Tempi difficili, guai a frustrare la fantasia

Ora quello che voglio sono i Fatti. A questi ragazzi e ragazze insegnate soltanto Fatti. Solo i Fatti servono nella vita. Non piantate altro e sradicate tutto il resto. Solo con i fatti si plasma la mente di un animale dotato di ragione; nient’altro gli tornerà mai utile. Con questo principio educo i miei figli e con questo principio educo questi ragazzi. Attenetevi ai Fatti, signore!

Charles Dickens, Tempi difficili

Da un paio di giorni ho iniziato a leggere questo romanzo di Charles Dickens: geniale, sorprendente, non me l’aspettavo così stimolante. L’immaginazione e la fantasia sono fonte d’idee importanti, soprattutto in tempi difficili, sono spesso un’ancora di salvezza. Guai a tarpare le ali alla fantasia: l’utilitarismo miope non muove il mondo, anzi lo affonda sotto un peso insostenibile.

Se Dickens rinascesse a Varese

Uno stenografo, dopo lunga gavetta, si ritrovò scrittore. “Se diventerò l’eroe della mia vita, o se questa condizione spetterà a qualcun altro, lo diranno queste pagine”.

Duecento anni fa, nasceva Charles Dickens, scrittore amato da molti e, forse, detestato da molti di più.

Io sono tra coloro che lo amano: chissà, forse perché tutto cominciò da uno Scrooge con le sembianze di zio Paperone, da un canto di Natale letto da bambino sulle pagine di Topolino. Dickens ha questa particolarità: di ricordare l’infanzia a molti. Eppure scrisse in un’epoca ormai lontana, raccontò storie tipicamente inglesi… Non so come ci sia riuscito, ma mi ha conquistato: con i suoi personaggi e le sue descrizioni minuziose, con la sua capacità di prendere per mano il lettore e portarlo con sé, dentro a un sobborgo di Londra.

“Quando Dickens descrive una cosa una volta, la si vede per tutta la vita”: questo lo disse un altro grande autore, George Orwell che, pure, non fu mai molto tenero nei suoi giudizi su di lui. Amo Dickens soprattutto perché sapeva parlare ai “semplici”, perché sapeva essere universale, perché è stato capace di trasmettere a tutti la sua letteratura. Lo amo soprattutto perché pubblicava a puntate sui giornali e perché i cattedratici lo stroncavano.

C’è chi confina Dickens dentro la sua epoca, dentro quell’atmosfera londinese di metà Ottocento. Eppure io lo trovo ancora molto attuale: lo vorrei vedere all’opera in questo tempo difficile e decadente, m’immagino come descriverebbe un treno carico di pendolari, per esempio. Vorrei vederlo all’opera nel descrivere la periferia di Milano, o magari una pasticceria di Varese piena zeppa di signore impellicciate, tutte infervorate per i saldi, mentre fuori c’è un popolo che sta perdendo il lavoro.

Se Dickens vivesse oggi, tra Varese e Milano, cosa scriverebbe? Chissà, magari ci scriverà il romanzo di un sindaco leghista invaghitosi per una povera rumena, o chissà, magari proverà a raccontare di un imprenditore che, per non vendere la propria barca ormeggiata a Portofino, si trova costretto a licenziare alcuni dipendenti, a caso… E secondo voi?

In giacca e cravatta a chieder l’elemosina

Le quattro mura della tana, stasera, non riescono a distogliermi dal senso di pesantezza che mi lascia la città, il viaggio quotidiano dalla provincia alla città. Ho sul tavolo “l’uomo che ride” di Hugo, l’ho iniziato da poco, ma non riesco ancora ad aprirlo, stasera. Io topo di campagna e scrittore di provincia non riesco a vivere la città come una cosa normale, non riesco a farmela scivolare via dalla pelle. Provincia e città, l’odore del lago e quello della metropoli, così diversi.
Stasera in cima alle scale di stazione Centrale, c’era un uomo in giacca e cravatta seduto su una panchina che mi guardava: io, diretto al binario, sono stato colto di sorpresa, quando questo mi ha fatto segno di fermarmi un secondo da lui. «Mi dai qualcosa, qualche spicciolo? Sono sulla strada, cazzo, sono finito sulla strada» mi ha detto.
Io nella fretta ho dato una risposta idiota, la più idiota: «Non ho moneta, ma se vuoi ti posso cedere il mio giornaliero per il metrò». Quello mi ha guardato, come per dirmi “ma che cavolo ci faccio io, col biglietto del metrò”, ma da signore distinto l’ha accettato. Avrei potuto dirgli: «Hai fame, posso offriti un panino?», ma avevo troppa fretta. Ero dentro il vortice del frullatore, il frullatore quotidiano che ti fa correre senza pensare. Ma a quell’uomo ci ho ripensato più volte, fino a ora. “… per intendere la città, per cogliere al di sotto della sua tesa tetraggine il vecchio cuore di cui molti favoleggiano – adesso lo capivo – fare la vita grigia dei suoi grigi abitatori, essere come loro, soffrire come loro”. Di questi tempi cito spesso Bianciardi, Luciano Bianciardi: questa sua considerazione è tratta da La vita agra, un capolavoro senza il quale, forse, il mio Nebbia sarebbe molto più banale, il mio ragionier Ponchio, licenziato e cornuto, non sarebbe mai passato nei miei racconti. Ma si capisce, anche, perché leggendo certi sacerdoti, le grandi firme della cultura e della letteratura che oggi imperversano sul Corsera o su altri grandi quotidiani, ho la sensazione che, quando parlano di romanzi e culture, questi vivano in un altro mondo, troppo lontano da quello che vedo io: ma non so più quale sia quello sbagliato o quello giusto, quello vero o quello finto. Eppure, la Milano dell’ex impiegato in giacca e cravatta che chiede la carità in Centrale, non mi sembra per niente diversa dalla città che vedeva Bianciardi cinquant’anni fa. E voi, scrittori e lettori di provincia, che Milano vedete? Tutte le crisi si assomigliano e forse è per questo che, tra tutti gli autori che conosco (sono pochini, lo ammetto), quelli che più mi sembrano attuali sono i classici. Se penso a certi passaggi di Charles Dickens… E secondo voi, cari amici, qual è il grande scrittore più attuale, pensando al nostro tempo?