L’ispirazione: mamma che ossessione!

L’ispirazione, croce e delizia di migliaia di presunti artisti, compresi i topi narratori, quelli che rosicchiano storie negli angoli più polverosi e meno frequentati delle case. C’è chi vive nell’illusione di essere il prescelto, l’illuminato dal sacro fuoco e si produce in continui sforzi di scrittura, come in una forma di bulimìa narrativa. Altri, invece, sono come minatori, impegnati in una paziente ricerca del filone giusto, piccole rughe nella roccia da poter seguire e poi scavare: io appartengo a questa categoria di narratori. Sarà che, in quanto topo, ho più caratteristiche in comune con i minatori, ma è evidente che i miei silenzi dipendono da quello: la ricerca di un filone giusto. Con troppi pensieri a confondere le idee, il filone non si trova e anziché in miniera, sembra di camminare in una galleria di Roncobilaccio: i devoti dell’ispirazione vivono nell’apprensione di essere abbandonati. Tuttavia, prima o poi, capita a tutti: il vuoto, o meglio, il silenzio totale dell’ispirazione.  Ed è il panico: ma come?! Uno scrittore, senza ispirazione, è come un koala senza foglie di eucalipto.  Il vuoto è inesorabile e incombe su tutti, compresi quelli che per scongiurarlo si ripetono continuamente, dalla mattina la sera, di essere scrittori: come una sorta di training autogeno, come se bastasse alzarsi ogni mattina e sentirsi come Dumas…

Conviene, per esperienza, fermarsi e aspettare. Posare la penna e accostarsi alla vita come una persona normale: il mondo si può anche permettere di avere tanti Dumas impiegati di banca, migliaia di Jane Austen casalinghe e  molti altri anonimi poeti che, ogni mattina, salgono sui treni e vanno al lavoro in città. E quando ritornerà? Tutto dipende non dai treni che uno prende, ma da con quale spirito ci salga. Io sono fermo al quinto capitolo del mio romanzo: da un anno. Dodici mesi, nei quali gli scrittori “veri” hanno riempito pagine e pagine, dato alle stampe chili e chili di carta: Vitali non si ferma mai, quel lago di Como è un continuo intreccio di piccoli misteri, Camilleri pare un a fonderia a ciclo continuo, con quella Sicilia tutta delitti. E a scendere, nella graduatoria delle hit parade, un gruppo immenso di piccoli Dumas. E io, topo narratore, dentro la miniera senza filoni buoni. Fermo al quinto capitolo: ma dopo un anno, tutt’altro che facile. Piano piano, il vuoto si colma: basta fermarsi e inseguire la voglia di ripartire.

Il pensiero di una nuova frontiera, o di una terra vergine tutta da scoprire, o di un’avventura tutta da vivere: insomma, la sensazione liberatoria che regala il voltare pagina, non ha eguali per chi scrive e legge, o legge e scrive. Niente panico, l’ispirazione arriverà. Ma arriverà? E se non arriverà?

Sembra così lontana, Milano, per queste cronache sempre più rintanate in un buco di provincia: eppure non è così. Ci ha pensato, ancora una volta, la mia piccola Anna a ricordarmelo: “Ma tu che a Milano ci vai spesso, quasi tutti i giorni, come fanno laggiù, le bambine come me a imparare ad andare in bicicletta? Come si fa a imparare ad andare in bici, se ci sono tutte quelle macchine, tutto quello smog, tutta quella gente che ha sempre fretta? Perché vorrei fare un disegno su questo, ma non saprei come”.

Geniale.  Basta guardarlo, il mondo, e non attraversarlo tutte le volte, giorno dopo giorno, senza voler vedere.

Musica e cartoni

Non è farina del mio sacco, ma nella rete circola questo simpatico cartoon milanese. Carino e perfettamente in tema con alcuni post di questo blog. Ve lo propongo, nel frattempo mi libero dagli impegni (parecchi) di questo periodo e ritorno a postare riflessioni “inedite”. Cliccate il link qua sotto e buon divertimento.

Milanes

Cronache milanesi: seiequaranta

Binario due, seiequaranta: prendi un foglio bianco e mettici sopra decine di penne a sfera che scarabocchiano i propri itinerari e convergono tutte nel medesimo punto. Al binario due: col vento in faccia alzato da un treno che fuori puzza di gomma bruciata e dentro ti strangola con uno stagnante odore stantìo di cane bagnato.

Scene quotidiane di una stazione di provincia, per la trama di un capitolo che ognuno ha ancora da scrivere. Troppo impastati di sonno, i pendolari del seiequaranta non hanno tutto chiaro in mente già dal primo minuto, lì sulla banchina: la loro trama emerge stazione dopo stazione. E in fondo al viaggio, ecco Milano: un mito se sei adolescente, un frullatore se sei un lavoratore. A Milan gh’è al pan, ma è un pane che ha un prezzo…Un pan che al g’ha sett crust: e intanto sulle carrozze del seiequaranta Milàn si porta via i sogni di tutti, il resto è mancia.

Agnese ha una laurea in economia da far fruttare: Milano vive di pil, Agnese l’han fatta studiare nel nome del pil e per farsi una posizione. La sera, a letto, sogna di sposarsi e di avere figli, ma la mattina c’è il pil che si ruba tutta la scena: centodieci e lode alla Bocconi, la sua famiglia ha speso una fortuna per quel pezzo di carta. Dai da mangiare all’economia e lei nutrirà anche te… ma a quale prezzo? Intanto è già in prima fila, Agnese, davanti alle porte del treno: perché non c’è tempo. Per cosa? C’è da fare in fretta: perché? A Milano c’è il pil che comanda, si va di fretta e basta.

Said, invece, non sa cos’è il pil e non capirebbe perché gli economisti di gran moda vanno al governo convincendo il mondo che se dai da mangiare in continuazione a una capra, questa crescerà all’infinito. Non ha capre e nemmeno di che nutrirsi tutti i giorni, Said, ma forse oggi mangerà: perché va a fare il magùtt di nascosto, giù al cantiere accanto alla stazione. E un kebab, male che vada, lo mette sotto i denti comunque, con un paio di sacchi di cemento scaricati in nero: ma se va bene, anche qualcosa in più lo porta a casa, pure un’aranciata salta fuori. Il biglietto lui lo paga, non è mica un accattone, ci tiene a non sembrarlo: e comincia la giornata con sotto una nuvola di deodorante acquistato in un discount. Aroma mughetto, per un magutt magrebino, è un segno di distinzione. Inesorabilmente, anch’egli andrà ad alimentare la grande puzza, la somma di milioni di odori che produce una metropoli.

L’ingegner Tibiletti, seduto al suo fianco, punta tutto sul dopobarba al profumo di ginepro, roba che arriva dalla Svizzera: «Sa, perché io ho lavorato una vita, mica per andare al discount. La roba buona la compro ancora». Spera di andare in pensione, ma non gliela daranno per un bel po’… Non ci vuole pensare, lui finge di sentirsi inossidabile, ma non ne può più di far  ‘sta vita. Fa il pendolare da più di trent’anni, da quando i treni avevano gli scompartimenti e poteva capitare di trovarsi solo, a tu per tu con la donna dei sogni. Una donna di cui ci s’innamorava per tre fermate e poi ci si lasciava senza platonici rancori. Oggi,  per stare al passo con i tempi, l’ingegnere unge a colpi di ditate lo schermo di un’i-pad: «Perché l’informazione, ormai, l’è cambiada. Ormai la carta non si usa più, il futuro è questo qui»… e fissa lo sguardo su quello schermo.

Non son più i tempi dei quotidiani, l’edicolante  giù in stazione lo manda a quel paese sottovoce, ogni volta che lo vede passare e si ricorda di quando, ogni mattina, l’ingegnere si portava in treno una mazzetta di giornali alta così: e oggi, in nome della nuova informazione tecnologica, tutto finito. «Vadavialcù, ingegnere», e non dimentica di quando al mercoledì, dentro al Corriere gli metteva anche il porno, altro genere finito fuori moda nelle stazioni. Oggi tette e culi, l’ingegnere li clicca, non li sfoglia più. Ma non gli fanno più l’effetto di allora: sarà l’età, ma anche rincoglionirsi davanti a un’i-pad contribuisce alla sua impotenza. Un’università del Minnesota, presto, studierà anche questo.

Sparisce la carta, sparisce ogni dialogo in carrozza: seduti nei vagoni, i pendolari dell’ultima generazione sembrano automi radiocomandati, tutti con fili e auricolari, con la testa già bombardata da un regista occulto, che non ama chi se ne sta in silenzio a pensare… Potrebbe accadere che, nel silenzio, a qualcuno venga voglia di tornare a sfogliare quel Pratolini che odorava di muffa, ma che tra le pagine ti portava dentro tutto il treno: tutto il treno sembrava trasformato in via del Corno, nella Firenze anni Venti… Sparisce la carta, spariscon le carte, quelle delle partite a briscola che infiammavano le mattinate di viaggio, spariscono i termos pieni di caffè e le schiscette, simbolo dell’amore coniugale di provincia, quando ancora non si sapeva cosa fosse il brunch.

Lunga vita ai sacerdoti della tecnologia: “Stay hungry, stay foolish”, solo che a Milano non si sogna più ciò che si vuole, ma ciò che è imposto dal destino. Sei dentro a un frullatore: non sei più tu a decidere in quale senso far girare il mondo. Resti a tu per tu col destino, che quando apre una porta, ne chiude un’altra. Dati certi passi avanti, non è possibile tornare indietro. Filosofia non quotata in borsa, ma anche tutta roba che non capirà mai l’ultima generazione del libro elettronico, quella che trionfa con la logica del pil … vallo a spiegare a Kevin, primo anno di giurisprudenza, cosa vuol dire sfogliare Dickens, aprirlo e chiuderlo quando cacchio ti pare, tra i sobborghi di Busto Arsizio e le prime case di Legnano: immaginarsi Londra, oltre il finestrino, è un atto di libertà. Vallo a spiegare a Kevin, lì seduto che mastica un chewing gum gusto fragola, sotto una cresta scolpita da un chilo di gel. Kevin mastica e ha già in mente dove vuole arrivare, alle seiequaranta del mattino. Su Facebook lo ha già scritto: “ciao raga, oggi mi faccio il piercing, stasera ve lo taggo”.

Kevin, primo anno di giurisprudenza, alla scoperta della legge, quella che col tempo gli ammoscerà la cresta e gli farà risparmiare sul gel: e pure il piercing, prima o poi, lo getterà in una latrina. Una Milano che sforna migliaia di avvocati, non può che affogare nelle carte bollate senza senso: Kevin sogna gli ultimi assoli di chitarra, ma presto a suon di diciotto su trenta, si ritroverà a tu per tu con quel seiequaranta, sempre lo stesso, a fissare il finestrino senza guardare oltre. Incazzato col mondo. Andata e ritorno, si va e si torna, senza piercing, ma in giacca e cravatta. “Porca troia se fossi il figlio di un segretario di partito! Porca troia, sarei consigliere regionale e mi farei una donna al giorno”. Altro che codice civile, fanculo pure agli assoli di chitarra, da qualche parte si dovrà pur uscire da ‘sta vita in gregge.

La mandria sale e scende, la governa il capotreno Caruso, partito da Aci Trezza, finito a Domodossola, in una casa popolare che è più grigia del suo treno: partenza all’alba, ritorno che è già notte. Una giornata a litigare con carrozze fatiscenti, porte incastrate, impianti di riscaldamento costantemente guasti, finestrini rotti e sedili lerci. Il seiequaranta non è un treno per signori, il capotreno Caruso sa già che si prenderà insulti gratuiti dai soliti imbestialiti, gente ammassata nei vagoni sempre troppo pieni. Ma giù all’ultima carrozza sa che troverà la Tilde, di professione receptionist, con l’hobby di fare innamorare uomini sempre troppo soli, catturati tra un’andata e un ritorno. Tutti a indugiare dentro a quella scollatura infinita, che sembra una finestra sul paradiso.

Caruso, capotreno innamorato, pregusta ogni giorno quel suo viaggio dalla prima all’ultima carrozza, fin dentro la scollatura: e dove lo sguardo non arriva, prosegue con l’immaginazione, così che anche Vanzago Pogliano, da quel punto di vista, gli sembra bella più di Taormina.

L’unico a non distrarsi è Treves l’intellettuale: nemico del sapone e del sistema. Frustrato che sognava di diventare il più grande giornalista di Milano, l’uomo nuovo del reportage, la voce della verità, il cane da guardia del potere, finito a correggere bozze per i raccomandati che affollano le redazioni di quei giornali che nessuno legge più. Treves sul seiequaranta è sempre fisso accanto alla Tilde, il suo odore muschiato si confonde col parfume francais della signora. Treves la marca stretta, non per corteggiarla, bensì per sfuggire al controllo biglietti di un  Caruso preso da ben altre prospettive. Treves, l’intellettuale che sognava il premio Pulitzer, viaggia a scrocco per risparmiare: sia lodato il seno della Tilde, ma nel frattempo progetta il romanzo che gli cambierà la vita. Immagina un capitolo per ogni fermata, ma poi Milano gli offuscherà ogni idea, come un cancellino passato sulla lavagna: l’indomani, tuttavia, quella lavagna sarà pronta per una nuova storia tutta da scrivere. In fondo, è così che nascono i libri da treno.

Bibliospionaggio a Milano: la passione di Anna

La Milano che legge offre spunti infiniti. Sugli autobus, nelle carrozze dei treni, in tram, sulle panchine dei parchi, sulle banchine del metrò. Anna Albano, nella vita, legge e scrive e, soprattutto, lavora per chi legge e per chi scrive. E quando può, osserva i milanesi nascosti dietro ai libri, li spia e riflette: una specie di voyeur letterario che, attraverso un blog molto interessante, inquadra la cultura dal basso, nel cuore pulsante di Milano. Dentro il più autentico e credibile salotto letterario di una città.

Qual è il lettore e qual è la lettura che hai scovato negli ultimi tempi e che ti hanno maggiormente colpito? Perché?
«Mi capita sempre più spesso di incontrare persone che leggono sul Kindle o su altri e-reader, la qual cosa mette in profonda crisi la mia attività di bibliospionaggio sui mezzi pubblici milanesi. Perché è decisamente difficile riuscire a capire cosa stiano leggendo, in mancanza di una copertina di carta, e ancora più difficile scattare una foto con il cellulare collocandosi alle spalle di chi legge, nel tentativo di cogliere almeno una schermata. Certo, potrei chiedere a qualcuno cosa stia leggendo, ma sarebbe un’altra storia. Una delle ultime persone che mi hanno interessata è una signora che leggeva “Tra moglie e marito – Quaranta brevi storie di vita familiare”, di Stefano Guarinelli, un prete-psicologo che fa il consulente familiare. Era come se nel libro cercasse una risposta, il che ci conferma che al libro vengono attribuiti i poteri e le facoltà più diversi – intrattenere, istruire, guidare –, e che sempre vale la pena di indagare i motivi per cui la gente legge. E che i lettori comuni sono interessantissimi per la varietà delle loro ragioni. Sì, suona banale, ma così è».

Nella Milano “ai tempi della crisi” cosa si legge sui tram e nei metrò? Noir o romanticismo? Più Littizzetto o Parodi? In quale genere si rifugiano, oggi, i milanesi che viaggiano?
«Sui tram milanesi, come presumo nel resto d’Italia e del mondo, c’è stato un lungo tempo dei vampiri. Quelle storie di creature assetate di sangue erano nelle mani di tutti, anche di insospettabili signore di mezza età che un tempo avrebbero letto la posta di Susanna Agnelli su “Oggi”. Il noir va sempre fortissimo ed è un genere trasversale, nel senso che lo vedi nelle mani di persone diversissime. Vanno anche i romanzi d’amore filippini, credo, almeno a giudicare dalle copertine dallo stile un po’ cheap, addirittura proto-Harmony, che vedo nelle mani di sagge casalinghe asiatiche. Vedo poca Littizzetto e moltissima Parodi, e la cosa mi rallegra. Perché Littizzetto produce sempre secondo i medesimi schemi, perché la satira ideologizzante nasce e muore con una battuta alla televisione, perché basta con le provocazioni fasulle. Parodi, invece (della quale sono una fan perché mi insegna cose che sinora erano per me sconosciute, e la mia giovane figlia ringrazia), è utile, rilassante, rassicurante. Ed è consonante con il viaggio in metropolitana o in tram, con esso ti culla, ti astrae, ti induce a immaginare che la tua fermata non arriverà mai più, perché con quel libro si sta al caldo e si sta bene lì».

Anna arricchisce ogni giorno il suo blog con riflessioni e spunti interessanti, curiosi e, a volte, poetici. Ve lo consiglio: http://cosedalibri.blogspot.com/search/label/lettori

Anna è la benvenuta nella tana del topo. E, come fanno gli ospiti in visita, non si è presentata a mani vuote e ha portato un dono. Un brano inedito, per sorridere in rima.

Ode al lettore itinerante milanese
Lettore che ti aggiri per Milano,
un libro eternamente nella mano,
dai mezzi sali e scendi imperturbato,
cuore leggero e spirto deliziato.
Ti rechi in ogni dove, qui e poi là;
misuri col tuo libro la città.
Per continuare a leggere un romanzo
talvolta tu rinunci pure al pranzo;
ti vedo in primavera, dentro al parco
tra i jogger ti ritagli sempre un varco.
Tu punti alla panchina, benedetto;
la ripulisci con un fazzoletto
e poi ti siedi, apri il libro e lo degusti
se sei lettor tra quelli più robusti.
Sarà per la gran messe di editori:
Milano è piena zeppa di lettori.
Però tra parchi e bar, che cosa strana,
la scelta va alla metropolitana
e al tram, trenino avito d’atmosfera
dove tu leggeresti mane e sera,
o lettore.
Viandanti temporanei
dai gusti variegati
ricercano in un rosa l’evasione,
tremano con le storie di vampiri
o leggono serissimi elzeviri.

Se Dickens rinascesse a Varese

Uno stenografo, dopo lunga gavetta, si ritrovò scrittore. “Se diventerò l’eroe della mia vita, o se questa condizione spetterà a qualcun altro, lo diranno queste pagine”.

Duecento anni fa, nasceva Charles Dickens, scrittore amato da molti e, forse, detestato da molti di più.

Io sono tra coloro che lo amano: chissà, forse perché tutto cominciò da uno Scrooge con le sembianze di zio Paperone, da un canto di Natale letto da bambino sulle pagine di Topolino. Dickens ha questa particolarità: di ricordare l’infanzia a molti. Eppure scrisse in un’epoca ormai lontana, raccontò storie tipicamente inglesi… Non so come ci sia riuscito, ma mi ha conquistato: con i suoi personaggi e le sue descrizioni minuziose, con la sua capacità di prendere per mano il lettore e portarlo con sé, dentro a un sobborgo di Londra.

“Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si vede per tutta la vita”: questo lo disse un altro grande autore, George Orwell che, pure, non fu mai molto tenero nei suoi giudizi su di lui. Amo Dickens soprattutto perché sapeva parlare ai “semplici”, perché sapeva essere universale, perché è stato capace di trasmettere a tutti la sua letteratura. Lo amo soprattutto perché pubblicava a puntate sui giornali e perché i cattedratici lo stroncavano.

C’è chi confina Dickens dentro la sua epoca, dentro quell’atmosfera londinese di metà Ottocento. Eppure io lo trovo ancora molto attuale: lo vorrei vedere all’opera in questo tempo difficile e decadente, m’immagino come descriverebbe un treno carico di pendolari, per esempio. Vorrei vederlo all’opera nel descrivere la periferia di Milano, o magari una pasticceria di Varese piena zeppa di signore impellicciate, tutte infervorate per i saldi, mentre fuori c’è un popolo che sta perdendo il lavoro.

Se Dickens vivesse oggi, tra Varese e Milano, cosa scriverebbe? Chissà, magari ci scriverà il romanzo di un sindaco leghista invaghitosi per una povera rumena, o chissà, magari proverà a raccontare di un imprenditore che, per non vendere la propria barca ormeggiata a Portofino, si trova costretto a licenziare alcuni dipendenti, a caso… E secondo voi?

In ricordo di Franco Della Peruta

Dieci giorni fa, se n’è andato un vecchio professore. Ha chiuso gli occhi, chissà, pensando a un mondo che ha sempre studiato, immaginato, ricostruito, amato, insegnato, ma che non ha mai visto di persona: mi piace immaginarmelo così, nel suo ultimo pensiero, con la mente rivolta a una Lombardia lontana, dentro a una sommossa popolare, o dietro alle barricate delle Cinque giornata. O chissà, a parlare d’Italia a Giandomenico Romagnosi e a Carlo Cattaneo. Prima di andarsene da questo mondo, il professore ha insegnato a Milano la storia del risorgimento italiano, ha spiegato a generazioni di ragazzi come un sentimento regionale si è trasformato in un sentimento nazionale. Ha scritto, documentato, trasmesso: passioni, saperi, fatti. E nel suo seminare, anche nella mia zucca semivuota, qualcosa è germogliato. Un piccolo ricordo, il mio, a dieci giorni dalla scomparsa di Franco Della Peruta, ringraziandolo per la pazienza e la dedizione sincera all’insegnamento della storia, quella storia che ogni cialtrone vorrebbe piegare e rimodellare a suo vantaggio, ma che, se l’hai studiata con i giusti maestri, allora è un valore da difendere. L’insegnamento del professore, in questa stanza polverosa, non ha prodotto un cattedratico e nemmeno il miglior studente di storia del risorgimento: tuttavia, qualcosa ha dato frutto. E al professore, per esempio, devo la conoscenza di un personaggio a me caro, Cesare Cantù, a cui la cultura lombarda deve molto. Il concetto di letteratura popolare, di riscoperta delle tradizioni, di salvaguardia della storia piccola, quella della propria terra, del proprio villaggio sono valori oggi molto importanti. Fondamentale anche per chi è alla ricerca di fonti d’ispirazione narrativa: per una narrativa lombarda, ma non padana. Ho voluto ricordare Franco Della Peruta, ho voluto parlarvi di Cesare Cantù e, riferito a quest’ultimo, vi presento un personaggio davvero curioso: Carlambrogio di Montevecchia. Cercatelo se vi va, si nasconde nelle biblioteche lombarde, e vi garantisco che sarà una piacevole scoperta. Costui, interpellato dai contadini lombardi, diceva questo: “Se la discordia entra nell’alveare, il miele toccherà ai calabroni: così, se un popolo non è unito, fa la zuppa a’ suoi nemici. Diffidate sempre miei buoni compatrioti, di quelli che cercano di suscitare tra voi odi di partito. Costoro vogliono pescar nel torbido: sperano nel disordine beccar qualcosa, senza curarsi del male che può venire al paese. Vi contano belle parole, promettono mari e monti; ma credete a me, e’ guardano solo al proprio interesse e del vostri si fanno gioco”. Vi consiglio di andare a scovarlo nelle biblioteche, tra le pagine antiche, che odorano di storia. Se, invece, siete più tecnologici e gli aspetti “romantici” della lettura v’interessano meno, lo trovate anche su Google books, gratuitamente: http://books.google.it/books/about/Il_Carlambrogio_di_Montevecchia.html?id=H6kpAAAAYAAJ&redir_esc=y

 

In giacca e cravatta a chieder l’elemosina

Le quattro mura della tana, stasera, non riescono a distogliermi dal senso di pesantezza che mi lascia la città, il viaggio quotidiano dalla provincia alla città. Ho sul tavolo “l’uomo che ride” di Hugo, l’ho iniziato da poco, ma non riesco ancora ad aprirlo, stasera. Io topo di campagna e scrittore di provincia non riesco a vivere la città come una cosa normale, non riesco a farmela scivolare via dalla pelle. Provincia e città, l’odore del lago e quello della metropoli, così diversi.
Stasera in cima alle scale di stazione Centrale, c’era un uomo in giacca e cravatta seduto su una panchina che mi guardava: io, diretto al binario, sono stato colto di sorpresa, quando questo mi ha fatto segno di fermarmi un secondo da lui. «Mi dai qualcosa, qualche spicciolo? Sono sulla strada, cazzo, sono finito sulla strada» mi ha detto.
Io nella fretta ho dato una risposta idiota, la più idiota: «Non ho moneta, ma se vuoi ti posso cedere il mio giornaliero per il metrò». Quello mi ha guardato, come per dirmi “ma che cavolo ci faccio io, col biglietto del metrò”, ma da signore distinto l’ha accettato. Avrei potuto dirgli: «Hai fame, posso offriti un panino?», ma avevo troppa fretta. Ero dentro il vortice del frullatore, il frullatore quotidiano che ti fa correre senza pensare. Ma a quell’uomo ci ho ripensato più volte, fino a ora. “… per intendere la città, per cogliere al di sotto della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui molti favoleggiano – adesso lo capivo – fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come loro, soffrire come loro”. Di questi tempi cito spesso Bianciardi, Luciano Bianciardi: questa sua considerazione è tratta da La vita agra, un capolavoro senza il quale, forse, il mio Nebbia sarebbe molto più banale, il mio ragionier Ponchio, licenziato e cornuto, non sarebbe mai passato nei miei racconti. Ma si capisce, anche, perché leggendo certi sacerdoti, le grandi firme della cultura e della letteratura che oggi imperversano sul Corsera o su altri grandi quotidiani, ho la sensazione che, quando parlano di romanzi e culture, questi vivano in un altro mondo, troppo lontano da quello che vedo io: ma non so più quale sia quello sbagliato o quello giusto, quello vero o quello finto. Eppure, la Milano dell’ex impiegato in giacca e cravatta che chiede la carità in Centrale, non mi sembra per niente diversa dalla città che vedeva Bianciardi cinquant’anni fa. E voi, scrittori e lettori di provincia, che Milano vedete? Tutte le crisi si assomigliano e forse è per questo che, tra tutti gli autori che conosco (sono pochini, lo ammetto), quelli che più mi sembrano attuali sono i classici. Se penso a certi passaggi di Charles Dickens… E secondo voi, cari amici, qual è il grande scrittore più attuale, pensando al nostro tempo?

Milano, quando il topo vi rimette piede…

direttore
Mentre il nostro governo decide di portarci in guerra senza interpellarci, le cronache milanesi stanno per riprendere. Topo di campagna, dopo un mese di stress, è tornato ad aggirarsi tra storie e personaggi. Si ferma il nucleare, per gabbare un referendum, ma non le cronache del topo… Intanto, non è solo schifo, a Milano: ieri si è addirittura festeggiato Shakespeare. Il vecchio William ha compiuto 447 anni e, siccome, non è il caso di stare allegri, a Milano lo hanno festeggiato leggendo Macbeth… Pace, amore e viuleeenza!
Meglio così, meglio allenare le menti piuttosto che rincoglionirsi davanti a un reality che ieri si è concluso e oggi sui giornali pare sia più importante della campagna di Libia. Per tenere alto il morale delle truppe, i quotidiani oggi si sbizzarriscono in cavolate… spiccano l’ecografia di Carla Bruni e il possibile discorso del principe Harry al matrimonio reale del fratello William… Con quel briciolo di cervello che pare sia germogliato in lui, si teme che possa debuttare con: “La sposa e lo sposo adesso girino la faccia e si guardino bene negli occhi… statisticamente state fissando la persona che ha maggiori probabilità di assassinarvi”.
E nonostante anche questo, a Milano ieri si è trovato un motivo per ridare ossigeno ai cervelli: dopo 233 anni di storia, ieri al teatro alla Scala è andata in scena per la prima volta un’opera diretta da una donna.
Dal 26 aprile al 7 maggio, Susanna Mälkki, finlandese, dirigerà l’orchestra del teatro scaligero in «Quartett», la nuova opera di Luca Francesconi basata sulla storia delle «Relazioni pericolose» di Choderlos de Laclos.
Susanna, a 42 anni, ha diretto le maggiori orchestre del mondo e sapete perché dirige alla Scala? Perché è brava! Milano non è più la stessa…

La storia si fermò: Milano asburgica

“Viva Radetzky!”. Lo dicevano già allora, i nostri avi campagnoli, che mal sopportavano i signori: lo dico ancora io, in questo stato ideale che, per fortuna, vero stato non è, e nemmeno regione. Forse è provincia. “Viva Radetzky!” contro l’ingiustizia dei ricchi che sfruttavano i poveri contadini, ma per fortuna che quelle 5 giornate furono un flop, dopo pochi mesi. Ora sì, uber alles, siamo cittadini austriaci: sì, forse fratelli minori, ma sempre in famiglia asburgica siamo…. Willkommen in Mailand! Non siamo nemmeno lombardi, siam qualcosa di più: lombardo-veneti! Keine Padania, bitte. Lumbard tass, siam lombardo-veneti-austro-ungarici: e guai a chi la mena con la solfa di Pontida, Legnano, il Carroccio e l’Alberto da Giussano. Tutte favole che l’impero, giustamente, ci ha fatto dimenticare, a nerbate. E per fortuna, che in questa provincia austriaca, quei barbari dei piemontesi non hanno sfondato.
Ora sì che siamo felici! Mailand, Lombardo-Veneto, 2 marzo 2011: una terra dove tutto funziona a meraviglia, ci sono le aiuole e i prati sempre verdi, le mucche che pascolano qua e là, le stazioni che funzionano, le città pulite. Milano sembra un bijou, non me ne voglia l’imperatore se uso un termine francese un po’ volgare. Quel Radetzky ci accontentò: e ora, finalmente, il tedesco è la prima lingua, l’italiano è un dialetto, il dialetto è un sottodialetto. Vielen dank, geliebt Osterreich, amata Austria, per averci evitato un risorgimento che, altro non era, che un’idea malata nella testa di pochi.
Ma che bell’Austria meridionale siamo! Con tutte quelle tasse da pagare a Vienna: sono davvero menti amorevoli e illuminate i nostri governanti. Ora, come in passato. Come quando ci misero la tassa sul fumo: grande idea. Oggi, per dimostrar progresso, alla tassa sul fumo hanno giustamente accompagnato l’obbligo di fumare, altrimenti che tassa è: e così hanno fregato i furboni che si erano messi in mente pure di scioperare, come fecero quei mentecatti del ’48 (Ottocento).
Sehr gut, canederli e rustisciada ci stanno a meraviglia assieme: in onore di Maria Teresa. Sì, viva Maria Teresa imperatrice! E tutte le sue riforme che rendono orgogliosi i tirolesi come i friulani e pure i bresciani: e bravi i mantovani che, ormai da tempo, hanno ripudiato Virgilio e mille anni di gloria italica, per il progresso germanico. Wir tanzen Strauss! Si danza e si fa festa con il mito imperiale, il valzer di Strauss: così spumeggiante e decisamente più appropriato per questa terra, piuttosto che quel rovinacervelli di Giuseppe Verdi, così patriottico. Troppo.
Meglio questa Mailand che si fa spremere da Vienna, sì: spremete i nostri signori, spremete anche noi, ma fateci felici, con i vostri divieti e imposizioni lungimiranti. Zwei svanziche per un gelato al limon: prezzo equo, non si discute. Dispotismo illuminato: perché chiedere di più? Non oppressione, bensì regno: perché pensare a un consiglio regionale democraticamente eletto, se possiamo contare su ben altro sistema di governo, lecitamente imposto sulle teste di noi poveri ignoranti lombardi. Democrazia… che sciocchezza! Meglio confidare in una nobile famiglia, superiore per rango e potere. Ci toglie da ogni imbarazzo: non vorrete che accada, che so, che un brianzolo arricchito e senza istruzione possa un giorno arrivare a possedere televisioni e giornali e, magari, lavar il cervello alla gente? E, cosa inaudita, possa addirittura ambire a governare questo stato? Da sudditi, almeno, siamo salvi da certi pericoli, tipici della democrazia.
Viva Radetzky! Che ci ha liberati da sventure ben peggiori, da quel Cavour che avrebbe voluto farci tutti piemontesi, da quel Garibaldi volgare e violento, o da quel Cattaneo che sognava una Lombardia diversa: e pensava addirittura al federalismo. Ma si sa, il federalismo è il compimento massimo della democrazia, impone un’identità nazionale talmente forte da non temere, anzi da trarre giovamento dalle autonomie: uniti nella diversità, quante fandonie! Lumbard tass! C’è l’Asburgo che parla per te. Tutto il resto è inutile, ci basta una monarchia tedesca che decide per noi. Che ce ne facciamo della democrazia e dell’Italia? Wir sprechen Deutsch! Osterreich uber alles!
17 marzo: l’è al dì di mort, alegher!