Ricomincio da Cyrano

Dov’è finito? Quel topo non è costante, non scrive più, ha altri pensieri per la testa, ma un blogger che si rispetti non può non aggiornare il suo diario. Un blogger a singhiozzo, tra Milano e la provincia, più che un topo una lumaca…

No, ragazzi, il topo ha voluto lasciar sedimentare molti, tanti, troppi pensieri di un periodo intenso, difficile, complicato, importante: e poi è tornato a pubblicare. Ispirazione ai minimi? Niente affatto, ero fermo per troppe idee, troppi pensieri.

Non sopporto i bulimici da scrittura, perché non riesco a concepire la parola in pubblico e la narrazione, come un esercizio fine a se stesso: detesto i diari imposti a interlocutori passivi. Mi dà l’idea di essere dentro una sala d’attesa di parrucchiere per signora, con blablà a nastro che si diffondono anche senza veri e interessati interlocutori. Concepisco la scrittura come l’esercizio per un ipotetico, ma reale, lettore, e non come un troppo virtuale esercizio per grafomani. Abusare dei lettori è troppo triste e, soprattutto, è un’operazione sterile. Troppo spesso la rete, ma anche le segreterie delle case editrici, si riempiono di bulimici della scrittura, gente che si ostina a volar raccontare a tutti i costi, anche quando forse varrebbe la pena di fermarsi e riflettere un po’: lo scrittore al tempo di internet viene troppo spesso confuso con i mille predicatori in cerca di un pulpito, o in cerca di un’illusione. Viva la libertà di espressione, sempre e comunque, ma concedetemi qualche limite. Voglio pormi limiti, ovvero quelli di scrivere solo quando penso di avere qualcosa che valga la pena di essere letto: pieno rispetto per voi, dunque, nel mezzo di un mare di parole che, chissà perché, la rete internet trasforma in un oceano senza confini. Io i confini le traccio. E dentro le frontiere della mia tana, la parola ha il suo valore, quello che mi hanno insegnato Hugo, Manzoni, Dumas, Verga e una lunga lista di fuoriclasse, forgiatori di scrittura che hanno sconfitto il tempo e sono diventati ossigeno puro, maestri che riempiono i polmoni e danno sollievo. Anche ora che, seppur ci sforziamo nel declamare i pregi dell’era del web e dei social network, viviamo in un tempo cupo che qualsiasi padre di buonsenso non può più accettare o subire: per il bene dei nostri figli, per quell’aspirazione alla bellezza che, se frughiamo bene nei meandri del nostro ego la scopriamo ancora autentica, impariamo dai maestri il valore della parola. Altro che scribacchini/pantegane in cerca del consenso di tutte le fogne.

Difficile capire tutto subito, ovvero secondo i tempi del web. Intanto eccomi qui, sono il primo topo che, a suo modo, magari bizzarro, vuol cambiare il mondo, partendo da una tana piccola piccola, sempre aperta a tutti.

Ricomincio da queste parole:

Cantare, ridere, sognare, essere indipendente, libero, guardare in faccia la gente e parlare come mi pare, mettermi, se ne ho voglia, il cappello di traverso, battermi per un sì per un no o fare un verso. Lavorare senza curarsi della gloria e della fortuna alla cronaca di un viaggio cui si pensa da tempo, magari nella luna!
Non scrivere mai nulla che non sia nato davvero dentro di te!
Appagarsi soltanto dei frutti, dei fiori e delle foglie che si sono colte nel proprio giardino con le proprie stesse mani!
Poi, se per caso ti arriva anche il successo, non dovere nulla a Cesare, prendere tutto il merito per te solo e, disprezzando l’edera, salire, anche senza essere né una quercia né un tiglio, salire, magari poco, ma salire da solo!

da Cyrano de Bergerac di Edmond Rostand

Sto con Kundera, per i libri e la memoria reali

Il problema è la memoria. Come il pil, assurdo concetto di ricchezza infinita, anche il mondo virtuale non ha ancora risolto e non è in grado di risolvere il problema della memoria: memoria reale, concreta e non virtuale (concretamente elminabile con un semplice click o con un black out). Una memoria che non si tocca con mano si tramanda come le vendite allo scoperto alla borsa di New York.

«Quel che mi sta a cuore in questo momento è una cosa più concreta: la biblioteca. Questa parola dà al premio che avete la bontà di accordarmi una strana nota nostalgica, perché il nostro tempo comincia a mettere i libri in pericolo. È a causa di questa angoscia che, da molti anni ormai, aggiungo a tutti i miei contratti, in qualsiasi Paese del mondo, una clausola in base alla quale i miei romanzi non possono essere pubblicati che sotto la forma tradizionale del libro. Affinché li si possa leggere solo su carta, non su uno schermo». Chi lo dice è un certo Milan Kundera, uno scrittore francese di origine cecoslovacca: uno che non ha bisogno di tane e blog per farsi ascoltare, come topo di campagna. È uno che può permettersi di scrivere e parlare al mondo intero e farsi ascoltare. Milan Kundera parla e i suoi concetti sono riportati da un giornalista del Corriere, che tuttavia, non resta imparziale, ma si sente in dovere di prendere posizione in favore della civiltà e del progresso (ce n’era bisogno? Boh). Io, umile topo, sta con Kundera: lo appoggio e lo difendo. Con questo, non significa che io sia retrogrado e contro gli e-book, ma rivendico il diritto di chiunque di difendere la propria memoria e la propria opera. Che, finché sarà messa a rischio solo da noi roditori, al massimo finirà rosicchiata su qualche scaffale.

L’articolo del Corriere della sera:

http://www.corriere.it/cultura/12_luglio_24/montefiori-no-kundera-libro-elettronico_34dab056-d577-11e1-8344-73c80d6dcb3d.shtml

Tempi difficili, guai a frustrare la fantasia

Ora quello che voglio sono i Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!

Charles Dickens, Tempi difficili

Da un paio di giorni ho iniziato a leggere questo romanzo di Charles Dickens: geniale, sorprendente, non me l’aspettavo così stimolante. L’immaginazione e la fantasia sono fonte d’idee importanti, soprattutto in tempi difficili, sono spesso un’ancora di salvezza. Guai a tarpare le ali alla fantasia: l’utilitarismo miope non muove il mondo, anzi lo affonda sotto un peso insostenibile.

Biciclette di carta, una poesia di Mario Luzi

Ripropongo un tema che avevo suggerito tempo fa, quello dello sport che ispira letteratura e vi segnalo che, proprio in provincia di Varese, vive uno tra i maggiori esperti in Italia. L’amico Alberto Brambilla, di Busto Arsizio, è un importante ricercatore universitario (in Francia e in Italia), e tra le sue numerose pubblicazioni vi sono anche diversi libri dedicati alla letteratura e lo sport. Tra questi, c’è un bel volume uscito qualche anno fa (2009) per Limina, dal titolo “Biciclette di carta. Un’antologia poetica del ciclismo” nel quale il bravo Alberto sviluppa un’accurata ricerca dedicata ai maggiori poeti italiani che si sono ispirati, almeno in qualche componimento, alla bicicletta. E da questo volume, vorrei proporvi una poesia di Mario Luzi che parla di salite e montagne. Così, in tempi di Tour de France, magari qualcuno di voi, davanti alla tivù, chissà, potrebbe trarre qualche ispirazione poetica nel guardare i corridori faticare sulle grandi vette. Un modo “alto” per sfuggire alle notizie dell’attualità, sempre macchiate di mediocrità.

Il termine, la vetta

di quella scoscesa serpentina

ecco, si approssimava,

ormai era vicina,

ne davano un chiaro avvertimento

i magri rimasugli

di una tappa pellegrina

su alla celestiale cima.

 

Poco sopra

alla vista

che spazio si sarebbe aperto

dal culmine raggiunto…

immaginarlo

già era beatitudine

concessa

più che al suo desiderio al suo tormento.

Sì, l’immensità, la luce

ma quiete vera ci sarebbe stata?

Lì avrebbe la sua impresa

avuto il luminoso assolvimento

 da se stessa nella trasparente spera

o nasceva una nuova impossibile scalata…

Questo temeva, questo desiderava.

 

Questa poesia s’intitola Il termine, la vetta, ed è contenuta nella raccolta di Mario Luzi del 2009, dal titolo Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime

Il mio racconto “ristretto”: a voi la sfida

Tugnìn gettava le reti, quando Angera viveva di lago. Oggi parla ai cormorani: «È tutto vostro, che aspettate?» Dalla riva, pregusta il loro tuffo infallibile.

Amo il racconto breve, ma questo è un racconto “ristretto”: il mio primo racconto ristretto. Venticinque parole. C’è, però, chi si è divertito a restringere ancora di più: “Vendesi: scarpe da bambino. Mai usate.” Questo lo scrisse, forse per scommessa, un certo Ernest Hemingway.

Ci ho provato anch’io, ovviamente per gioco. E ora sfido voi, lettori: vi invito a un simpatico concorso, ideato da Massimo del Caffè la Cupola di Varese. Per chi vuole partecipare: tenete il racconto nei vostri pensieri, andate al Caffè la Cupola (in piazza San Giovanni, davanti alla chiesa della Brunella) e scrivetelo sulla scheda di partecipazione, rigorosamente a penna. Unica regola: il racconto deve avere un massimo di 25 parole. I migliori racconti verranno valutati, in forma del tutto anonima, da una giuria qualificata. Inoltre, verranno letti in una serata “ad hoc”, organizzata dall’associazione “La curiosità letteraria”. Al vincitore, spetterà in premio una preziosa penna stilografica (informatevi a questo indirizzo: caffelacupola@ngi.it)

Chi, invece, non è nella condizione di poter partecipare al concorso (soprattutto per ragioni geografiche), può scrivere il proprio racconto “ristretto” qui, nei commenti a questo post. Non vincerà un bel niente, ma potrà condividere un pizzico della propria creatività con i tanti amici della Tana del topo. Forza, accettate questa sfida!

(In questo blog, verranno pubblicati solo i racconti “ristretti” firmati dagli autori, che dovranno indicare anche la località di provenienza)

Lucio Dalla vive, sono i poeti che non “cantano” più

L’Italia piange la scomparsa di Lucio Dalla, ma intanto la sua opera irrompe nelle case degli italiani, irrompe ovunque, più potente e viva che mai: l’immortalità è il privilegio degli artisti veri. E a Bologna, per le strade del centro hanno capito il senso di queste parole, mentre nell’aria della città si diffondevano le note delle canzoni del suo celebre cittadino (diffuse a tutto volume dalla sua abitazione di via D’Azeglio). Poesia, tanta poesia. Evocata in un pomeriggio soleggiato del 1° marzo 2012.

Anticamente i poeti  componevano e “cantavano”, nella nostra epoca sembra che non lo facciano più. Provate a chiedere a chiunque passi per la strada di citare un verso qualsiasi di un poeta attuale. E per ogni editore, la poesia è da tempo un genere in perdita, anche se gli autori in Italia sono parecchi e molto prolifici. Non vendono, non compongono e non “cantano”, ma riflettono e scrivono. I poeti si sono sempre più allontanati dalla musicalità più comprensibile al popolo (ma forse è stato il popolo ad allontanarsi da loro). Hanno preso una strada impervia e tortuosa, spesso intima o astratta, sempre più distante dal volgo. E così, il comporre e il cantare sono diventati soprattutto esercizi esclusivi dei cantautori che, oggi, sono qualcosa di molto diverso dai menestrelli e dai cantastorie di un tempo.

Il mondo è cambiato, la radio, la televisione, il giradischi, i cd hanno fatto il resto: le canzoni e i loro autori hanno preso il sopravvento, non sempre con merito reale, ma molto spesso sulla spinta del favore del pubblico. Mentre i poeti moderni si sono spinti a esplorare le nuove dimensioni della parola, i cantautori hanno continuato a lavorare per il volgo, per il popolo. E fanno poesia.

Poesia intesa come arte universale, arte che, nella sua essenza, arriva a toccare tutti. Vabbè, la mia riflessione rischia di annoiarvi, si aprono ampi spazi per discussioni e opinioni discutibili, come la mia: il valore dell’arte si misura nella sua forza universale. La musica, la poesia, la letteratura, la pittura, la scultura, se necessitano di un compendio per essere comprese nella loro essenza, sono arte monca. L’emozione è roba da “istruzioni per l’uso”?

La musica leggera (non tutta, certo) ha riaccostato la gente alla poesia, come ci è riuscito anche il cinema: questi sono fatti indiscutibili. Tuttavia,  sono in tanti a storcere il naso, quando si fanno rientrare i grandi autori della canzone italiana nella cerchia dei poeti.

La morte di Lucio Dalla, come in passato avvenne dopo la scomparsa di Fabrizio De Andrè, ripropone questo dibattito: perché, più forte della notizia che fa certamente scalpore, c’è la sua opera, la sua poesia che si spande nell’aria e nei pensieri di tutti noi.

In cuor mio, avrei voluto che fosse avvenuta la stessa cosa lo scorso mese di ottobre, dopo la morte di Andrea Zanzotto. Ma non è andata così: non critico, ma osservo e rifletto.

Il cielo,
si perde il pensiero quando guardo il cielo

Libri al sangue, no grazie

Non capisco il noir: a volte, addirittura, m’infastidisce. Non riesco a digerire il fatto che si possa fare della morte violenta uno strumento morboso per una narrativa fine a se stessa. La morte sanguinaria come passatempo per i lettori, in una società in crisi su tutti i fronti. La morte e il delitto scabroso come giochi enigmistici.

Avanti scrittori, spiegatemelo: se volete, fatelo qui, in questo spazio, nella tana del topo, a vostra disposizione.

Solo a Varese e provincia, gli scrittori thriller, i giallisti insanguinati spuntano come funghi, si contano a decine: senza delitti, malvagità e sangue, insomma, non si scrive più, o quasi.

Siamo una generazione di narratori decisamente poco sereni, ma davvero le fantasie letterarie non riescono a fare a meno del sangue gratuito e della paura?

Non è un fenomeno varesino, bensì globale: ovunque, insomma, l’assassinio, la strage, i delitti sono oggetti di esercizi di enigmistica o quasi, per libri intrisi di sangue. Una morte buttata lì sulle pagine, spiattellata come spettacolo macabro, ma senza suggerire riflessioni profonde. Sarà perché ormai siamo bombardati da fiction tv in cui la morte è essenziale? Ma non chiamiamolo realismo e nemmeno “specchio della società”: piuttosto, specchio della tv che, è bene ricordarlo, non è una finestra sulla realtà.

A volte penso a quell’esercito di scrittori che per anni insegue il sogno di pubblicare, che cerca l’occasione di proporsi a un pubblico vero di lettori: l’occasione della vita. E quando l’occasione, finalmente, si concretizza, magari pure pagando per pubblicare, il debutto letterario che cos’è? Quasi sempre una storia di morti ammazzati, una deformazione, una trasposizione su carta di fantasie oggi assorbite più dalla tv che da altro, più dagli effetti speciali e dalle fiction che da Edgar Allan Poe. Ma perché, mi chiedo, gettare alle ortiche la grande occasione? Spiegatemelo, scrittori!

Perché ai lettori piace, direte voi: perché il pubblico è assetato di delitti, di perversioni, di storie malate.

Ecco, cari lettori e scrittori, vorrei raccontarvi io una storia, non inventata in una notte insonne, ma vera: era il 13 agosto 1944, quando la piccola Maddalena venne portata in piazza, nel piccolo abitato di Borgo Ticino, non lontano dal Lago Maggiore. Maddalena fu portata in piazza a forza, obbligata da militari tedeschi: dovevano mostrarle una cosa, dovevano mostrarle lo spettacolo della morte. E la piccola Maddalena, assieme agli altri abitanti del paese, fu costretta a veder morire tredici uomini scelti a caso. Tredici prescelti dalla crudeltà nazista e fucilati in piazza: per cosa? Rappresaglia. E Maddalena vide tutto: la disperazione degli uomini davanti alla morte, la freddezza dei giustizieri, i fucili, il sangue uscire da volti sfigurati. E vide anche i corpi sbalzare da terra, quando i soldati li colpirono una seconda volta, per il colpo di grazia. E vide altro sangue. Poco prima ebbe la forza di dire: “Guarda, uccidono lo zio” e si beccò un ceffone. Era stata la nonna a rifilarglielo, forse per distrarre la bambina e farla pensare ad altro che non fosse quell’orrenda mattanza, nella quale quella nonna stava perdendo un figlio.

Ora Maddalena è una nonna, ma da quel giorno dorme sempre con la luce accesa, e prende gocce di tranquillante, per provare ad addormentarsi senza quell’incubo che, da allora, l’accompagna.

Oggi, dopo 68 anni, quella strage, una delle tante stragi di guerra di casa nostra (solo nei dintorni del lago Maggiore ce ne furno almeno altre tre, da quella di Meina, a quella di Castelletto, a quella di Fondotoce), quella strage avrà il suo processo: a Verona, infatti, il tribunale militare ha rinviato a giudizio l’unico superstite tra gli assassini, il tedesco Ernst Wadenpfuhl, che oggi ha 97 anni.

Ecco, cari scrittori, vi ho raccontato questa storia (riportata molto bene anche dal quotidiano La Stampa, nell’edizione del 15 febbraio) per invitarvi a uno sforzo: la morte non inventiamola per sfogare pruriti morbosi, con la superficialità di un telefilm. C’è chi la morte violenta l’ha vista davvero e se la porta dentro da tutta la vita: torniamo ad ascoltare i nostri vecchi, quelli che hanno vissuto certe tragedie. Facciamo presto, prima che le loro memorie spariscano, facciamo tesoro delle loro testimonianze, fidiamoci di loro: e da loro impareremo a dare il giusto peso a ogni cosa. E, magari, a versare meno sangue nelle pagine di narrativa. Chissà, forse eviteremo certe cretinate.

Se Dickens rinascesse a Varese

Uno stenografo, dopo lunga gavetta, si ritrovò scrittore. “Se diventerò l’eroe della mia vita, o se questa condizione spetterà a qualcun altro, lo diranno queste pagine”.

Duecento anni fa, nasceva Charles Dickens, scrittore amato da molti e, forse, detestato da molti di più.

Io sono tra coloro che lo amano: chissà, forse perché tutto cominciò da uno Scrooge con le sembianze di zio Paperone, da un canto di Natale letto da bambino sulle pagine di Topolino. Dickens ha questa particolarità: di ricordare l’infanzia a molti. Eppure scrisse in un’epoca ormai lontana, raccontò storie tipicamente inglesi… Non so come ci sia riuscito, ma mi ha conquistato: con i suoi personaggi e le sue descrizioni minuziose, con la sua capacità di prendere per mano il lettore e portarlo con sé, dentro a un sobborgo di Londra.

“Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si vede per tutta la vita”: questo lo disse un altro grande autore, George Orwell che, pure, non fu mai molto tenero nei suoi giudizi su di lui. Amo Dickens soprattutto perché sapeva parlare ai “semplici”, perché sapeva essere universale, perché è stato capace di trasmettere a tutti la sua letteratura. Lo amo soprattutto perché pubblicava a puntate sui giornali e perché i cattedratici lo stroncavano.

C’è chi confina Dickens dentro la sua epoca, dentro quell’atmosfera londinese di metà Ottocento. Eppure io lo trovo ancora molto attuale: lo vorrei vedere all’opera in questo tempo difficile e decadente, m’immagino come descriverebbe un treno carico di pendolari, per esempio. Vorrei vederlo all’opera nel descrivere la periferia di Milano, o magari una pasticceria di Varese piena zeppa di signore impellicciate, tutte infervorate per i saldi, mentre fuori c’è un popolo che sta perdendo il lavoro.

Se Dickens vivesse oggi, tra Varese e Milano, cosa scriverebbe? Chissà, magari ci scriverà il romanzo di un sindaco leghista invaghitosi per una povera rumena, o chissà, magari proverà a raccontare di un imprenditore che, per non vendere la propria barca ormeggiata a Portofino, si trova costretto a licenziare alcuni dipendenti, a caso… E secondo voi?

Lo sport moderno può ispirare letteratura?

Em Bycicleta: tra calcio e ciclismo, con tutto il resto dello sport nel mezzo. Si tratta di un presidio di fabulazione sportiva nato in un’osteria di Lodi, nel dicembre del 2003. È un nome collettivo che raccoglie “sognatori e balenghi” uniti in un’idea di sport diversa da quella proposta dallo show-business. Sport come metafora di vita, fonte di “favole”, nutrimento dei brevi sogni dei poveri che siamo stati, ora che il rischio è di diventare miserabili di mente e di cuore.

Si presentano più o meno così, i ragazzi di “Quasi rete”, il blog letterario della Gazzetta: già, perché a guardare lo sport di oggi, c’è ancora qualche sognatore che si sforza di vedere poesia. Li ringrazio per questo, perché mi ricordano che, in fondo, nel fare il cronista si hanno privilegi che molti romanzieri non avranno mai. Per vedere la poesia, la letteratura nello sport, bisogna soltanto avere molta pazienza, “disobbedire” almeno per un po’ ai capi delle redazioni e tornare un po’ bambini, o un po’ scrittori: trovare spunti letterari nello sport moderno non è difficile, basterebbe meno presunzione.

Gli eroi tragici del ciclismo, per esempio, potrebbero sembrare a molti soltanto miti di un passato in bianco e nero, gente che non appartiene a questo mondo: eppure non è così, occorre, tuttavia, avere l’umiltà di fermarsi e osservare, non avere fretta di dire, di sapere, ma rimanere a guardare in silenzio, rimanere ad ascoltare e a osservare ogni dettaglio, ogni sfumatura. E così, anche il rockettaro Tyler Farrar (nella foto), sprinter americano, che sgomita a settanta all’ora in sella a una bici da sei chili è profondamente letterario. Farrar, emblema del ciclismo moderno, con la cresta sotto il casco e il chewing gum, l’i-phone sempre in mano e i Green day che gli martellano i timpani dalle cuffie che ha nelle orecchie: che ci potresti scrivere con uno così? Eppure lo vorresti in un romanzo, Farrar, quello che non sei mai stato capace di scrivere: perché l’hai visto piangere in silenzio, ancora la scorsa settimana, otto mesi dopo la tragedia, quando l’amico, Wouter Weylandt, ciclista belga, si schiantò sull’asfalto giù da un valico appenninico ligure. Al Giro d’Italia. E lui, Farrar, era là, poco più avanti, che pedalava in apparente incoscienza, mentre l’amico moriva in diretta tv. Ora quel Farrar dice: «Se vuoi fare il ciclista, devi sforzarti di non pensare, perché per tornare a fare una volata a settanta all’ora non devi avere paura, non puoi pensare». Dice così, il ciclista, ma mente e sa di mentire: perché la bici, il ciclismo, ti costringe a pensare. Non è la formula uno. E tu che stai lì accanto, lo vedi pedalare e sudare, vincere e perdere, devi soltanto fermarti e riflettere: e dentro al dramma di un Tyler Farrar finisci per vedere un eroe da tragedia greca, o un’invenzione di Shakespeare.

Tuttavia, non è tutto dramma, c’è anche tanta comicità. Leggetevi questo spassosissimo racconto su Juventus-Udinese e scoprirete quanta letteratura potrebbe fiorire in uno stadio moderno:

http://quasirete.gazzetta.it/2012/01/30/il-posticipo-_-juventus-udinese-sodomie-11-contro-11/

C’è un campione dello sport attuale che vedreste come eroe/protagonista di un romanzo? Oppure esiste una disciplina sportiva che considerate ancora oggi poetica e letteraria? Dai, dopo avervi fatto arrabbiare per Camilleri (che continuo a non sopportare), queste sono domande in segno di pace…

 

Incipit “favolosi”? Ma mi faccia il piacere…

Eccomi, riapro la stanza, dopo opportuna disinfestazione da virus influenzali:  così non si potrà dire che, a parlar di cultura in questo mondo, viene la febbre. La Milano dei pendolari, stamattina, è imbiancata da neve sporca e già sembra diversa dalla solita grigia metropoli: sarà che la Finanza, cattivona, arrivando a far controlli in corso Como, disturbando la “movida”, avrà costretto i poeti della notte a disfarsi di tutta la polvere bianca dei quartieri “bene”?

Sì, permettetemi di fare l’antipatico e non è l’effetto dell’antibiotico, ma voglia di scarabocchiare le pareti di un mondo finto e ipocrita, prefabbricato ad arte, perfetto per il consumo di un popolo bue e non pensante. Arrivo buon ultimo, tranquilli, Gaber l’aveva già detto, ma anche Bianciardi, ma anche Brancher, ma anche Gadda… Vabbè, chissà se prima o poi tornerà a piacermi Milano?

Intanto apro pagine di attualità per respirare un po’ di cultura e, ohibò, sull’inserto domenicale (La lettura) del Corriere, m’imbatto in una “dorricata” che mi fa sussultare e tornare ancor più “acido”. Perdonatemi, se a qualcuno non farà piacere, ma una recensione di Antonio D’Orrico mi costringe a ribadire, forte e chiaro: non sopporto Camilleri.

Non la sua opera, sia chiaro, ma l’icona che, dopo anni di lifting televisivo, diventa immagine di culto per compiacere se stessi, lo scrittore siciliano, i grandi editori, il grande pubblico. Insomma, utilizzando un vecchio trucco del grande schermo, per strappare un applauso.

Le anime di De Sanctis e Croce non s’arrabbieranno se quell’ Antonio D’Orrico, critico e recensore, proprio non lo digerisco: e costui  mi ha fatto esplodere dal petto un “Camilleri, basta!”, per via di una genuflessione davvero inopportuna. La “dorricata” va a recensire il best seller delle classifiche italiane del momento, l’ennesima pubblicazione del papà di Montalbano che, questa volta (con mio piacere), si misura col racconto breve (Il diavolo certamente, ovvero una raccolta di 33 brani di cinque pagine ciascuna). Nulla da eccepire, se non cominciasse a spargere incenso e commozione di fronte agli incipit “meravigliosi” del Camilleri. E ne cita parecchi, tuttavia io mi limito a uno (preso a caso): “Corrado Tozzi, quarantenne, scapolo, atletico, decisamente un bell’uomo, sempre elegante, mai un capello fuori posto, capo della squadra omicidi, è considerato forse il migliore investigatore cha abbia la polizia”…..Ok, e allora? Ah beh, sì beh, dai dai cunta sü.  

I gusti, per carità, sono elementi soggettivi, basta che poi non si pretenda di fare catechismo ruttando in chiesa: come fa D’Orrico, quando per compiacere chissà chi, accosta Camilleri a una schiera di “santi” come Moravia e Parise, spingendosi fino a Roland Barthes (che fa figo, poiché il popolo bue in questo caso spalanca la bocca e dice “cavolo”, tanto non sa chi è), per poi accostare il tutto agli ultrà dell’Inter, a Mancini e Mourinho. Un tuffo carpiato di Tania Cagnotto sarebbe stato meno da brividi. Ma non sarebbe bastato un semplice e modesto “leggetelo e divertitevi”?

Permettetemi di ricordarvi le giuste proporzioni tra favoloso e normale, pur senza andar sul continente, ma rimanendo sull’isola di Camilleri. Questo sarebbe un INCIPIT con cui commuoversi: “Era alta, magra; aveva soltanto un seno fermo e vigoroso da bruna e pure non era più giovane; era pallida come se avesse sempre addosso la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così, e delle labbra fresche e rosse, che vi mangiavano”. (“La lupa” di Giovanni Verga)

Spulciando tra novelle e racconti, quali sono, per voi, gli incipit capolavoro?