Vola, Dolores!

Dolores
Dolores lavora a tempo pieno, ormai, e di questi tempi è quasi un lusso per una neoassunta: ore notturne, alla stazione. Tre metri sotto di lei, nelle nicchie e sulle panchine dormono i clochard. Fuori, sul viale, invece, ci sono Ramona, Katia, Maruska, Thais: superaccessoriate, completissime, solo distinti. Dolores, invece, non fa distinzioni: mette paura ai piccioni, tutti. L’hanno assunta per questo. Le altre, invece, sono a caccia, ma non scacciano nessuno, a parte i perditempo e gli scocciatori.
Quanto è bella, Dolores, con quelle ali che sembrano infinite: chissà, forse per volare così, s’immagina un cielo di primavera, terso, spazzato dai venti. Ah, quanto deve essere bello giocare col vento! Dolores lo sa. Ma sul lavoro, il vento se lo inventa, un battito d’ali per aggrapparsi a una lieve corrente, impercettibile. Quanto basta per restare su, a mezz’aria, tra i binari e le vetrate della stazione Centrale. E con quello sguardo fisso e minaccioso, mette in fuga un orda di miserabili, all’ultimo posto nella scala sociale degli uccelli. Li chiamano topi con le ali, oggi, ma una volta erano il vezzo di bambini e fotografi, nelle piazze e davanti ai monumenti. Oggi sono razza decaduta, sporca, da eliminare: contro la loro invasione, ora c’è Dolores, elegante e severa, rassicurante.
La stazione è luogo di frontiera, una porta d’ingresso oppure una via d’uscita: inevitabilmente vive di contrasti e indifferenza, come una periferia. E chi ha smarrito la meta, finisce per fermarsi in quel posto, a metà strada tra la città e ciò che sta fuori: con il proprio disagio o con la propria “non” scelta. Gli unici che hanno “scelto” di vivere lì sono i piccioni, ma ora Dolores farà loro cambiare idea. Le basterà un battito d’ali, perché la natura ha le sue leggi, meravigliose e spesso crudeli. Sopra le teste dei senza casa, dei senza meta e dei senza futuro, il volo di una poiana romperà la monotonia di quelle notti che sembrano non finire mai: come una poesia.
Da Corriere.it
http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/11_febbraio_18/rapaci-contro-piccioni-stazione-centrale-19042234969.shtml

Il fatto del giorno: la residenza Calvino

“Quarantadue bilocali superaccessoriati a misura di anziano. Per continuare a vivere a casa propria con i propri affetti e le abitudini di sempre, ma con la possibilità di essere assistiti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 quando serve un medico o un infermiere, un aiuto per le faccende domestiche o semplicemente un po’di compagnia. Nasce in città il primo «condominio di lunga vita»: non è una casa di riposo né una comunità, ma un nuovo modello abitativo dedicato ad anziani ancora autosufficienti, in tutto o in parte. Si chiama «Residenza Calvino» il condominio pensato per sostituire l’ospizio o la badante, è in via Giovanni Calvino (zona Sempione-Cenisio). Privacy garantita è la parola d’ordine, pur in presenza di uno staff a completa disposizione degli speciali inquilini”.
Costo del servizio: 2.600 euro al mese in bilocale. Apperò… considerando che, oggi, in Italia le pensioni medie si aggirano attorno ai 1.100 euro, questo servizio è da ritenersi sociale? Boh, una volta c’erano i cortili, che erano vere e proprie grandi famiglie nelle quali ognuno dava una mano all’altro, soprattutto all’anziano. La solidarietà non era un servizio a pagamento. Oggi, a quanto pare, un anziano che vuole il rispetto della privacy deve essere disposto a pagare 2.600 euro al mese. Tutti gli altri, devono rassegnarsi ad averne troppa, di privacy.

A ognuno il suo Calvino, però:
“La vita, pensò il nudo, era un inferno, con rari richiami d’antichi felici paradisi”. (se pensiate che la residenza sia intitolata a Italo)

“…l’ingresso nella vita è preclusa a tutti quelli che Egli vuole abbandonare alla condanna; e ciò accade per un giudizio suo occulto e incomprensibile, per quanto giusto ed equo”. (se pensiate, invece, che la residenza sia intitolata a Giovanni)

Nebbia è tornato

Irina dorme, l’inverno l’ha portata via con sé. Intanto, la città si riaccende. Dai forni delle panetterie esce un profumo antico, mentre i bar si riempiono di fagotti umani in cerca di un caffè. Altro che fitness, gli autisti hanno la loro bella ginnastica, nel grattare sui parabrezza congelati: bisogna ripartire, la giornata ricomincia con un raschietto in mano, mentre là in fondo, dietro il distributore di benzina, Irina continua a dormire, dentro a un cartone.
Anche il circo è tornato in città, come un rito fuori moda, ostinazione dei romantici: nascosto tra gli ultimi sognatori, condividendo un pezzo di vita con una trapezista, un piatto di minestra con un domatore, un pacchetto di sigarette con un fachiro pachistano, Nebbia rivede Milano dal predellino di una roulotte. Nomade per amore, se ne partì in treno, ritorna come uno zingaro: era la sua città, quella, ma da zingaro ora sa che non è bene accetto. Perché un uomo senza dimora sfugge a ogni regola e a tutte le convenzioni: Nebbia ha fatto la sua scelta, ora la gente non saprà più quale marchio attribuirgli e avrà paura di lui. In fondo, spera che qualcuno si ricorderà ancora delle sue risate sporcate di fumo: “Certo, ci sarà ancora qualcuno che non avrà dimenticato”, dice tra sé, mentre la sua sigaretta si consuma fuori da un tendone buio, ancora addormentato, dopo lo spettacolo della sera prima.
Stelle appese ai palazzi, sopra le strade, non cambiano un granché di questa Milano che, dall’energia che sta sprigionando, sembra avere miliardi di cose da fare, tutte più serie di ciò che farà lui, oggi, mentre alzerà lo sguardo verso i grattacieli tirati su dalle gru, oltre le luci del Natale. Tante parole, troppe, per una festa… «Va a finire che, anche quest’anno, tutti guarderanno il dito e non la luna, ma chissenefrega». Nebbia è tornato e presto darà fastidio a qualcuno: «Perché è sempre meglio che diventare invisibile» Anche a Milano arriverà Natale, ma tutte quelle luci, forse, non basteranno per illuminare milioni d’invisibili.
Intanto Irina dorme dentro un cartone e non si sveglierà più. Non dava fastidio a nessuno, ma presto, anche solo per un minuto, non sarà più invisibile.

“Mio Dio! Un intero minuto di beatudine! È forse poco, sia pure in una intera vita umana?”

Il gheppio

Fa lo spirito santo. Ovvero sfida la forza di gravità e rimane fermo a dieci metri dal suolo. Il gheppio dell’autostrada è la presenza fissa dell’ora del rientro dei pendolari, quasi sempre in coda alle porte di Milano. A passo d’uomo sull’asfalto rovente, costeggiano il carcere di Bollate, territorio di caccia per il gheppio: topi, lucertole, conigli, bisce, per loro la possibilità di fuga è nulla. Da quel carcere, da dietro le sbarre, i detenuti osservano un pezzetto di mondo puzzolente e inquinato. C’è soltanto il gheppio, e per fortuna, a ispirare un senso di libertà.
La natura l’ha fatto simile a un piccione, ma il gheppio ha ben altro portamento: rapido, elegante, spettacolare.

E anche Beppe, la guardia carceraria, attende ogni giorno il rito del gheppio con meraviglia quasi infantile, mentre lo osserva in cielo, a metà strada tra gli edifici scatoloni e le mura del carcere e l’autostrada intasata. Allo stesso modo, il poliziotto è stato l’unico ad emozionarsi l’altro giorno in tribunale, mentre è scoppiato il “finimondo” a causa di tre gheppi che volavano in un’aula piena di magistrati, avvocati e imputati. Si stava mettendo sotto processo la ndrangheta in Lombardia, ma tutto si è fermato, per una mattina, a causa di tre rapaci. La loro voglia di libertà ha avuto la precedenza e potrebbe essere un segno. Il gheppio, simbolo della natura che non accetta barriere e vola al di sopra di questa società degradata. E, per fortuna, stupisce ancora.

Alieni esperti in business objects

Stefania prende il treno ogni mattina alle sei e mezza. E sta per sposarsi, ha già fissato la data delle nozze: il 31 luglio. «Per quella data è tutto ok, anche al mio capo andava bene». Al mio capo? E al futuro marito? «A entrambi».
Stefania ha studiato una vita intera nell’università più “in” di Milano, ora lavora in un gruppo finanziario in zona Loreto. E che fa? «Analista datastage». Cosa, scusa? «Perché ho maturato una buona esperienza in ambienti di datawarehouse». Ah ok, adesso è tutto chiaro.
Stefania entra in ufficio alle 8 di mattina e ci esce alle 19: «Ma non faccio pausa pranzo, per fare prima». E perché? «Perché altrimenti rientrerei in provincia alle 10 di sera, sai con questi treni». Già, i treni. Nel frattempo, viaggiando sulle carrozze semisfaciate dei treni locali, messaggia a manetta con il suo promesso sposo. E lui che fa? «Lavora in Svizzera, ci si vede dal venerdì alla domenica». E dopo, da sposati? «Idem». Stefania sogna di avere bambini, ma sa che non potrà permetterseli… Perché se lo sapesse il capo…

Anche Giusy prende il treno alle sei e mezza e sono dieci anni che prende treni. Prima per andare a studiare, ora per andare a lavorare. Che fa? «Programmatrice business objects». Ah ok, idem come sopra, tutto chiaro. La data del suo matrimonio è fissata per il 4 luglio «ma non posso permettermi il viaggio di nozze, lo farò ad agosto, quando la mia azienda mi lascia». Eh già, perché l’azienda oggi conta. Chiude l’ufficio ogni sera alle sette e mezza, Giusy, e poi si fa un’oretta di treno, prima di entrare in casa: «Doccia, cena e un quarto d’ora di televisione con il mio cucciolo. Poi sveniamo nel sonno, entrambi sul divano». Il cucciolo, un cagnolino? «No, il mio lui, viviamo già insieme da un annetto». E lui che fa nella vita? «Il sales account in una società finanziaria anche lui a Milano. Solo che lui non ha orari e viaggia in auto». Perfetto: e a quando casa a Milano? «Mai. Costano troppo». Giusy è preoccupata perché quando si sarà sposata, la sua azienda aprirà un nuovo brand, e sarà lei a occuparsene: potrebbe lavorare dodici ore, una in più di adesso.

Sullo stesso binario, alla stessa ora, c’è Carla che è già sposata e un figlio lo ha partorito due anni fa: lo lascia ogni mattina all’alba da sua madre che lo porterà all’asilo nido, dal quale, sempre sua madre, lo preleverà nel pomeriggio. Lei, Carla, rivedrà il suo bimbo alle otto, per cena: «Poi alle nove, va a nanna, il mio frugolino». E lei stira e fa il bucato. Il marito c’è stato fino a un anno fa: «Poi se n’è andato». Dove? Non è dato a sapersi, ma con chi lei lo sa bene. Storia finita. Ora Carla sogna di aprire un negozio di abbigliamento al suo paese, a un’ora da Milano: «Ma non posso permettermelo, mi toccherebbe fare un mutuo, e per iniziare un’attività commerciale, in Italia, paghi troppe tasse. E poi ci sono gli studi di settore: se non lavori, paghi lo stesso. Perché, secondo lo Stato, se un commerciante non guadagna, significa che evade le tasse… E ti danno della disonesta». E allora che fa? «Addetta al servizio it per una compagnia assicurativa». E che vuol dire? «Faccio da interfaccia verso gli outsourcer». Urca, roba seria. Per undici ore al giorno. «Così è la vita»

Tre storie di donne pendolari, che oggi sono molto diverse da quelle della generazione precedente che facevano le ragioniere, le sarte, le segretarie. Dottori e dottoresse escono a migliaia dall’università con lauree a pieni voti e le lacrimucce di mamma e papà. E con un pezzo di carta in mano, un titolo che deve per forza contare, ora: e li trasformerà in alieni.

Soppresso

Guardi lo schermo, unico segno di civiltà delle tua stazione, e leggi una parola sola: soppresso. «Ah! E quello dopo?» Soppresso. «E quello dopo ancora?». Forse soppresso, forse no, tanto c’è tempo. E resti lì sul binario, fermo come il semaforo che all’uscita della stazione è acceso sul rosso. Nelle stazioni in centro, c’è abbastanza vita per tirare due o tre vadavialcù in faccia a qualcuno, ma sulla banchina dimenticata di un avamposto di periferia, hai solo l’aria fredda che ti sbatte in faccia a cui imprecare, quella sollevata dai treni “vip” che passano, vanno e lì non fermano mai.
Ci sono tanti modi per trascorrere una serata, si dice: poi, la routine quotidiana spinge quasi tutti o davanti a un televisore o davanti a un piatto di pasta, ma poi ci si riduce a fare entrambe le cose nello stesso momento. Fine della giornata.
Se invece sei pendolare, c’è il sorteggio della soppressione quotidiana da mettere in conto: negli slanci di devozione, infatti, ogni viaggiatore delle linee “hot” attorno a Milano inserisce d’abitudine nella litania anche “non darci oggi la soppressione quotidiana”.
Ma se il sorteggiato sei tu, allora la serata cambia; il tempo diventa metafisico, scorre, e non serve a nulla starsene a brontolare. Hai tempo per pensare, tanto. E magari dare una sbirciatina ai quotidiani stropicciati del mattino, visti e rivisti, ma sui quali c’è sempre qualcosa di non letto. «Bisognerebbe sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno», diceva Oscar Wilde: ma quando il treno non c’è, ti rimane ben poco in mano.
Nelle pagine di economia, distrattamente, t’imbatti in un nome: Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie dello stato, illustre economista e cavaliere di Gran croce. E pensi alla tua gran croce, mentre t’immagini il signor Innocenzo seduto in un lounge restaurant di lusso, con in mano un calice di champagne, a parlare di economia e di alta velocità. E tu lì, fermo, senza velocità: ma con una gran voglia di pisciare, senza speranza di trovare una toilette aperta o un angolo buio. Cipolletta parla di alta velocità, davanti a un caminetto e a uomini in giacca Armani: lo dipingi così, circondato da manager che viaggiano solo in aereo; mentre tu, con il giubbotto sgualcito e l’ultimo chewing gum ormai consumato e stramasticato, hai la sola certezza che il signor Innocenzo non sta pensando a te.
No, meglio non soffrire e immaginare altro, mentre sfogli quel che resta di un quotidiano ormai vecchio per tutti, tranne che per te: e c’è l’oroscopo, là in fondo, ormai scaduto. Dai una sbirciatina al tuo segno, quello dei pesci, per vedere cosa aveva previsto per oggi: “In amore sarà la tua grande giornata, le stelle prevedono per te grandi e caldi momenti, soprattutto in serata”. E ti vedi circondato da quattro soubrette, sempre in quel lounge restaurant, ma con saletta riservata… Chissà quale trionfo di virilità ti sarebbe toccato, se il tuo treno non fosse stato soppresso. E, senza volerlo, mentre ormai trattieni a stento la pipì, ti vien soltanto un pensiero: chissà se Cipolletta è del segno dei pesci…

Il fantasma del panzerotto

Si parla di fantasmi e panzerotti, sul treno del lunedì. Lo stress da pendolare può arrivare a guastare anche la pausa pranzo, se capita di intercettare su Facebook la notizia della chiusura del fornaio Luini, un’istituzione della Milano studentesca e lavoratrice, il re del panzerotto.
Quel saccottino ripieno di formaggio e pomodoro, servito rigorosamente freddo fuori e incandescente all’interno, è il simbolo della Milano che “mangia in pè”, antesignano meneghino del moderno fast food: la notizia, captata dalla rete, finisce in carrozza. Quanto basta per scatenare un dibattito acceso e partecipato che ha l’effetto, comunque lodevole, di archiviare subito i commenti su Sanremo. I panzerotti sono una cosa seria, ben più di quattro gorgeggi stonati di Emanuele Filiberto: le controindicazioni non ne giustificheranno mai la rinuncia. In primis, quello schizzo di pomodoro, puntuale e bastardo che, al primo morso, finisce per compromettere giacche a vento, tailleur o camicie firmate.
La tradizione non può morire così. Ai pendolari occorrono certezze, poche, ma rinfrancanti: e il panzerotto del Luini è una di queste. Finché un fantasma che si firma Alessandro Richmond decide di divulgare la notizia, su Facebook, della chiusura del celebre fornaio. Il panico si scatena in ogni direzione, reale o virtuale.
Del resto, i blog o i social network sono i nuovi dogmi, sui quali si basa l’odierna ricerca della verità. Ricordo mia nonna che, da donna di campagna, fuori dal mondo, si era trasformata, qualche anno fa, in autorevole opinionista su tutto, grazie alla televisione. La sua fonte era il Tg4 del noto Emilio Fede, dal quale attingeva per qualsiasi informazione, al grido di: «l’ha detto la tivù, allora è vero». Allo stesso modo, i giovincelli apostoli dei nuovi media, sollevano il calice e consacrano i propri social network.
E così, la notizia della chiusura del celebre panzerottaio è passata da Facebook alle labbra dell’autorevole Linus (forse travestito da mia nonna), che l’ha diffusa nell’etere di Radio Deejay e l’orrendo pettegolezzo, con un fantastico telefono senza fili, è piombato in tutte le strade di Milano, si è propagato in tutti i locali chiusi, fino alle carrozze dei treni. Fino a noi pendolari del lunedì, appunto.
Si diffondono la polemica e il disorientamento: tra la stazione di Casorate Sempione e quella di Canegrate, c’è qualcuno che pensa addirittura di farla finita e passare al nemico, al più celebre tra i fast food americani. Finché, in direzione ostinata e contraria arriva la smentita: partita via Facebook, diffusa da Linus e propagata in tutto il mondo, fino alla carrozza di un treno locale che, nel frattempo, sta per entrare a Milano. Siamo salvi. «Ma sarà vero?», domanda qualcuno. «Vero cosa?», e sì’insinua la confusione generale.
La settimana comincia con i dubbi del panzerotto che, qualche fortunato, proverà a fugare in pausa pranzo, come sempre, direttamente dal celebre fornaio dietro il Duomo. Il mistero, ora, riguarda più quel tale Alessandro Richmond, divulgatore della notizia, in qualità di autorevole fantasma. E un espertone di storia moderna, che non manca maiin un vagone pendolari, è sveglissimo in carrozza e cita un ricorso storico.
Alla fine dell’Ottocento, infatti, comparve più volte nei pressi del parco Sempione, all’angolo con via Paleocapa, una dama velata che invitava con un cenno i giovani a seguirla per i viali del Parco finché, dopo lunghi giri, li faceva entrare in una villa elegantemente arredata, ma deserta e completamente ricoperta di parati di velluto nero. Qui dopo aver danzato al suono di una musica misteriosa, i malcapitati giovani avevano la sorpresa di scoprire che il volto della silenziosa signora, sotto il velo, aveva le fattezze di un macabro teschio. Dopo alcuni di questi “incontri ravvicinati”, furono organizzate diverse ricerche della misteriosa villa nel Parco, ma invano. Presto, nascerà un gruppo anche su Facebook, statene certi.

Da una nota di agenzia del 2154

“Manderanno un messaggio per dirci che loro possono prendersi tutto quello che vogliono ma, noi manderemo il nostro messaggio…Questa, questa è la nostra terra!” (Jake Sully, Avatar)

Milano, 3 febbraio 2154
Si cerca l’unobtanium anche a Milano, qualche giacimento era già affiorato centocinquant’anni fa, durante gli scavi per la nuova city e l’Expo 2015, ma ora il prode Jake Sully, di professione ministro per la semplificazione biologica, avrà il compito di scovarne i filoni più redditizi. Il presidente della compagnia interplanetaria terrestre, l’immortale cavalier B, ha dato l’ordine: falliti svariati tentativi di far ripartire il nucleare in Italia, a causa dell’eccessivo pessimismo del popolo, la nuova fonte di energia ci garantirà ottimismo e serenità.
L’unobtanium ci salverà, ma resta ancora una formalità da sbrigare: sgomberare la metropoli di Milano. La forza interplanetaria sta ora consultando i manuali lasciati negli archivi virtuali dagli assessori d’inizio millennio, il destino dei pochi abitanti sopravvissuti all’inquinamento è segnato. I milanesi, che rifiutandosi di ascoltare i consigli dei medici di fuggire dalla città, sono ormai dei puffi blu, alti tre metri, che vivono su una città albero. Un tempo, questa popolazione era in grado d’interfacciarsi con ogni creatura del pianeta: rimasta per decenni insensibile ai richiami e agli allarmi di cardinali, scrittori e saltimbanchi, vive ora come uno stormo di cornacchie, in nidi riscaldati da televisori.
Per poter comunicare con loro, con i puffi meneghini, la forza interplanetaria ha pensato di trasformare il prode Jake Sully in un avatar, ovvero l’incrocio tra un umano e un milanese: un pendolare. Il futuro nostro dipenderà dunque da questo umanoide trasformato da secoli di trasferimenti sulle ferrovie locali.

Via da Milano, per non soffocare

Nebbia ha appena sfogliato il giornale, seduto al tavolino del bar dell’angolo, e si appresta a fare la valigia: “i pediatri prescrivono alle famiglie di portare i propri figli fuori da Milano”. Non un consiglio, ormai è una terapia. «L’aria è pesante. A me sembrava soltanto un po’ più fredda del solito – dice ad alta voce, di fronte al solito capannello di affabulatori del mattino -, si vede che ormai sono assuefatto. Ma ora che Clementina va via, la seguo anch’io».
Idealista senza briglie, con la sagoma di un cespuglio, nato e cresciuto con la voglia di libertà, quella che Milano ha mortificato e trasformato in alienazione, come accade a molti che approdano in periferia e rimangono intrappolati. Nebbia fa le valigie per seguire l’amore: proprio così, sotto chili di barba e capelli, c’è il volto di un innamorato. Un cuore che non batte più per la politica, ma per una trapezista del circo: Clementina ha vissuto a Milano per anni, esibendosi sotto questo o quel tendone, quello di ogni circo che passava di lì e in città si fermava. Artista stanziale di uno spettacolo ambulante, per anni trapezista precaria, a contratto settimanale.
Un amore, quello tra Nebbia e Clementina, sbocciato una mattina, proprio lì di fronte al bar della Certosa: la trapezista era in lacrime, seduta al tavolino, in attesa di un punch al gusto di rabarbaro. Nebbia vedendola così affranta le si fece incontro, con l’intenzione di consolarla con qualche sua parola. Ma Clementina non era delusa della vita, bensì piegata dalla congiuntivite: congiuntivite allergica, stessa patologia di migliaia di milanesi di questi tempi.
Una trapezista con la congiuntivite non può avere futuro in questa città. Meglio essere nomadi, dunque, con la valigia in mano, la polvere di gesso sulle dita e il collirio in tasca: Clementina ha scelto di partire, Nebbia con il cuore di un ragazzino al primo amore ora è deciso a seguirla. Anche in capo al mondo, molto più probabilmente fino al campo base di qualche piccolo circo stanziato nella campagna lombarda o piemontese, ai confini di un borgo silenzioso che odora soltanto di cenere di legna che fuoriesce dai camini e di letame che, di questi tempi, viene sparso nei campi circostanti.
Stamane Nebbia sembra ringiovanito, nonostante i suoi polmoni intasati dal tabacco: lui che ha scelto l’inquinamento come gesto volontario quotidiano, innamorato di un’artista che non può continuare a vivere in una città che soffoca. Leggeva Voltaire, ora è passato a Prevert.
Il mattino, in queste giornate di febbraio, ripropone in periferia gli stessi lenti fotogrammi di sempre. Sotto il cavalcavia di viale Certosa, uomini senza volto e senza identità, tremano e tossiscono sotto la cappa gelata della metropoli dopo aver passato la notte lì, sopra un materasso di cartone: uomini ombra o soltanto ombre di una società che non sa se allontanarli come clandestini o semplicemente dimenticarli, come chincaglieria da soffitta. La quotidianità va in scena, come sempre, anche nei giorni che a Nebbia sembrano diversi.
Scrive Antonio Scurati su La Stampa: “Vivo a Milano, come tutti. Appartengo all’umanità, una specie destinata all’estinzione, come tutte”. Nebbia legge e sospira: con Clementina prende un treno e prova a salvarsi. In contromano rispetto ai pendolari scampati alla crisi. A suo modo, parlerà della vita e della poesia alla donna cannone e al domatore delle tigri: loro sì, l’ascolteranno.

La neve a corso Como

Meno 4 al binario 2, cielo grigio che trattiene la neve a malapena. Prima o poi verrà giù e renderà le rotaie addirittura suggestive. Già mi prefiguro lo scenario da nevicata, con i rumori attutiti, l’aria tersa e il borbottio incessante d’imprecazioni proveniente dalle carrozze popolate da impiegati e stagisti in ritardo…. Perché quando piove…i treni ritardano, quando nevica, pure, quando gelano gli scambi, pure, quando fa troppo caldo, pure….. Ma la metropoli pensa al Natale, Milano ha un sacco di belle proposte da esporre… ieri sera, intanto, a Quarto Oggiaro hanno fatto pulizia. Pulizia di camorristi, in un’isola ai margini, una delle tante, di questa città. Smantellato un clan…quello della cocaina, dicono i giornali. Ma la neve, anche stasera, a corso Como cadrà ugualmente. Purtroppo.