Il mio racconto “ristretto”: a voi la sfida

Tugnìn gettava le reti, quando Angera viveva di lago. Oggi parla ai cormorani: «È tutto vostro, che aspettate?» Dalla riva, pregusta il loro tuffo infallibile.

Amo il racconto breve, ma questo è un racconto “ristretto”: il mio primo racconto ristretto. Venticinque parole. C’è, però, chi si è divertito a restringere ancora di più: “Vendesi: scarpe da bambino. Mai usate.” Questo lo scrisse, forse per scommessa, un certo Ernest Hemingway.

Ci ho provato anch’io, ovviamente per gioco. E ora sfido voi, lettori: vi invito a un simpatico concorso, ideato da Massimo del Caffè la Cupola di Varese. Per chi vuole partecipare: tenete il racconto nei vostri pensieri, andate al Caffè la Cupola (in piazza San Giovanni, davanti alla chiesa della Brunella) e scrivetelo sulla scheda di partecipazione, rigorosamente a penna. Unica regola: il racconto deve avere un massimo di 25 parole. I migliori racconti verranno valutati, in forma del tutto anonima, da una giuria qualificata. Inoltre, verranno letti in una serata “ad hoc”, organizzata dall’associazione “La curiosità letteraria”. Al vincitore, spetterà in premio una preziosa penna stilografica (informatevi a questo indirizzo: caffelacupola@ngi.it)

Chi, invece, non è nella condizione di poter partecipare al concorso (soprattutto per ragioni geografiche), può scrivere il proprio racconto “ristretto” qui, nei commenti a questo post. Non vincerà un bel niente, ma potrà condividere un pizzico della propria creatività con i tanti amici della Tana del topo. Forza, accettate questa sfida!

(In questo blog, verranno pubblicati solo i racconti “ristretti” firmati dagli autori, che dovranno indicare anche la località di provenienza)

La Rica e la sua Angera

Tumtutum, tumtutum. E si è fermato. Erano le 18 di una settimana fa, quando il cuore della Rica ha smesso di battere, chissà, forse dando retta a un cervello che, spegnendosi giorno dopo giorno, gli chiedeva di fermarsi. Aveva sempre avuto una paura terribile della morte, ma negli ultimi tempi non sembrava più così. Erano le 18 di un venerdì umido di fine gennaio e il tramonto aveva appena spento l’ultima fiamma arancione, dietro il Sancarlone: i tramonti di gennaio, sul lago, hanno tinte così forti che le colline del Vergante sembrano davvero investite da un incendio indomabile e quel rosso si riflette nel lago che, quasi sempre, in questa stagione, è uno specchio immobile con dentro un battello che tira l’unica riga sull’acqua.

Tumtutum: dentro la via di mezzo soffiava un silenzio gelido. La Rica apparteneva a un’altra Angera: quella delle cento botteghe, quella del Siro che appendeva i quarti di bue sulla porte della macelleria, quella del lattaio cieco, quella del Lipin e i suoi salami appena fatti, perché gennaio era il mese del purscel, quella di Piola lattoniere e della sua bottega di tutto un po’, quella della Egle e della sua cartoleria profumata, quella del Dorando e le sue arance di prima scelta, quella del Faccin riparatutto, dentro la sua bottega di elettrodomestici, la più polverosa del mondo, quella della Bianca e i suoi sali e tabacchi, comprese le cicche alla fragola a dieci lire l’una, quella del Graziano, o del Mobiglia, ovvero i “figaro angeresi”, quella della Gianina giurnalata, nell’edicola più piccola del mondo, quella dell’Antonio ferramenta e le sue mille viti tranne quella, porca miseria, che serviva a me, quella del Gemelìn che faceva le scarpe a tutti.

L’altra Angera, quella della Rica, aveva il cuore in un’osteria, fumo, briscola e scopa d’assi e quel vino che faceva cantare il paese dei vecchi e dei sognatori, dei barcaioli e pescatori dalle mani cotte dal lago e dal freddo, degli operai della magnesia e dei loro polmoni scossi da potenti colpi di tosse, che li sentivi già in fondo alla via. “Non ti potrò scordare, piemontesina bella” e la spuma nera annacquava la bonarda alla bisogna, per quelli che l’alcol lo reggevano meno o temevano le parolacce delle mogli non appena si fossero accorte della sbornia, dagli aliti pestiferi e da quel russare inconfondibile, che faceva tremare le pareti.

Via alla Rocca e la sua osteria, tinte forti e caricature, mille personaggi come in un quadro di Bruegel: dentro quella strada di Angera, oggi deserta, non si respira più l’odore del fieno delle stalle, i cortili sembrano svuotati. C’erano contadini e furfanti, squattrinati e cantastorie, artisti incompresi e amanti traditi, puttane e donne sante, chierichetti e malandrini, furbacchioni e fessacchiotti, generazione di affamati che, con il suo brulicare, vociare e  cantar stonato, dava ritmo a quel tumtutum, la vita di ogni giorno.  E la Rica a mescere il vino fino a sera, a rimestar la buséca o a friggere alborelle, a far di conto e a tenere testa a un popolo di bevitori, con piglio severo e austero.

Il lavoro e la terra ripagano sempre, ma non come pensano oggi le generazioni del “tutto e subito”. Le regole supreme le detta il cielo, il ritmo lo scandisce il senso della misura di ogni uomo, ovvero la sua scala di valori. La Rica aveva mani callose e mai ferme, anche quando  avrebbe potuto riposarsi e già la sua Angera si stava spegnendo: com’era bella sotto quel cappellone di paglia, dentro al suo orto all’Altinada, fuori dal paese. Con gli occhi più accesi del sole, raccoglieva i tumàtiss più belli e rossi del paese. Dentro quel caldo immobile, dominato solo dal ronzare delle api, il pulsare quasi impercettibile della natura le regalava la felicità. Tumtutum, quanta vita c’era dentro quell’orto,  mentre le case di Angera, anno dopo anno, si mangiavano campi e vigne, fino a circondarlo: ma l’anima del paese, fatta da uomini e donne, e non da cemento e lottizzazioni, si era già estinta.

La Rica, anche lei se n’è andata, dentro a un tramonto di gennaio. Rica, diminutivo di Enrica: non era il suo vero nome, ma non ho mai saputo perché tutti la chiamassero così.

Fiaba per bimbi cresciuti

Un mese con una sola illusione; la vincita ultramilionaria intergalattica. Insomma la soluzione di tutto, in un biglietto della lotteria o in pochi numeri estratti… illusione da spiaggia, cullata col pensiero, a metà tra il sonno e la veglia, sotto un ombrellone. Voglia di provare una sensazione liberatoria: che farò con una montagna di denaro? Il gioco consiste nel fare decine di ipotesi, tutte meravigliose, per alimentare un sollievo virtuale, mentre il sole riscalda le ultime giornate di fannullismo.
Illusione finita anche quest’anno nella rincorsa al treno, al primo treno di settembre, quello del ritorno al lavoro: la sveglia che s’inceppa, le gambe imballate, gli occhi che sembrano non aprirsi. Insomma, niente gira per il verso giusto, al primo giorno: è come se il corpo si rifiutasse di tornare al solito, alienante, viaggio. Colazione saltata, lanciato a digiuno verso un binario che sembra decretare la sconfitta: fuori tempo massimo, ha vinto il treno. Il localaccio puzzolente e polveroso, quello della 6 e 43, se ne va, scorre e scricchiola mentre al volante entro in parcheggio come un pilota di rally.
A quel paese tutti quanti, la lotteria e il primo giorno di lavoro. Ma ora c’è il tempo per prendere fiato e guardarsi attorno: e là, in fondo al parcheggio, c’è un auto con le portiere aperte e un tizio dal volto noto. Charly, il consulente finanziario che lavora giù a Lambrate, prova a farsi la barba alla fontanella della stazione: «Ecco il mio nuovo domicilio» ci scherza su. Fuori di casa per una storia finita, cacciato dalla moglie, ma senza il coraggio di tornare dalla madre: «Sistemazione temporanea, servizio di bed & breakfast incluso». Breakfast al bar della stazione, caffè e brioche: bed con vista cielo stellato su quattro lati, anzi quattro ruote e sedili ergonomici. Charly non corre più per prendere il treno, ce l’ha fuori casa, ora. E anch’egli culla il suo sogno virtuale, per prendere sonno: in fondo si resta bambini, a ognuno la sua favola.

L’autista che vuole cambiare il mondo

Metti un virus nel motore. E se improvvisamente la benzina non servisse più a nulla? Ecco la questione ecologica vista da Sante, autista di autobus, di giorno traghettatore di pendolari e sfigati di giorno, di notte procreatore: ed è già al quinto figlio. Sante, mani e scorza rudi, getta il cuore oltre lo smog stamane, oltre quella polvere invisibile che intacca i polmoni di chi sta giù ad aspettare, alla fermata sul marciapiede.
Quando è al volante fa il predicatore, alla testa del torpedone sembra un condottiero che istruisce la sua truppa. Alle sue spalle, ogni mattina e ogni sera due fedelissimi dell’andata e ritorno, l’Enea e la Giusy, centocinquant’anni in due; gli unici a partecipare al dibattito. Il resto dell’involontaria platea, che egli osserva dello specchietto retrovisore, è una variegata assemblea di dormienti che gli ricorda tanto la gente che seguiva messa alle 6 del mattino, quando da bambino, mamma lo mandava a schiaffoni a fare il chierichetto all’alba. Tutta gente con le palpebre semichiuse, sfatta da una giornata di lavoro, con la voglia di spegnere quel sermone quotidiano così come si spegne l’autoradio quando gracchia.

Ma Sante prende fiato e comincia, tutte le volte, implacabile:
«Ormai siamo condannati a fare una brutta fine.»
«Pensi che l’altro giorno mi è appassita persino la sterlizia. L’avevo pagata trenta euro.», ribatte la Giusy, vispa come una pettegola di paese.
«L’aria è pesante, cara la mea dona, la gente prende il tumore come niente. Tutte le capitali europee soffocano, non c’è scampo l’inquinamento sarà la nostra tomba se non cambiamo, non duriamo altri vent’anni.»
«Beh, io fino a settantanove anni son rivato. Per altri venti ci metto la firma», mette le mani avanti l’Enea.
«L’ha parlà al pussèe bun, ma tu non pensi ai tuoi nipoti? La gente mette al mondo i figli e poi cosa lascia in eredità? Un mondo che va a rotoli, pieno di veleni»
«Con tutta questa gente che chiede la carità dove andremo a finire…», sbuffa la Giusy.
«Non c’è mica da fidarsi sa, non dia confidenza alla marmaglia, sciùra. Poi li vedi ‘sti maruchini tutti a bere birra con il telefonino in mano. Dicono che hanno fame, ma non è mica vero, chiedono la carità e fanno i soldi senza pagar le tasse.»
«Caro Enea, sono troppi, ma che tornino a casa loro. Io sono vecchia mi fanno paura”.
«Perché in Italia, funziona così. Tutto concesso, tutto perdonato, l’è come il Bengodi, ma poi li manteniamo noi quelli lì.»
«A casa loro e di corsa! Sante hai un lavoro? Sì. Loro non hanno un lavoro? Non hanno una casa? Cosa stanno qui a fare.»
«Quando noi avevamo fame, non siamo scappati tutti in Svizzera. Adesso questi cosa pretendono?»
«E poi ci sono gli zingari, è un mondaccio.»
«Con quest’aria qui, non c’è futuro. Anche a Copenaghen hanno problemi.»
«Ma indové Copenaghen?»

Silenzio. Dieci chilometri di tregua, tanto per riflettere: non tanto sulla geografia, quanto sull’ipotesi che tanto assilla l’autista: «I computer vanno in tilt con i virus, ma se capitasse la stessa cosa con la benzina? Un domani potrei venirvi a prendere col cavallo. Pensa che bel mondo diventerebbe! Tutto come una volta. Se potessi pisciar dentro in ogni serbatoio…»

Inquinare la benzina per non inquinare più: tra Milano e la provincia, Sante cova nuove forme di terrorismo. E intanto è lì, fermo in coda, alla barriera di Lainate: «Ah guarda là quell’àsan cunt al suv, lui farà il manager, vardell là. Fermo come me con la mia balena, e col suo bolide al ga trà a sunàa. Quel clacson te lo metto n…»
«Sciur Sante, per misericordia!» la Giusy prova a censurare.
«No, a sa pò no. Non c’è soluzione siamo in troppi, anche noi» riattacca l’Enea.

L’ingorgo svanisce lentamente, il bus riparte, corre incontro al tramonto verso il monte Rosa. Ancora silenzio per altri dieci chilometri. E Sante guida con lo sguardo fisso all’orizzonte tutto rosso e sospira: «A noi provinciali, tutto il giorno a correr dietro a quei milanesi. Persino per mangiare l’hamburger facciamo la coda. Ma non può andar sempre così…»
«Bé el g’ha rasòn» riconosce Enea.
«Ah quella roba lì non fa per me. Ho già la gli asparagi, per stasera. Li faccio con le uova» si reinserisce la Giusy.
«Ah gli asparagi, quelli li mangerei tutti i giorni. Anche se li ho visti un po’ cari dal verdurée. Ma crepi l’avarizia, per certe cose»
«Ma sì, non bisogna stare a guardare tutto. Vadiaviaiciàpp anche all’inquinamento» sentenzia Enea.
«No, non bisogna guardare a tutto, no». Mentre guida e guarda il tramonto, Sante pensa agli asparagi e al sesto figlio. “No, non siamo in troppi, gh’è post anche per lui”, pensa tra sé
Non ha ancora deciso di cosa parlerà domani, della televisione o della violenza negli stadi, della mezza stagione che non c’è più. O forse delle banche: «Sì e indove andremo a finire con ‘sti tassi d’interesse?»

Soppresso

Guardi lo schermo, unico segno di civiltà delle tua stazione, e leggi una parola sola: soppresso. «Ah! E quello dopo?» Soppresso. «E quello dopo ancora?». Forse soppresso, forse no, tanto c’è tempo. E resti lì sul binario, fermo come il semaforo che all’uscita della stazione è acceso sul rosso. Nelle stazioni in centro, c’è abbastanza vita per tirare due o tre vadavialcù in faccia a qualcuno, ma sulla banchina dimenticata di un avamposto di periferia, hai solo l’aria fredda che ti sbatte in faccia a cui imprecare, quella sollevata dai treni “vip” che passano, vanno e lì non fermano mai.
Ci sono tanti modi per trascorrere una serata, si dice: poi, la routine quotidiana spinge quasi tutti o davanti a un televisore o davanti a un piatto di pasta, ma poi ci si riduce a fare entrambe le cose nello stesso momento. Fine della giornata.
Se invece sei pendolare, c’è il sorteggio della soppressione quotidiana da mettere in conto: negli slanci di devozione, infatti, ogni viaggiatore delle linee “hot” attorno a Milano inserisce d’abitudine nella litania anche “non darci oggi la soppressione quotidiana”.
Ma se il sorteggiato sei tu, allora la serata cambia; il tempo diventa metafisico, scorre, e non serve a nulla starsene a brontolare. Hai tempo per pensare, tanto. E magari dare una sbirciatina ai quotidiani stropicciati del mattino, visti e rivisti, ma sui quali c’è sempre qualcosa di non letto. «Bisognerebbe sempre avere qualcosa di sensazionale da leggere in treno», diceva Oscar Wilde: ma quando il treno non c’è, ti rimane ben poco in mano.
Nelle pagine di economia, distrattamente, t’imbatti in un nome: Innocenzo Cipolletta, presidente delle Ferrovie dello stato, illustre economista e cavaliere di Gran croce. E pensi alla tua gran croce, mentre t’immagini il signor Innocenzo seduto in un lounge restaurant di lusso, con in mano un calice di champagne, a parlare di economia e di alta velocità. E tu lì, fermo, senza velocità: ma con una gran voglia di pisciare, senza speranza di trovare una toilette aperta o un angolo buio. Cipolletta parla di alta velocità, davanti a un caminetto e a uomini in giacca Armani: lo dipingi così, circondato da manager che viaggiano solo in aereo; mentre tu, con il giubbotto sgualcito e l’ultimo chewing gum ormai consumato e stramasticato, hai la sola certezza che il signor Innocenzo non sta pensando a te.
No, meglio non soffrire e immaginare altro, mentre sfogli quel che resta di un quotidiano ormai vecchio per tutti, tranne che per te: e c’è l’oroscopo, là in fondo, ormai scaduto. Dai una sbirciatina al tuo segno, quello dei pesci, per vedere cosa aveva previsto per oggi: “In amore sarà la tua grande giornata, le stelle prevedono per te grandi e caldi momenti, soprattutto in serata”. E ti vedi circondato da quattro soubrette, sempre in quel lounge restaurant, ma con saletta riservata… Chissà quale trionfo di virilità ti sarebbe toccato, se il tuo treno non fosse stato soppresso. E, senza volerlo, mentre ormai trattieni a stento la pipì, ti vien soltanto un pensiero: chissà se Cipolletta è del segno dei pesci…

Il fantasma del panzerotto

Si parla di fantasmi e panzerotti, sul treno del lunedì. Lo stress da pendolare può arrivare a guastare anche la pausa pranzo, se capita di intercettare su Facebook la notizia della chiusura del fornaio Luini, un’istituzione della Milano studentesca e lavoratrice, il re del panzerotto.
Quel saccottino ripieno di formaggio e pomodoro, servito rigorosamente freddo fuori e incandescente all’interno, è il simbolo della Milano che “mangia in pè”, antesignano meneghino del moderno fast food: la notizia, captata dalla rete, finisce in carrozza. Quanto basta per scatenare un dibattito acceso e partecipato che ha l’effetto, comunque lodevole, di archiviare subito i commenti su Sanremo. I panzerotti sono una cosa seria, ben più di quattro gorgeggi stonati di Emanuele Filiberto: le controindicazioni non ne giustificheranno mai la rinuncia. In primis, quello schizzo di pomodoro, puntuale e bastardo che, al primo morso, finisce per compromettere giacche a vento, tailleur o camicie firmate.
La tradizione non può morire così. Ai pendolari occorrono certezze, poche, ma rinfrancanti: e il panzerotto del Luini è una di queste. Finché un fantasma che si firma Alessandro Richmond decide di divulgare la notizia, su Facebook, della chiusura del celebre fornaio. Il panico si scatena in ogni direzione, reale o virtuale.
Del resto, i blog o i social network sono i nuovi dogmi, sui quali si basa l’odierna ricerca della verità. Ricordo mia nonna che, da donna di campagna, fuori dal mondo, si era trasformata, qualche anno fa, in autorevole opinionista su tutto, grazie alla televisione. La sua fonte era il Tg4 del noto Emilio Fede, dal quale attingeva per qualsiasi informazione, al grido di: «l’ha detto la tivù, allora è vero». Allo stesso modo, i giovincelli apostoli dei nuovi media, sollevano il calice e consacrano i propri social network.
E così, la notizia della chiusura del celebre panzerottaio è passata da Facebook alle labbra dell’autorevole Linus (forse travestito da mia nonna), che l’ha diffusa nell’etere di Radio Deejay e l’orrendo pettegolezzo, con un fantastico telefono senza fili, è piombato in tutte le strade di Milano, si è propagato in tutti i locali chiusi, fino alle carrozze dei treni. Fino a noi pendolari del lunedì, appunto.
Si diffondono la polemica e il disorientamento: tra la stazione di Casorate Sempione e quella di Canegrate, c’è qualcuno che pensa addirittura di farla finita e passare al nemico, al più celebre tra i fast food americani. Finché, in direzione ostinata e contraria arriva la smentita: partita via Facebook, diffusa da Linus e propagata in tutto il mondo, fino alla carrozza di un treno locale che, nel frattempo, sta per entrare a Milano. Siamo salvi. «Ma sarà vero?», domanda qualcuno. «Vero cosa?», e sì’insinua la confusione generale.
La settimana comincia con i dubbi del panzerotto che, qualche fortunato, proverà a fugare in pausa pranzo, come sempre, direttamente dal celebre fornaio dietro il Duomo. Il mistero, ora, riguarda più quel tale Alessandro Richmond, divulgatore della notizia, in qualità di autorevole fantasma. E un espertone di storia moderna, che non manca maiin un vagone pendolari, è sveglissimo in carrozza e cita un ricorso storico.
Alla fine dell’Ottocento, infatti, comparve più volte nei pressi del parco Sempione, all’angolo con via Paleocapa, una dama velata che invitava con un cenno i giovani a seguirla per i viali del Parco finché, dopo lunghi giri, li faceva entrare in una villa elegantemente arredata, ma deserta e completamente ricoperta di parati di velluto nero. Qui dopo aver danzato al suono di una musica misteriosa, i malcapitati giovani avevano la sorpresa di scoprire che il volto della silenziosa signora, sotto il velo, aveva le fattezze di un macabro teschio. Dopo alcuni di questi “incontri ravvicinati”, furono organizzate diverse ricerche della misteriosa villa nel Parco, ma invano. Presto, nascerà un gruppo anche su Facebook, statene certi.

Tramonto con castorino maggiorato

Il tramonto di febbraio ha qualcosa di magico, visto dal treno. A chi ha ancora la lucidità per accorgersene, guardando oltre il vetro sporco o scarabocchiato dai writers, quel rosso fuoco, che quasi t’illumina il viso, mentre dalla città sali verso la provincia, cambia l’umore. Aiuta a pensare. Del resto, sulle carrozze dei localacci, c’è tanto tempo per pensare. E le alternative sono poche: o rimani con la testa ancora impegolata a quel che hai lasciato alle spalle, ovvero a una scrivania sempre zeppa di magagne, o vai oltre, a quello che ti aspetta una volta sceso dal treno. E se quel che ti attende è proprio là, dove scende il sole e incendia il cielo, allora vien la voglia di fare un bel respiro e pensare positivo.
Il senso di alienazione che spesso ha la meglio, in quel monotono andare e venire, sembra allentarsi e aprire nuove prospettive: già, perché ora non si torna più con il buio. Si rientra a casa quando ancora ci è concesso di catturare gli ultimi fotogrammi di luce, quelli più caldi e suggestivi. C’è il Monte Rosa, là all’orizzonte, che sembra un gigante e il bagliore del tramonto quasi gli dà vita: certo, ma soltanto, agli occhi di un pendolare che abbia ancora fantasia.
C’è una signora impellicciata, seduta due sedili più in là. Un fagotto di donna, con permanente old style e doppiomento. Sembra lei stessa il castorino che ha indosso: di fronte ha un giovane cingalese, con in mano un mazzo di rose, diretto a un semaforo di un paese di provincia, dal quale proverà a fare piccoli affari per San Valentino, contando sugli innamorati squattrinati e sbrigativi. Due euro a rosa e la questione è risolta. Perché è il pensiero che conta.
La signora “castorina”, ha un cellulare incollato all’orecchio e parla a “macchinetta”, tralasciando ogni contegno. E così, senza nemmeno essere amici su Facebook, ognuno dei presenti finisce per farsi inevitabilmente gli affari di quella pelliccia parlante.
«No perché sai, cara… l’altra sera da Vespa si è detto che il regalo più “in”, quest’anno è il seno nuovo…»
Tutti i presenti, senza volerlo, hanno cominciato a immaginarsi un castoro riccioluto con due enormi tette, trattenute a stento da un bottone sofferente. C’è chi cerca rifugio nelle pagine dell’ultimo libro di Dan Brown, chi spulcia gli annunci economici di un quotidiano e finisce per consultare quelli delle astrocartomanti, c’è chi gioca a solitario sul cellulare e chi prova a prenotare le vacanze: ma la mente fa brutti scherzi e non riesce a rinunciare a prefigurarsi un roditore peloso con la permanente che avanza minaccioso, ancheggiando come Belen Rodriguez. Forse è anche per questo che il desiderio sessuale dei pendolari è un fenomeno raro che si manifesta, nei casi più fortunati, soltanto nei fine settimana. Colpa dell’immaginazione e dello stress. Ma per fortuna, c’è il tramonto che riconcilia ogni pensiero con la natura.
Mentre la signora impellicciata continua a borbottare di protesi e regali, il giovane cingalese ha come un sussulto, non rivolto all’improbabile maggiorata, bensì all’orizzonte, arancione e meraviglioso. Il treno sta rallentando, sta per entrare in stazione, mentre i binari lambiscono i centri commerciali: come d’istinto, prima di alzarsi dal posto e scendere dalla carrozza, indica alla signora lo spettacolo del cielo.
Lei, improvvisamente, si zittisce, rimanendo con il cellulare sempre attaccato all’orecchio, si sporge dal sedile per vedere fuori dal finestrino, si china quanto basta per far comparire un triplo mento. Un istante e ritorna ad appoggiarsi allo schienale riprendendo la sua chiacchierata: «Ah sì scusa, mah non è niente, un extracomunitario mi ha indicato un’insegna, fanno gli sconti sullo yogurth magro. Ma dimmi tu, non sanno più come importunarti…».

Da una nota di agenzia del 2154

“Manderanno un messaggio per dirci che loro possono prendersi tutto quello che vogliono ma, noi manderemo il nostro messaggio…Questa, questa è la nostra terra!” (Jake Sully, Avatar)

Milano, 3 febbraio 2154
Si cerca l’unobtanium anche a Milano, qualche giacimento era già affiorato centocinquant’anni fa, durante gli scavi per la nuova city e l’Expo 2015, ma ora il prode Jake Sully, di professione ministro per la semplificazione biologica, avrà il compito di scovarne i filoni più redditizi. Il presidente della compagnia interplanetaria terrestre, l’immortale cavalier B, ha dato l’ordine: falliti svariati tentativi di far ripartire il nucleare in Italia, a causa dell’eccessivo pessimismo del popolo, la nuova fonte di energia ci garantirà ottimismo e serenità.
L’unobtanium ci salverà, ma resta ancora una formalità da sbrigare: sgomberare la metropoli di Milano. La forza interplanetaria sta ora consultando i manuali lasciati negli archivi virtuali dagli assessori d’inizio millennio, il destino dei pochi abitanti sopravvissuti all’inquinamento è segnato. I milanesi, che rifiutandosi di ascoltare i consigli dei medici di fuggire dalla città, sono ormai dei puffi blu, alti tre metri, che vivono su una città albero. Un tempo, questa popolazione era in grado d’interfacciarsi con ogni creatura del pianeta: rimasta per decenni insensibile ai richiami e agli allarmi di cardinali, scrittori e saltimbanchi, vive ora come uno stormo di cornacchie, in nidi riscaldati da televisori.
Per poter comunicare con loro, con i puffi meneghini, la forza interplanetaria ha pensato di trasformare il prode Jake Sully in un avatar, ovvero l’incrocio tra un umano e un milanese: un pendolare. Il futuro nostro dipenderà dunque da questo umanoide trasformato da secoli di trasferimenti sulle ferrovie locali.

Via da Milano, per non soffocare

Nebbia ha appena sfogliato il giornale, seduto al tavolino del bar dell’angolo, e si appresta a fare la valigia: “i pediatri prescrivono alle famiglie di portare i propri figli fuori da Milano”. Non un consiglio, ormai è una terapia. «L’aria è pesante. A me sembrava soltanto un po’ più fredda del solito – dice ad alta voce, di fronte al solito capannello di affabulatori del mattino -, si vede che ormai sono assuefatto. Ma ora che Clementina va via, la seguo anch’io».
Idealista senza briglie, con la sagoma di un cespuglio, nato e cresciuto con la voglia di libertà, quella che Milano ha mortificato e trasformato in alienazione, come accade a molti che approdano in periferia e rimangono intrappolati. Nebbia fa le valigie per seguire l’amore: proprio così, sotto chili di barba e capelli, c’è il volto di un innamorato. Un cuore che non batte più per la politica, ma per una trapezista del circo: Clementina ha vissuto a Milano per anni, esibendosi sotto questo o quel tendone, quello di ogni circo che passava di lì e in città si fermava. Artista stanziale di uno spettacolo ambulante, per anni trapezista precaria, a contratto settimanale.
Un amore, quello tra Nebbia e Clementina, sbocciato una mattina, proprio lì di fronte al bar della Certosa: la trapezista era in lacrime, seduta al tavolino, in attesa di un punch al gusto di rabarbaro. Nebbia vedendola così affranta le si fece incontro, con l’intenzione di consolarla con qualche sua parola. Ma Clementina non era delusa della vita, bensì piegata dalla congiuntivite: congiuntivite allergica, stessa patologia di migliaia di milanesi di questi tempi.
Una trapezista con la congiuntivite non può avere futuro in questa città. Meglio essere nomadi, dunque, con la valigia in mano, la polvere di gesso sulle dita e il collirio in tasca: Clementina ha scelto di partire, Nebbia con il cuore di un ragazzino al primo amore ora è deciso a seguirla. Anche in capo al mondo, molto più probabilmente fino al campo base di qualche piccolo circo stanziato nella campagna lombarda o piemontese, ai confini di un borgo silenzioso che odora soltanto di cenere di legna che fuoriesce dai camini e di letame che, di questi tempi, viene sparso nei campi circostanti.
Stamane Nebbia sembra ringiovanito, nonostante i suoi polmoni intasati dal tabacco: lui che ha scelto l’inquinamento come gesto volontario quotidiano, innamorato di un’artista che non può continuare a vivere in una città che soffoca. Leggeva Voltaire, ora è passato a Prevert.
Il mattino, in queste giornate di febbraio, ripropone in periferia gli stessi lenti fotogrammi di sempre. Sotto il cavalcavia di viale Certosa, uomini senza volto e senza identità, tremano e tossiscono sotto la cappa gelata della metropoli dopo aver passato la notte lì, sopra un materasso di cartone: uomini ombra o soltanto ombre di una società che non sa se allontanarli come clandestini o semplicemente dimenticarli, come chincaglieria da soffitta. La quotidianità va in scena, come sempre, anche nei giorni che a Nebbia sembrano diversi.
Scrive Antonio Scurati su La Stampa: “Vivo a Milano, come tutti. Appartengo all’umanità, una specie destinata all’estinzione, come tutte”. Nebbia legge e sospira: con Clementina prende un treno e prova a salvarsi. In contromano rispetto ai pendolari scampati alla crisi. A suo modo, parlerà della vita e della poesia alla donna cannone e al domatore delle tigri: loro sì, l’ascolteranno.

Lo stalking della bistecca

Ugo serve il brasato ai pendolari, ma Zaccaria, oggi, non è in fila con gli altri: è appoggiato al vetro del bancone delle pietanze, non ha fame, ha soltanto voglia di parlare. L’oste, invece, ha una fila lunga così, quanto il tram 14 che passa lì di fronte, di gente da sfamare, con la pancia vuota e i minuti contati: «Uè, non venir qua a menare il torrone, se ce l’hai col Milan lassa perd».
«Ma no, il calcio non c’entra, questioni di cuore».
«Oh Signùr, per il cuore spetta più tardi che smaltisco la coda degli affamati, per il fegato, invece, ciapa qui un piatt: è alla veneziana», e gli porge la pietanza. Mangia nell’angolo, Zaccaria, mastica lentamente e non riesce, quasi a inghiottire.

Ugo lo scruta dall’alto verso il basso, quella faccia da pesce lesso non lo convince proprio. Finita l’ora di punta della pausa pranzo, l’oste gli si piazza seduto di fronte e lo osserva, faccia a faccia. Zaccaria deglutisce e attacca il discorso: «Ti sentiresti offeso se trovassi una bistecca cruda nella borsetta?».
L’ex terzino prestato alla cucina meneghina strabuzza gli occhi e tossisce: «Dipende se la borsetta è di coccodrillo o pel da logia».
«Non sto scherzando, Ugo. Ti arrabbieresti a sentire la fettina umida dentro la borsetta?».
«Dai sputa tutto, che razza di domanda è questa…».

Era la risposta che attendeva, Zaccaria è come un fiume in piena: abbassa gli argini e si svuota di tutte le amarezze. Deluso in amore, è un recidivo col cuore infranto: non fa a tempo a ricucire le ferite che si procura un nuovo strappo. Sulla soglia dei quaranta, scapolo a oltranza, ormai punta ragazze nubili a tappeto, è diventato un corteggiatore da sfinimento. «Non è la qualità che conta, ma la quantità: a un certo punto». Già, la quantità è uguale a zero, la qualità è ormai un concetto astratto nei suoi pensieri. E vendicare i due di picche è diventato il suo secondo passatempo, perché le ferite aperte fanno ormai fatica a rimarginarsi, a quell’età, per uno che non si rassegna alla pace dei sensi o al sesso a pagamento. «Io sono un sentimentale, non un mercenario di carne da macello», ha sempre sostenuto con orgoglio. Anche se la carne, in realtà, la maneggia tutto il giorno, come aiuto macellaio al piccolo supermercato sulla strada verso Pero: e fu proprio lì, mentre maneggiava un pezzo di biancostato, che gli venne l’idea.

La sua prima vittima fu Irma Vanetti, un’impiegata delle poste che una mattina si ritrovò una cotoletta al sangue nella pochette di Gucci, mentre si concedeva un caffè: infilando la mano per estrarre la moneta, proprio davanti alla cassa del bar, sentì tra le dita una flaccida consistenza e quasi gli prese un colpo. Come colpita da raptus, istintivamente, tirò fuori quella roba informe e la lanciò: la bistecca, solo in quel momento capì di cosa si trattava, andò a spiaccicarsi sulla parete dietro al flipper, lasciando una striscia di sangue sul muro: come nei delitti da film horror.
Da allora, le vendette che si compirono furono a decine: come un giustiziere seriale, si prendeva quella rivincita anonima, a ogni due di picche. E agiva con la stessa abilità di un grande borseggiatore, ma al contrario. Tanto che, al comando della polizia locale, il vendicatore della bistecca era diventato un mito: e il comandante Sgarzon non vedeva l’ora di beccare il colpevole con le mani nel sacco (già proprio così) per vedere in faccia, il volto di quel sanguinario affettabovini.

Un’altra volta, infilò un osso da lesso nella borsa di Carmen Spataro, napoletana emigrata al Musocco, ma innamorata di Evandro, il ragazzo dogsitter, proprio al primo appuntamento, al parco di Trenno: e fu un disastro. Alla vista della ragazza, Evandro si sentì come trasportato dagli eventi: in balìa di quattro doberman che teneva al guinzaglio, terminò la sua corsa a cavalcioni della povera malcapitata, svenuta per la paura. Tremendissima vendetta, quella di Zaccaria.
Come quel giorno in cui colpì la povera Benedetta Lafava, dopo essersi negata a un mese di avances: scoprì soltanto dopo, il malandrino, che la ragazza aveva una totale avversione per gli uomini e i loro attributi, per via di un trauma adolescenziale, ovvero la valanga di sfottò rimediati a scuola, per via del nome. La Benedetta, quella triste mattina, fini al pronto soccorso in preda a un attacco di panico: l’allergia non le dava pace e a furia di starnuti si ritrovò a soffiare il naso dentro una fetta di carpaccio, scambiata, nella foga, per un fazzolettino umido, riposto nella sua borsetta, proprio accanto al portafoglio.

Ora confessa tutto, Zaccaria: vuota il sacco, davanti all’amico ristoratore, abituato costui a celebrare la bistecca in ben altro modo. E chiude, con un sospiro e un avvertimento: «Lo so, è questione di pochi minuti e verranno a prendermi. Con la Jole, non ce l’ho fatta a resistere, mi ha beccato».
Ugo sta lì a bocca aperta, come uomo di pietra, investito da una frana.

La Jole è la titolare di un negozio di lapidi e monumenti funerari che si trova a due passi dalla trattoria: per un mese Zaccaria l’ha corteggiata e sognata ogni notte. Le ha scritto lettere d’amore, poesie strappalacrime che, in realtà, hanno sortito soltanto uno sputo: proprio così, la Jole, esausta per i suoi continui assalti, non ne poteva più e ha pensato di liberarsi del suo spasimante con un gesto estremo, sfrontato. Uno sputo in faccia, sparato a bruciapelo, assolutamente imprevedibile, mentre le si avvicinava a lui con fare suadente, in tailleur rosso e con il volto truccato da balera e capelli raccolti dietro la nuca. Lui l’aveva guardata, pregustando il bacio e la resa, ma si è ritrovato con l’onta peggiore nell’occhio destro. Centro pieno, cuore distrutto.

Soffrire per amore, ci stava, ma umiliato no: la rappresaglia doveva essere pazzesca. Degna di Zaccaria. Ma non più con una semplice fettina, bensì con una frisona di prima qualità, chiesta a prestito all’allevamento di zio Cino, un parente uno po’ svitato per colpa di uno zoccolo in fronte rimediato durante la mungitura, anni fa. Zaccaria era arrivato a piedi, dalla cascina vicino a Bollate, e aveva fatto il suo ingresso nel locale esposizioni della Jole, tirandosi dietro quello splendido esemplare di vacca, proprio mentre si stava ultimando il pagamento di una tomba lì in bella mostra, da parte dei parenti del Callisto del Musocco: la moglie Adelina lo aveva abbandonato portandosi via la foto di Mariolino Corso, il suo idolo. E lui da allora, non fu più in sé: decise di farla finita con un’arma impropria, il fast food in fondo al cavalcavia, a colpi di hamburger e crocchette di pollo.

Callisto si era spento come una candella consunta, nel silenzio del locale deserto: il suo respiro era venuto meno al cospetto della quarantaduesima pepita impanata, inzuppata nel ketchup. Senza figli e con la moglie chissà dove, poteva contare ora soltanto sulla benevolenza della cognata Clotilde e di quattro pronipoti che, di fronte alle proposte in stile teleimbonitrice della sciantosa Jole, non avevano battuto ciglio: secondo il parentado, al Callisto sarebbe bastata quella tomba in finto marmo bianco già lì esposta e pronta all’uso, niente di meglio di un’offerta last minute, degna di una vittima del fast food.
Proprio nell’atto di regolare le ultime formalità, davanti al bancone del negozio, il piccolo capannello di parenti veniva interrotto da un muggito in stereofonia, suono terrificante, amplificato dalle pareti vuote del locale. Nel voltarsi verso l’ingresso, i cinque malcapitati aprirono uno scorcio di visuale alla Jola che, riconoscendo Zaccaria accompagnato dal quadrupede, aveva cominciato a strillare come una posseduta dal demonio.
L’innamorato non corrisposto e umiliato si era limitato a una sola frase di rivalsa: «Chi vosa pussé la vaca l’è la soa. E allora sputa sul muso a sta bestia». E se n’era andato abbandonando il bovino in vetrina, tra le lapidi in esposizione.

Fine del racconto: Ugo ha le mani nei capelli e guarda ancora impietrito Zaccaria, lasciandosi sfuggire un “tesemàtt”. «Aspetto che vengano a prendermi, lo so che sono qui. Ho saputo che è anche un reato sta cosa qui, la chiamano in inglese, una parola tipo staching», conclude il matto ripudiato dall’amata.
«Per me è scemenza, altro che staching», replica l’amico.
Ecco, poco dopo, due gendarmi in trattoria a chiedere di un tipo strano: Zaccaria si alza e si consegna, con la testa bassa, come il peggiore dei malfattori. «Vai dalla Jole a riprendere la mucca di zio Cino, per favore», dice all’oste.

Ugo rispetta le consegne, per compassione più per la povera bestia che per quell’idiota di Zaccaria. Al discount del caro estinto, la frisona aveva già sparso panico e sterco ovunque: al suo ingresso, Ugo avverte l’odore della tragedia, che sa stalla più che dell’incenso che si usa di solito in quel posto. Anche le immagini non sono da meno: la Clotilde, nonostante la sciatica e il mal di schiena, è avvinghiata alle spalle di un Cristo benedicente in bronzo di tre metri, il rifugio più sicuro per sfuggire alla terribile creatura della campagna. I quattro pronipoti, invece, sono in ginocchio attorno alla Jole, svenuta e a terra: litigano per chi deve farle la respirazione bocca a bocca, anche se lei tenta di respingerli con le mani. Sulla tomba bianca del Callisto, spicca ora un’enorme torta similcioccolato e fumante. Ugo scuote la testa e recupera la corda la collo della povera bestia e la aiuta a uscire da quel pandemonio. Ha un solo pensiero: «Eh Callisto Callisto, se fossi venuto da me, invece di andare a mangiare dagli americani, saresti ancora qui a litigare per l’Inter».