporta fiocchi di neve. Zoran, allora, accende il fuoco: rami trovati nel boschetto lì vicino e ammucchiati in un angolo del parcheggio deserto. Si scalda le mani piene di calli, gonfie di freddo e lavoro, dopo una giornata passata in cantiere, a fare il cemento. A fargli compagnia, a profumare l’aria, anche una salsiccia, che cuoce su quello stesso fuoco, e un po’ di caffè solubile e fumante. L’ora di cena dura il tempo di far diventare brace quella poca legna: Zoran la raccoglie, poi, in una vecchia scatola di metallo, come quelle che le nonne utilizzavano per i biscotti. E la mette in auto, una vecchia Skoda, dove s’infila pure lui, velocemente. La brace diventa scaldino, in quella notte severa, sì, ma non quanto quelle a cui era abituato negli inverni in Ucraina. Zoran vi appoggia i piedi e intanto accende il motore: deve razionare il carburante, per farlo durare tutta la settimana. Ha calcolato che il riscaldamento può permetterselo per venti minuti circa, ogni sera, così non rimane a secco. Tra maglioni e vecchie coperte, abbassa il sedile e si appresta a sognare, in fondo a un parcheggio.
Un istante più tardi, due occhi illuminati, in fondo alla strada, si avvicinano sempre più: Zoran apre appena gli occhi, ma non ha paura, è una scena alla quale è abituato. Sa che in quell’auto c’è Tonio: spegne il motore sul lato opposto dello spiazzo, alza la mano per salutare, e si mette a dormire pure lui, in un sacco a pelo. La sua famiglia è andata in crisi, a casa non ci può più stare e l’unico albergo che si può permettere è quello accanto a Zoran, con vista sul binario tre. Domani tornerà in ufficio, sarà il primo a salire sul treno delle sei e quarantatré.

Zorro e una “benedetta” scarpa made in India

Zorro, pendolare che sogna. Ha la mascherina per non vedere, per non rassegnarsi allo spazio stretto e deprimente di una carrozza, per darsi una speranza nel sonno. All’alba è il primo a salire sul treno, quando la stazione è ancora sovrastata dalla luna che tramonta: scatto felino per il posto migliore, quello non troppo vicino alle porte, lontano dagli scocciatori che, sul locale del mattino, di solito hanno le sembianze di segretarie affrante e in acido con le suocere, pettegole interregionali, turisti al primo giorno di ferie, nonni con bambini fuori orario e pertanto in euforia molesta. Tutta gente che, insomma, non ha motivi per tacere e parla, blatera, irrita, emette suoni di ogni tipo: umanità che non apprezza il valore di un’ora di sonno.
Zorro, invece, si affida a quella mascherina sgraffignata all’Alitalia durante un viaggio aereo aziendale, roba di molti anni fa. Si siede e si nasconde sotto quella pezza sintetica, nera: e lì dietro immagina spazi di un’altra realtà. Ma a ogni fermata, in viaggio per Milano, c’è sempre qualche scocciatore che osa violare quella sua dimensione onirica. Il lunedì mattina, poi, tiene banco il campionato: e non c’è carrozza che non abbia un angolo di opinionisti sul 4-4-3 e su Benitez.
Zorro si spazientisce, prova a farsi valere, non con la spada, ma a colpi di “ssssst”. Niente da fare. Passa, allora, alla sbuffata energica, alla mimica facciale, alla mimica corporale. Infine, gesto estremo, emette un “basta, silenzio!”. Così temibile da ottenere una risata.
Alternative? Tappi nelle orecchie o i-pod acceso su un concerto di Vivaldi. Zorro sceglie i tappi: e la musica ha deciso di sognarsela. Più economico, di questi tempi. La riconquista della fase rem non è più un miraggio: fermata dopo fermata, lo stridìo dei freni e la ripartenza si fanno sempre più ovattati. Busto, Legnano, Canegrate, Parabiago, fermate sbiadite, come viste da una nuvola. Fino a immergersi in un altro mondo: un ufficio con vista spiaggia, palme e pappagalli ai lati, poltrona ergonomica e massaggiante, assistenti e colleghe in bikini, capufficio dalle sembianze di Pamela Anderson, caipiriña servita alla scrivania, olio di cocco da spalmare contro lo stress da precariato, sindacalisti con l’ukulele, braccialetto all-inclusive per il servizio mensa rigorosamente vista mare, corso di balli caraibici retribuiti come aggiornamenti professionali. Peccato soltanto per quella strana sensazione sotto il piede destro: come se, in tutto quel “lavorare”, avesse lasciato il piede troppo tempo sulla sabbia calda.
«Capolinea!». Anche i tappi lasciano filtrare la voce della realtà. Pronti, via: non c’è tempo da perdere se si vuol saltare al volo sul metrò e timbrare in orario, su, al quinto piano di un palazzo del centro. Zorro ha già riposto la mascherina nella valigetta e, come un don Diego qualsiasi, si appresta allo scatto giù, sul marciapiede, quando… «La scarpa! Sabotaggio». Come l’effetto cicca bomba sull’asfalto in un giorno di luglio, la suola mollemente si affloscia tristemente sullo zoccolino laterale della carrozza, quello del riscaldamento: rovente, come il nocciolo di un reattore nucleare. Il mistero dei vecchi treni è in quegli zoccolini laterali, capaci di sopportare temperature da alto forno, in grado di trasformare un vagone in una sauna. Mezza suola rimane lì, il resto si prende libertà impensabili e impreviste, modellando una triste scarpa made in India, come una canoa. Zorro è un uomo senza più rincorsa, con il metrò ormai perduto e il ritardo irreparabile. Zoppicando, ancora sul treno, scorge in fondo, come fosse in un deserto, il capotreno, di spalle: lo raggiunge, inviperito con il mondo, ma con qualcuno a tiro cui dare addosso. «Ma che razza di treni! Roventi da far sciogliere le scarpe! Chiederò i danni». La sagoma in divisa Fs e cappello rosso si volta: Pamela Anderson, in persona, scollatura compresa. «L’ufficio reclami è sul molo in fondo alla spiaggia, signore».

Scelte evangeliche del prete di oggi

Povertà, obbedienza, castità. Zac, l‘ex sindacalista di Cantù, canticchia: “Te vist cusè? Un vescovo! Ah bé sì bé, dai dai cunta su”. Il cardinale predica laggiù in centro, all’ombra del duomo. Anzi, ha già prodotto un probabile best seller. In libreria e in conferenza stampa pare che gli uomini siano tutti uguali. E anche nella predica del cardinale. Davanti a chi? A Dio. E i preti sono più uguali degli altri. “Ma non di fronte a un capotreno“, pensa tra sé Khaled, muratore senegalese con il broncio davanti all’imperturbabile Concetta, la capotreno, che l’ha scovato senza biglietto. Non ha i soldi né per l’abbonamento, né per altro, Khaled, ma sui treni ci sale lo stesso perché non sa come fare per arrivare al cantiere in orario, giù dove si lavora ai grattacieli. Preferisce correre il rischio e puntare sull’inefficienza del servizio delle ferrovie, punta tutto sulla carenza di personale. Ma quando sul treno c’è uno straccio di controllore è spacciato: mai che chiedano il biglietto a un prete, lo vanno a cercare da lui, che la risposta alla sua povertà la sente ogni giorno: “Tornatene a casa, negher”.

Povertà, obbedienza, castità. E intanto Fatima torna dalla giornata passata a studiare in Cattolica e sa che dovrà passar l’esame di teologia per rimanere in media. Ieri, dopo la lezione, al gruppo di preghiera, qualcuno l’ha pure criticato, il vescovo… «Ma è fin troppo comunista, questo qui», perché secondo loro il Vangelo non va letto, va prima interpretato. Fatima è d’accordo, ma da tre settimane in crisi, non sa che fare, forse non lo dirà nemmeno in confessione: «Ho avuto un pensiero impuro», confida al cielo a mani giunte, come se il Cielo non lo sapesse già e non la vedesse con quella faccia smorta da paura dell’inferno, quando invece è soltanto un’anima in pena su una carrozza viaggiatori. Anche sta storia della castità che aiuta ad amare non l’ha mai capita, ma preferisce non aggiungere altri pensieri impuri. Certe cose non si pensano. E se si fanno, non si dicono. Ma sono cose che non la riguardano, per lei la castità non è una questione di scelta.

Povertà, obbedienza e castità. E lì sul vagone c’è Pino che costruisce ascensori, anzi pezzi di ascensori in periferia di Milano. Da quando l’azienda è in crisi non lavora più di notte e prende pure il treno. Come un colletto bianco. Eppure ha lo stomaco contratto per la rabbia: per buon senso vorrebbe produrre più pezzi, ma i capi hanno detto che non si può. Lui che aveva il record del reparto, si sente a mezzo servizio. Le consegne sono in ritardo, ma i manager preferiscono rallentare, “per far pagare un po’ lo Stato, per fare qualche porcheria in più”, pensa. Obbedisce, anche Pino.
Fa caldo sul treno delle sei, che sembra viaggiare dentro il sole, il cielo quasi non ha colore, è una nuvola di favore, ha una sua consistenza, come la cotta bianca di un prete indossata in una sauna. Anche Zac, l’ex sindacalista ha cantato nel coro di don Saverio, molti anni fa.
E sempre allegri bisogna stare, il nostro piangere fa male al re, fa male al ricco e al cardinale, diventan tristi se noi piangiam!”

Aria condizionata

Il segno del progresso non è bene nasconderlo. Sui treni, in particolare, quando c’è tecnologia, quelli delle ferrovie dello stato la ostentano: e così, l’aria condizionata che non funziona mai, quando invece funziona, viene sparata a zero gradi come un vento di tormenta su pancini scoperti di decine e decine di pendolari, tra i quali anche ex majorettes che si ostinano a mostrare l’ombelico. Tutto è apparenza, in una società di viaggiatori, e di questi tempi l’apparenza passa anche per la scollatura “golfo ligure” e la vita bassa “rigatanga”. Ma in un frigorifero, anche la più sgamata tra le la pendolarsoubrette è un animale a rischio.
Treno ad alta frequentazione, ovvero, pieno come un uovo: il localaccio per Varese, da qualche tempo si è rifatto il look, a cominciare da questo nome ad effetto. L’alta frequentazione porta a una condivisione totale per un tempo variabile quotidiano di: titoli e didascalie di quotidiani, suonerie telefoniche, confidenze riservate e piccanti al telefono, pettegolezzi sulle suocere, odori animaleschi, deodoranti afrodisiaci, peti malcelati, aliti da notti brave, rumori corporei di ogni tipo, fino alle pulci e altre bestiole gentilmente ospitate …
E così, sul Varese dell’ora di punta, capita spesso di vivere promiscuità impreviste con nemici del sapone, oppure con uomini/bufali da traversata del deserto. Soltanto in rari casi, tuttavia, capita di vivere esperienze memorabili con sacerdotesse di lambada: e in quei giorni da grande occasione, vorresti che il treno ci mettesse una vita ad arrivare a casa. La normalità è il treno in ritardo spinto dalle parolacce di chi ci sta sopra, ma quando ci si trova a tu per tu con la Jessica Rabbit della quinta carrozza capita anche di dimenticare il tempo che sfugge…
Ma un giorno infausto, una sera nel freezer su rotaia, un sogno s’infrange contro una porta sempre chiusa, quella della toilette. Fuori trenta gradi umidissimi, tutti assorbiti da un corpo sofferente e un po’ sformato sulla banchina della stazione, dentro ci sono i pinguini pronti a ricordarti che, la prossima volta, è meglio non mangiarsi la peperonata a pranzo, quella che resta per ore ed ore allo stato magmatico nel pancino di ognuno. E il vulcano islandese, a confronto, è innocuo.
Tu fuori con l’ascella unta, mentre là dentro nello scompartimento, c’è lei, Jessica tutta curve, accanto ai pinguini: e, incurante dei possibili rischi, giochi il tutto per tutto e vai a metterti proprio tra lei e i pinguini a dieci centimetri dalle sue curve. Ha il viso abbronzato lei, ma non ci fai caso perché preferisci ripassare una lezione di anatomia, grazie a un vestitino a guaina che risparmia tessuto ovunque. Come una regina della lap dance, è avvinghiata al palo centrale dello scompartimento, quello che fa da sostegno ai pendolari temerari che sfidano il macchinista più brusco del west. E a meno di dieci centimetri da quella fantasia collinare c’è la tua mano, nella speranza che la frenata sia più brusca del solito…
L’illusione di una favola, sul treno freezer, tuttavia, dura meno di una fermata: la peperonata si ripropone in maniera subdola. Vorresti aver dato retta a tua madre, la predicatrice della canottiera di lana sempre e comunque, ma hai preferito far di testa tua: e ora sei lì, di fianco a una creatura che la natura ha disegnato come un rigoglioso bassorilievo barocco, ma con un dramma che prende forma dentro di te. Lo stomaco ti si contrae e sul viso ti appare tutta la tensione del momento che precede una tragedia: ma come farà lei, con tutta quella carne al fresco, a non mostrare nemmeno un po’ di pelle d’oca?
La via di scampo è troppo lontana: la intravedi giù in fondo alla carrozza, dietro a una porta blu con la scritta wc. Porta sempre e irrimediabilmente chiusa per guasto: lì, avvinghiato a quel palo gelato, con la tormenta che fa imbizzarrire la peperonata, ti senti spacciato. Vorresti essere un bimbo che, con innocenza, vive la colichetta con disarmante naturalezza: strilla un po’, ma poi sonoramente si libera… Tu, invece, non hai scampo e vorresti scomparire da lì, da quella posizione favorevole con panorama da urlo: ma dove andare? È tutto pieno su questa carrozza.
E il treno si avvicina a quella curva con semaforo, dopo la stazione di Rho, quella che tante volte hai stramaledetto per via della frenata da ribaltamento che, puntualmente, il macchinista ti regala. Un colpo sordo, gente che sobbalza sulla carrozza e lei, Jessica, che come una pantera ti finisce addosso con tutta la sua perfezione rotonda. Nel giorno e nel momento sbagliato. Lei dice “mi scusi” e tu sommessamente tossici cercando di soffocare tutto il resto. Un colpo di tosse per mascherare l’irrimediabile fine del sogno.