Lo stalking della bistecca

Ugo serve il brasato ai pendolari, ma Zaccaria, oggi, non è in fila con gli altri: è appoggiato al vetro del bancone delle pietanze, non ha fame, ha soltanto voglia di parlare. L’oste, invece, ha una fila lunga così, quanto il tram 14 che passa lì di fronte, di gente da sfamare, con la pancia vuota e i minuti contati: «Uè, non venir qua a menare il torrone, se ce l’hai col Milan lassa perd».
«Ma no, il calcio non c’entra, questioni di cuore».
«Oh Signùr, per il cuore spetta più tardi che smaltisco la coda degli affamati, per il fegato, invece, ciapa qui un piatt: è alla veneziana», e gli porge la pietanza. Mangia nell’angolo, Zaccaria, mastica lentamente e non riesce, quasi a inghiottire.

Ugo lo scruta dall’alto verso il basso, quella faccia da pesce lesso non lo convince proprio. Finita l’ora di punta della pausa pranzo, l’oste gli si piazza seduto di fronte e lo osserva, faccia a faccia. Zaccaria deglutisce e attacca il discorso: «Ti sentiresti offeso se trovassi una bistecca cruda nella borsetta?».
L’ex terzino prestato alla cucina meneghina strabuzza gli occhi e tossisce: «Dipende se la borsetta è di coccodrillo o pel da logia».
«Non sto scherzando, Ugo. Ti arrabbieresti a sentire la fettina umida dentro la borsetta?».
«Dai sputa tutto, che razza di domanda è questa…».

Era la risposta che attendeva, Zaccaria è come un fiume in piena: abbassa gli argini e si svuota di tutte le amarezze. Deluso in amore, è un recidivo col cuore infranto: non fa a tempo a ricucire le ferite che si procura un nuovo strappo. Sulla soglia dei quaranta, scapolo a oltranza, ormai punta ragazze nubili a tappeto, è diventato un corteggiatore da sfinimento. «Non è la qualità che conta, ma la quantità: a un certo punto». Già, la quantità è uguale a zero, la qualità è ormai un concetto astratto nei suoi pensieri. E vendicare i due di picche è diventato il suo secondo passatempo, perché le ferite aperte fanno ormai fatica a rimarginarsi, a quell’età, per uno che non si rassegna alla pace dei sensi o al sesso a pagamento. «Io sono un sentimentale, non un mercenario di carne da macello», ha sempre sostenuto con orgoglio. Anche se la carne, in realtà, la maneggia tutto il giorno, come aiuto macellaio al piccolo supermercato sulla strada verso Pero: e fu proprio lì, mentre maneggiava un pezzo di biancostato, che gli venne l’idea.

La sua prima vittima fu Irma Vanetti, un’impiegata delle poste che una mattina si ritrovò una cotoletta al sangue nella pochette di Gucci, mentre si concedeva un caffè: infilando la mano per estrarre la moneta, proprio davanti alla cassa del bar, sentì tra le dita una flaccida consistenza e quasi gli prese un colpo. Come colpita da raptus, istintivamente, tirò fuori quella roba informe e la lanciò: la bistecca, solo in quel momento capì di cosa si trattava, andò a spiaccicarsi sulla parete dietro al flipper, lasciando una striscia di sangue sul muro: come nei delitti da film horror.
Da allora, le vendette che si compirono furono a decine: come un giustiziere seriale, si prendeva quella rivincita anonima, a ogni due di picche. E agiva con la stessa abilità di un grande borseggiatore, ma al contrario. Tanto che, al comando della polizia locale, il vendicatore della bistecca era diventato un mito: e il comandante Sgarzon non vedeva l’ora di beccare il colpevole con le mani nel sacco (già proprio così) per vedere in faccia, il volto di quel sanguinario affettabovini.

Un’altra volta, infilò un osso da lesso nella borsa di Carmen Spataro, napoletana emigrata al Musocco, ma innamorata di Evandro, il ragazzo dogsitter, proprio al primo appuntamento, al parco di Trenno: e fu un disastro. Alla vista della ragazza, Evandro si sentì come trasportato dagli eventi: in balìa di quattro doberman che teneva al guinzaglio, terminò la sua corsa a cavalcioni della povera malcapitata, svenuta per la paura. Tremendissima vendetta, quella di Zaccaria.
Come quel giorno in cui colpì la povera Benedetta Lafava, dopo essersi negata a un mese di avances: scoprì soltanto dopo, il malandrino, che la ragazza aveva una totale avversione per gli uomini e i loro attributi, per via di un trauma adolescenziale, ovvero la valanga di sfottò rimediati a scuola, per via del nome. La Benedetta, quella triste mattina, fini al pronto soccorso in preda a un attacco di panico: l’allergia non le dava pace e a furia di starnuti si ritrovò a soffiare il naso dentro una fetta di carpaccio, scambiata, nella foga, per un fazzolettino umido, riposto nella sua borsetta, proprio accanto al portafoglio.

Ora confessa tutto, Zaccaria: vuota il sacco, davanti all’amico ristoratore, abituato costui a celebrare la bistecca in ben altro modo. E chiude, con un sospiro e un avvertimento: «Lo so, è questione di pochi minuti e verranno a prendermi. Con la Jole, non ce l’ho fatta a resistere, mi ha beccato».
Ugo sta lì a bocca aperta, come uomo di pietra, investito da una frana.

La Jole è la titolare di un negozio di lapidi e monumenti funerari che si trova a due passi dalla trattoria: per un mese Zaccaria l’ha corteggiata e sognata ogni notte. Le ha scritto lettere d’amore, poesie strappalacrime che, in realtà, hanno sortito soltanto uno sputo: proprio così, la Jole, esausta per i suoi continui assalti, non ne poteva più e ha pensato di liberarsi del suo spasimante con un gesto estremo, sfrontato. Uno sputo in faccia, sparato a bruciapelo, assolutamente imprevedibile, mentre le si avvicinava a lui con fare suadente, in tailleur rosso e con il volto truccato da balera e capelli raccolti dietro la nuca. Lui l’aveva guardata, pregustando il bacio e la resa, ma si è ritrovato con l’onta peggiore nell’occhio destro. Centro pieno, cuore distrutto.

Soffrire per amore, ci stava, ma umiliato no: la rappresaglia doveva essere pazzesca. Degna di Zaccaria. Ma non più con una semplice fettina, bensì con una frisona di prima qualità, chiesta a prestito all’allevamento di zio Cino, un parente uno po’ svitato per colpa di uno zoccolo in fronte rimediato durante la mungitura, anni fa. Zaccaria era arrivato a piedi, dalla cascina vicino a Bollate, e aveva fatto il suo ingresso nel locale esposizioni della Jole, tirandosi dietro quello splendido esemplare di vacca, proprio mentre si stava ultimando il pagamento di una tomba lì in bella mostra, da parte dei parenti del Callisto del Musocco: la moglie Adelina lo aveva abbandonato portandosi via la foto di Mariolino Corso, il suo idolo. E lui da allora, non fu più in sé: decise di farla finita con un’arma impropria, il fast food in fondo al cavalcavia, a colpi di hamburger e crocchette di pollo.

Callisto si era spento come una candella consunta, nel silenzio del locale deserto: il suo respiro era venuto meno al cospetto della quarantaduesima pepita impanata, inzuppata nel ketchup. Senza figli e con la moglie chissà dove, poteva contare ora soltanto sulla benevolenza della cognata Clotilde e di quattro pronipoti che, di fronte alle proposte in stile teleimbonitrice della sciantosa Jole, non avevano battuto ciglio: secondo il parentado, al Callisto sarebbe bastata quella tomba in finto marmo bianco già lì esposta e pronta all’uso, niente di meglio di un’offerta last minute, degna di una vittima del fast food.
Proprio nell’atto di regolare le ultime formalità, davanti al bancone del negozio, il piccolo capannello di parenti veniva interrotto da un muggito in stereofonia, suono terrificante, amplificato dalle pareti vuote del locale. Nel voltarsi verso l’ingresso, i cinque malcapitati aprirono uno scorcio di visuale alla Jola che, riconoscendo Zaccaria accompagnato dal quadrupede, aveva cominciato a strillare come una posseduta dal demonio.
L’innamorato non corrisposto e umiliato si era limitato a una sola frase di rivalsa: «Chi vosa pussé la vaca l’è la soa. E allora sputa sul muso a sta bestia». E se n’era andato abbandonando il bovino in vetrina, tra le lapidi in esposizione.

Fine del racconto: Ugo ha le mani nei capelli e guarda ancora impietrito Zaccaria, lasciandosi sfuggire un “tesemàtt”. «Aspetto che vengano a prendermi, lo so che sono qui. Ho saputo che è anche un reato sta cosa qui, la chiamano in inglese, una parola tipo staching», conclude il matto ripudiato dall’amata.
«Per me è scemenza, altro che staching», replica l’amico.
Ecco, poco dopo, due gendarmi in trattoria a chiedere di un tipo strano: Zaccaria si alza e si consegna, con la testa bassa, come il peggiore dei malfattori. «Vai dalla Jole a riprendere la mucca di zio Cino, per favore», dice all’oste.

Ugo rispetta le consegne, per compassione più per la povera bestia che per quell’idiota di Zaccaria. Al discount del caro estinto, la frisona aveva già sparso panico e sterco ovunque: al suo ingresso, Ugo avverte l’odore della tragedia, che sa stalla più che dell’incenso che si usa di solito in quel posto. Anche le immagini non sono da meno: la Clotilde, nonostante la sciatica e il mal di schiena, è avvinghiata alle spalle di un Cristo benedicente in bronzo di tre metri, il rifugio più sicuro per sfuggire alla terribile creatura della campagna. I quattro pronipoti, invece, sono in ginocchio attorno alla Jole, svenuta e a terra: litigano per chi deve farle la respirazione bocca a bocca, anche se lei tenta di respingerli con le mani. Sulla tomba bianca del Callisto, spicca ora un’enorme torta similcioccolato e fumante. Ugo scuote la testa e recupera la corda la collo della povera bestia e la aiuta a uscire da quel pandemonio. Ha un solo pensiero: «Eh Callisto Callisto, se fossi venuto da me, invece di andare a mangiare dagli americani, saresti ancora qui a litigare per l’Inter».

La fortuna è cieca o miope?

Al bar dell’angolo sono anni che non si gioca più a briscola: ora, a tenere banco, c’è il reparto ricevitoria, dove ogni mattina la procace Marilena sta lì a raccogliere le giocate. Tra i tavoli, tra bicchierini di Marsala e caffè con rimorchio alla grappa, s’intonano litanie oscure: «Sei per quattro, ventiquattro, con novanta numeri, fanno cinq, meno sett, per venitquat, diviso tred, e la radice quadrata…». Attilio fa il matematico per gioco, inteso come superenalotto, ma ha solo la terza media in tasca: intona la sua cantilena sottovoce, trasformandosi in un pallottoliere umano che, con le dita, conta e riconta e trascrive su un foglio, sempre più scarabocchiato. Nebbia sta lì a tre metri, non capisce una parola, ma risponde a tono: «Nei secoli dei secoli, amen. Dovrebbero chiamarti Rosario, altro che Attilio».

L’Attilio fa i conti e la sua mente risale una scala fantastica di numeri e colori, china il capo giusto il tempo per trascrivere i numeri sul foglio, ma subito rialza lo sguardo al cielo, le sue mani si aprono come quelle di un sacerdote che dice messa e guarda su, verso un mondo tutto racchiuso nei suoi calcoli, come in trance. La scala prosegue sempre più ripida, moltiplicazione dopo divisione, somma dopo radice quadra fino a una porta immaginaria piena di luce che sembra quella del paradiso: «Sìììì, a g’ho truvà al sistemone!». Ha lo sguardo spiritato, Attilio, folgorato come san Paolo sulla via di Damasco: «Uh signur, se te ghé?», rispondono in coro i compari lì seduti tra i tavolini e un videopoker sempre acceso. L’illuminato li chiama a raccolta con un cenno della mano e, attorno a quel foglio scarabocchiato, si forma subito un capannello da cui fuoriesce un borbottìo interrotto soltanto da qualche pugno sbattuto sul tavolo. Finché l’Attilio prende la parola con il piglio di un novello messìa: «Una possibilità su un milione. Pochissimo!», gesticola come in predicazione. Tutti gli adepti, lì attorno, tacciono e osservano i movimenti delle mani che, in alcuni passaggi della spiegazione, sembrano quelle di un prestigiatore: «Quando uscirà l’asso di cuori dal polsino della camicia?», si chiede tra sé Giandomenico detto “tilt”, per via di un tic nervoso che, ogni tanto lo sembra paralizzare per un istante. Con lui, di fronte all’Attilio, ascoltano il Franz delle Varesine, un ex giostraio in pensione rigorosamente minima, il Venanzio un vecchietto fuggito dalla Baggina e rifugiatosi dall’amico Bartolo, anch’egli nella squadra del Superenalotto, così come Santino, uno stralunato tiratardi, un quasi giovane, senza un’età ben identificabile, senza lavoro, che sperpera la pensione del padre al videopoker.

Santino pigia i tasti tutto il giorno, davanti a quella macchinetta infernale che, ogni tanto, fa tintinnare qualche moneta, ma per il resto è tutta una musichetta da cartone animato, con svariati “game over” accolti da una bestemmia dal giocatore, sempre appollaiato lì davanti, su uno sgabello, con un bicchiere di vermouth appoggiato su una mensola. Il giorno prima, con tutta la famiglia, Santino era andato in Duomo per la festa di don Gnocchi: papà Alfredo era stato salvato dal prete, nel dopoguerra. Cieco da un occhio, era stato raccolto e accudito dal sacerdote degli umili. Don Gnocchi proclamato beato davanti a 50.000 milanesi: Alfredo non poteva mancare e la sua famiglia, pure. «Era sempre accanto agli ultimi, ma se ora non siamo più ultimi è grazie a lui». Ma subito ne venne fuori una discussione con Santino che l’aveva contraddetto: «Chi l’ha stabilito che non siamo più ultimi?». La preghiera e l’emozione avevano impedito a quel litigio di degenerare: Alfredo commosso era rientrato a casa per una domenica speciale, anche se Santino non lo capiva. Anzi, si ritrovava nel piatto la solita gallina lessa che mamma preparava a ogni festa. Domenica di beatificazione, prima di una settimana di ordinaria alienazione, dal lunedì al sabato.

La predica dell’Attilio è ormai all’epilogo: «Sessanta euro, sessanta euro a testa, gente. A partire da questa settimana, mettiamo su un sistemone che prima o poi facciamo bingo. Asasbaglianò, la matematica l’ è mia un’opinione. E se si vince, io prendo la metà, perché g’ho truvà la sulusiùn, e voi tutto il resto». L’effetto sui compari produce una vocale, una “o”, pronunciata in coro a mezza voce: più che un senso di meraviglia, ai suoi compari, quell’idea aveva sortito lo stesso risultato di una provocazione: “adesso lui vuole vedere se abbiamo le palle di mettere lì sessanta euro ogni settimana, ma crede che non ne siamo capaci?”, pensava tra sé Giandomenico “tilt”, ma io «i sessanta euro te li vinco subito e te li metto qui sull’unghia, caro Attilio», lo rassicura. E si rivolge alla Marilena: «Damm un gratta e vinci, nina…».
«Devo aprire il pacchetto nuovo, aspetti»
«Non darmi il primo, però. Al numer zero, al porta rogna», risponde lui.
Detto, fatto. Cinque euro sul banco, pronto il gratta e vinci e una moneta da dieci centesimi per andare a scoprire il risultato: «Zero, niente porca vacca».
«Riprovi», rilancia Marilena.
«Aspetto un attimo per passare questo momento di sfiga, chissà mai che qui fuori stava girando qualche menagramo e non me n’ero accorto».

Lì fuori, il menagramo, o una sua sottospecie, c’è davvero: è il Vallardi, con la sua moto già di prima mattina, che ha appena scaricato all’angolo un transessuale, dolce compagnia di una nottata brava, l’ennesima stronzata di una vita che non si accontenta più della solita minestra. Dirige un’azienda che aveva ottanta dipendenti, il Vallardi, poi ha capito che quaranta potevano bastare, se si trovava l’officina giusta a Shangai. Anzi, perché non provare solo con trenta? Altri dieci «fuori dalle balle», come dice lui in termini diplomatici e dieci belle letterine nella borsa in pelle di coccodrillo da consegnare oggi stesso, riposte nel portaoggetti del suo scooterone “made in China”. Business is business. Entra al bar, ma già puzza di whisky, il Vallardi, con le dita tremanti che, a malapena reggono un mozzicone di sigaro toscano. Il breakfast dell’alcolista è a base di caffè scorretto, ovvero con un aggiunta abnorme di qualsiasi liquido disponibile, basta che sia superiore ai 40 gradi.

A due metri c’è di nuovo il Giandomenico che tra uno scatto di mento e un frullo di orecchio, per via del tic, domanda un nuovo gratta e vinci: «Questo qui tienilo tu, il diciassette è roba da disgrazia», scarta una schedina e piglia quella successiva tornando al suo posto e ricominciando a grattare. Ma appena intravede, sotto l’argento smosso dalla monetina, il colore della sconfitta, si lascia sfuggire l’ennesimo “mundlàder”.
«Cià, dallo a me quel gratta e vinci», interviene il Vallardi reggendosi sui gomiti al bancone di marmo. Rompe la monotonia con quel gioco di fortuna, sfregando sul cartoncino con il fermacravatta d’oro, regalo della prima moglie, una fotomodella spagnola poi fuggita a Cuba con “no global”. «Cos’ho vinto?» chiede sottovoce tra due colpi di tosse.
«Maronna mia!»: Marilena riguarda la combinazione sul biglietto del Vallardi. Non ha dubbi: «Duecentomila, Vallardi, duecentomila». Nel locale tutto si ferma, dal videopoker alla macchina del caffè, dalle voci alle teste pensanti, dalle mani agli sguardi, tutti rivolti verso quell’omone barcollante lì al banco. Con la schedina in mano, senza guardare in faccia a nessuno, s’infila in bocca il sigaro e tra i denti lascia uscire un messaggio: «Segna sul conto, bella», e se ne va.
Un minuto di fermo immagine, ma poi il bar torna a rianimarsi, con un brontolio, dal quale emerge il solito predicatore del superenalotto: «Eh no, boiavacca! A questi qui non può andar sempre bene – dice, scaraventando la penna sul tavolo -. Altro che sistemone, a chi i soldi li ha già e li toglie alla povera gente, non bisogna farli giocare. Regole uguali per tutti? Ma qui, per qualcuno sono più uguali, per altri no. Se la fortuna non è cieca, alùra mi giughi pù. Non gioco più!»: l’Attilio prende il cappello e se ne va pure lui.

Tutto sembra rianimarsi con grande eccitazione per il lieto evento. Tutto, tranne il corpo del Giandomenico: «Mi sa che tilt ha fatto bang», si lascia sfuggire Nebbia, mentre, alzatosi dal suo tavolino, osserva l’uomo, come pietrificato, seduto lì accanto. Ha gli occhi fissi verso la Marilena, la bocca spalancata, ma sembra non respirare. Giandomenico! Gli gridano a dieci centimetri dal grugno, lo schiaffeggiano, lo scuotono, ma non serve a nulla. Tilt, stavolta, ha fatto le cose in grande e ha chiuso le trasmissioni: il cervello è fermo a quella schedina numero diciassette, lasciata lì, rifiutata e gettata in pasto a un puttaniere miliardario. Game over, come un videopoker di periferia.
La Marilena già parla con i giornalisti del quartiere, si atteggia a vip, a figlia della dea bendata, quando arriva l’ambulanza per recuperare quella statua di uomo, più rigido e bianco di un’opera del Canova. Gli amici lo vedono sparire sull’autolettiga e rimangono in silenzio, gli altri sono assolutamente indifferenti.
Al Niguarda, intanto, stanno già visitando un uomo sulla cinquantina, un imprenditore rinvenuto da poco, appiccicato a un muro, a due metri dal cancello della sua azienda: ha visto gli alieni, sono state le sue parole rivolte ai medici, ma è tutto rotto. Un testimone l’ha visto arrivare a gran velocità e prendere la curva larga, troppo larga: quattro metri di cancello mancati, fuori come un rigore di Materazzi. Sul posto, soltanto uno scooter ridotto in briciole, dieci buste e un gratta e vinci usato.

La legge della salsiccia

Pizza, birra e caffé? «Seicinquanta».
Spaghetti, acqua e caffé? «Seicinquanta».
Bistecca, vino e caffé? «Seicinquanta».
Nessuno conosce il suo nome egiziano e chiunque glielo domandi, lui risponde Beppe: ma per i clienti del quartiere non è credibile con quel nome, meglio soprannominarlo Mohammed, più adatto alle sue origini e al suo aspetto fisico. Ha problemi con la matematica, non l’ha mai imparata nei pochi anni, forse giorni, di scuola frequentata alla periferia del Cairo. E nemmeno la digerisce oggi: nella sua pizzeria, allora, ha fatto una scelta… di marketing. Prezzo fisso, che più fisso non si può: “seicinquanta”, è quanto gli basta per ogni bocca da sfamare, tra operai e impiegati del “mezdì”, come gli ha insegnato Nebbia che, in cambio dei primi rudimenti in lingua locale, riesce ogni tanto a spuntare pizza e birra. «Se ci stiamo dentro con i conti, va bene così», dice Beppe.
La sera, però, il prezzo fisso non vale. Per fortuna c’è Margherita, la sua figliola che ha voluto chiamare all’italiana, non per passione floreale, ma perché fu il primo nome che gli venne in mente una mattina di dodici anni fa, mentre tirava la pasta in una pizzeria: un amico vucumprà era appena arrivato a informarlo del lieto evento della moglie, un provvidenziale ambasciatore, ingaggiato poiché il titolare del ristorante non gli aveva concesso di lasciare il lavoro per rimanere accanto alla sua signora, in sala parto.

Margherita con i conti è un portento, la migliore della famiglia, ma a pranzo è a scuola: soltanto la sera può stare dietro al registratore di cassa, fino alle 10, mentre Beppe è al forno e la sua signora serve ai tavoli. Dopo le 10, Mergherita e mamma vanno a dormire, il locale chiude e il pizzaiolo si concede una pausa di piacere: non a base di sigarette o alcol, bensì mettendo sotto i denti una succulenta salamella, orgoglio della grigliata brianzola, che Beppe, l’egiziano, ama più di ogni altra cosa. La consuma calda di piastra, nel mezzo di un panino, seduto nella veranda esterna alla sua pizzeria, proprio sul viale che conduce all’autostrada: un profumo delizioso si spande lungo tutto il marciapiedi, fino all’angolo, sotto il semaforo dove sta Soraya, un travestito che fa marchette quando le serrande dei ristoranti si abbassano e i marciapiedi si oscurano. Ma per il transessuale non sembra una gran serata, questa, poiché rimedia da un’ora soltanto vaffanculo ridacchiati dai finestrini delle auto e altri sfottò.

«Già, fanculo a tutti», si lascia sfuggire Beppe, a bocca piena, mentre osserva la scena. Più che un’imprecazione, un’ode alla libertà, dopo due settimane da incubo. Tutto è cominciato in una sera come questa, mentre Beppe, seduto su quella stessa sedia, ha visto la porta d’ingresso al suo ristorante andare a fuoco per una bottiglia incendiaria lanciata da un motorino che, sfrecciando di lì a velocità folle, fuggiva in un istante lasciando in scia un grido: «Mohammed senza dio!».
Questo è stato l’inizio, la continuazione ha visto entrare in scena il brigadiere Salvatore Braccialarga: «Ma lei, signor Mohammed, è assicurato?», è stata la prima domanda.
Risposta: «Primo, non mi chiamo Mohammed. Secondo, che importa se sono assicurato? Mi hanno quasi fatto saltare in aria il ristorante, non le basta per indagare?».
«Uè, cheffà, vuol sostituirsi al mio ruolo?». Il Braccialarga indispettito per essere stato in qualche modo contraddetto, ha avvisato la Guardia di finanza che è intervenuta con il solerte commissario Lanzafame Vito, grande amico del brigadiere, allo stesso modo in conflitto con nomi e cognomi: «Sicché, signor Beppe Mohammed, lei che proviene probabilmente da un Paese arretrato è riuscito a metter su la baracca in quanti anni?».
Risposta: «Dieci».
«Come!? In soli dieci anni, lei è riuscito a guadagnare abbastanza per comprarsi un ristorante? E i soldi dove li ha presi? E se tutta la vicenda fosse una storia di pizzo? In questo quartiere sospettiamo ci siano strozzini e mezzi mafiosi…».
«I soldi li ho presi dal sudore della fronte, tutti sofferti e risparmiati e, oggi, contati addirittura da mia figlia, controlli tutta la contabilità, è tutto in regola»
«E quanti anni ha sua figlia?»
«Ma che importa?»
«E la figlia ha imparato da lei anche l’insolenza? E poi ci sono le premesse per lo sfruttamento minorile».

Un’autorità messa in discussione da un extracomunitario, non può che complicare la situazione. Tant’è che il Lanzafame ha ritenuto necessario un sopralluogo dei vigili urbani, che, rappresentati dal dinamico agente Girafumi Tullio che, dopo rapido esame dei rilievi dei colleghi, ha colto un aspetto che, incresciosamente, non era stato chiarito: «Ma lei che denuncia un atto teppistico di tale gravità, paga regolarmente il plateatico? Visto che mangiava bellamente una salsiccia al di fuori del locale, proprio durante il fattaccio…».
Risposta: «Ma che significa? Ero io a mangiare qui fuori, mica i clienti, e poi il ristorante era chiuso…». Come benzina sul fuoco.
Un Girafumi imbufalito era la cosa peggiore che potesse capitare a un pizzaiolo egiziano alla ricerca di una verità scomoda: poteva non esserlo, ma poi è diventata scomoda. Soprattutto per interessamento dell’Asl, allertata, per ripicca, dal ghisa e piombata in pizzeria a corpo morto, con le sembianze di una mole informe, ovvero i 110 chili del funzionario Losurdo Gaetano, grande amico dell’assessore. Proprio quel politico che, da anni, ha dichiarato guerra ai ristoranti etnici: «Come sarebbe a dire, signor Mohammed, che lei non ha un ristorante egiziano? Lei è egiziano? Mi faccia il piacere di essere più collaborativo e se l’igiene lascia a desiderare lo scopriremo presto».
Risposta: «Ma il mio portone bruciato che c’entra con l’igiene?».
«Ah! Ma allora lei non vuol capire, caro Mohammed. Tutti così voi musulmani: fate finta di non capire, ma so benissimo come volete fregarci. E pensate di fare i furbi con il paravento della religione: ma come la mettiamo, allora, con quella salamella di maiale, caro il mio islamico?».
«E come la mettiamo? Sono di religione copta».
«Ah sì? Ma cotta o cruda non fa differenza, sa».

Già, la religione copta ortodossa… Mentre il Braccialarga brancolava nel buio, il pizzaiolo ha tastato la pista giusta. Per risolvere il suo giallo, avrebbe dovuto chiamare Mastro Lindo, soprannome di un pony express tunisino che vive a due isolati dal ristorante: grande amico del muezzin Omar, che ha indagando nel sottobosco della comunità islamica e ha chiarito l’equivoco. Due giovani integralisti, schegge impazzite di una cellula estremista, hanno scambiato Beppe per un musulmano vero e, vedendolo ogni sera infrangere i comandamenti con quella maledetta salamella, avevano pensato di minacciarlo con il fuoco. Tutto risolto, in cambio del ritiro della denuncia.

Mastro Lindo, dopo due settimane, ha fatto il suo ritorno, con un biglietto di scuse e una pacca sulle spalle. Ma come chiudere tutta la vicenda che, come uno strano gioco di scatole cinesi, ha tirato in ballo cotanta forza dello stato assetata di giustizia?
Cinque pacchi, consegnati da un furgone frigorifero del macellaio Scafetta, il re della fettina del Musocco: cinque pacchi di salamelle nostrane, equamente assegnati. Uno al Braccialarga, uno al Lanzafame, uno al Girafumi, uno al Losurdo e uno a Mastro Lindo.

E stasera, finalmente, Beppe si riprende la libertà che, per un pizzaiolo egiziano, può essere racchiusa in un momento tutto suo, con un panino in mano e guardare il cielo: «Non sarà il cielo del deserto, ma in fondo anche questo posto ha la sua finestra per guardare su e respirare», confida Beppe alla sua salsiccia.
La poesia, però, è rotta dallo scoppiettare di un motorino che, per un istante, fa venire di nuovo la pelle d’oca al pizzaiolo: per fortuna è soltanto Mastro Lindo, con un sacchetto in mano. «Ti riporto i salami, a me non servono. Allah non gradirebbe» e li appoggia su un tavolino accanto all’esterno del ristorante.
«Non sai cosa ti perdi!». Un cenno di saluto, tra le briciole che piovono ai suoi piedi. Torna il silenzio, ma il destino di questa serata è segnato. Dopo Mastro Lindo, è la volta di Soraya, statuaria belva color d’ebano, pantera scosciata infilata in due stivaloni che sembrano trampoli, in piedi a un metro da lui: «Salsicce?» e indica il sacchetto appena abbandonato dal pony express.
Beppe fa cenno di sì: «Hai fiuto per certe cose, non fartele sfuggire».
«Allora stasera te le compro io. Mi sono rotta di starmene qui a perder tempo, oggi non batto chiodo, me ne torno a casa a mangiare. Quanto costano?».
«Seicinquanta».

La volata di Bogdan

«Settimo, non rubare!». Il piccolo Bodgan non ha idea di cosa significhi “settimo”, lui non si chiama con quel nome, ma quel grido di don Filippo, ogni volta che lo becca sul fico della canonica, lo fa sgattaiolare di scatto, giù dal muro di cinta e via di corsa sul marciapiede, dopo aver raccolto al volo il secchio e la spugna. Quasi sempre, però, allo zingarello del semaforo riesce di completare la colazione con quei frutti così dolci che penzolano a mezz’aria, a poche decine di metri dal vialone che immette sull’autostrada.

Poco prima, lascia la mamma e la sorella più piccola al capolinea dei tram, sul piazzale davanti al cimitero. Bogdan le accompagna, le vede salire sul 14, rimane lì fino a che il tramviere chiude le porte, mentre mamma ha già iniziato la cantilena per l’elemosina: “io povera, sensa casa, bambina malata, vengo da guera, prego aiutateci…”. Dal piazzale al semaforo, il posto di lavoro dello zingarello, ci sono quattrocento metri che si possono percorrere sullo stradone, oppure, allungando un po’ il percorso, si arriva allo stesso punto, ma passando per un viale alberato che conduce alla Certosa di Garegnano, non lontano dal tavolino del bar da cui Nebbia scruta il mondo, e poi, svoltando a destra si prende una strada stretta, lungo la quale, da sopra il muro della canonica, i rami di un enorme fico si piegano fin sulla strada, sembrano quasi spezzarsi per il peso dei frutti maturi: quello, ovviamente, è il percorso preferito da Bogdan, con pausa colazione inclusa.

Fino a sera, lo zingarello sa di dover rimanere al semaforo, accanto al cavalcavia dell’autostrada, nascosto dietro una colonna e pronto a sbucar fuori a ogni rosso, con secchiello e spugna pronto a lavar vetri. Quanti anni abbia non l’ha mai saputo, ma da pochi mesi Bogdan sa di essere grande, o meglio, alto abbastanza per poter arrivare con una spugna allungabile a passare per intero il parabrezza delle automobili, quelle normali, poiché i suv e altri macchinoni sono ancora inarrivabili per la sua statura. Ha poi scoperto che dall’alto dei suoi centimetri, ora, riesce anche ad arrampicarsi sul muro della canonica per raggiungere i rami più alti, quelli più ricchi di fichi e che persino don Filippo lascia al loro destino, perché non ha voglia e tempo di raggiungerli con una scala. Al prete basta raccoglierne un paio al giorno, di più non osa perché i fichi gli gonfiano lo stomaco. E allora perché non lasciar fare allo zingarello? «L’è mia tant la questione dei fichi, ma l’è il principio. Il fatto che oramai ‘sta gente, ‘sti zingheri non han paura di nessuno, già da bambini. E alùra ti ghe dè la man, si prendono il braccio. Chissà dove arriveremo di questo passo».

Ne parlava proprio l’altra sera con il Salmoiraghi, baffuto come Stalin, ma conosciuto con il nomignolo di “camicia verde” per il suo convinto attivismo leghista: «Padrùn à cà nosta», era il suo credo, imparato a colpi di vino rosso e morsi di salamella a Pontida, durante la festa popolare del partito lumbard. Don Filippo aveva voluto organizzare un dibattito “tra persone civili”, sull’accoglienza e l’integrazione e si era presto ritrovato in una bolgia tutt’altro che moderata con ovazioni e risate al grido di “gli zingari, peggio dei topi”. Per una decina di minuti, circa, il sacerdote aveva cercato di mantenere la discussione su toni pacati, poi aveva perso il controllo della sala riunioni dell’oratorio finendo per rimediare uno sputo in fronte, vile attentato a opera di un esagitato giovanotto con l’orecchino e uno spinello tra le dita che aveva chiuso il dibattito al grido di «Fasssisti».

La gente per bene non può più di questi fannulloni dei centri sociali, diceva tra sé don Filippo, intento a passarsi un fazzoletto sulla fronte mentre il Salmoiraghi regalava una perla di moderazione: «Comunista… va a dàa via i ciapp, e magari con gli strolig». Poi tutti a dormire a poche ore dal risveglio mattutino che, dopo la Santa Messa, per don Filippo aveva il sapore di una fuga d’altri tempi, in sella alla sua bicicletta da corsa modello Ghisallo, la compagna di mille avventure condivise proprio con il camicia verde che, in versione ciclistica era decisamente meno bauscia, a giudicare da come ansimava sulla rampe del Lissolo, una salita in Brianza, non lontano dalla metropoli milanese. In bici, guai a parlare di politica, era la regola numero uno. Mai. Nemmeno in casi estremi, come quel giorno in cui passando davanti al tendone della festa dell’Unità di Bollate, avevano rimediato un “drogati!” urlato da una ragazzina che quel giorno, uscendo da un dibattito, si sentiva di polemizzare sul doping, «lei che non ha mai pedalato e le farebbe bene», aveva risposto.

Pedalare, a settembre, è un piacere che aiuta a pensare, a meditare, a ricordare quando si era giovani e persino a immaginare una Milano diversa, senza quella cappa che toglie il fiato e l’odore che rovina il buonumore. Un paio d’ore in scioltezza, in maglia rosa, prima di tornare alla propria quotidianità, un prete e un politico: e in scioltezza viene spontaneo saltare l’ultimo incrocio, quello vicino all’autostrada dove, «porca sidèla, tel là», don Filippo scorge lo zingarello del mattino con il secchio in mano. Nel voltarsi ha uno sbandamento che mette fuori controllo la sua bici e quella del camicia verde, mentre alle loro spalle un automobilista spietato li urta a colpi di clacson e vaffanculo: perché non si è mai visto, a Milano, un qualsiasi mezzo a quattro ruote arrestarsi di fronte a due ciclisti fetenti. Nell’urto, la ruota della bici di don Filippo finisce nelle rotaie del tram, impennandosi sulla ruota posteriore, come un cavallo imbizzarrito. Risultato: un botto da rovinarsi il grugno che, una frazione di secondo più tardi, si ripete con un’evoluzione ancora più plastica del Salmoiraghi, che struscia sull’asfalto sbriciolandosi calzoncini e maglietta come se si avesse litigato con un doberman inferocito. «Vai Girardengo, vai a cag…..», è l’unico messaggio di conforto ricevuto da un suv alto due piani, in accelerazione.

Due corpi a terra, come due salami rotolati giù da un bancone di salumiere, nell’indifferenza dei passanti. Don Filippo ha soltanto la forza di alzare lo sguardo verso l’unica sagoma umana a un metro da lui. «Prendi questa, pulisciti con questa», gli dice il piccolo Bogdan porgendogli una bottiglietta d’acqua minerale. Stessa frase e stessa scena, Bogdan la ripete al Salmoiraghi a mezzo metro di distanza. Poi sparisce dicendo: «Spettatemi»
«Sti ciclisti hanno rotto il c…», è, nel frattempo, il messaggio di cordoglio proveniente da una Nissan. «Ma andate a piedi!» è il contributo audio di una Fiat. Senza parole, invece, il commento di una Renault che esibisce un dito medio alzato, fuori da un finestrino.

Due minuti e Bogdan è ancora lì, con una scatola di cerotti e una busta di fazzoletti disinfettanti: «Sono di mio amigo marocchino, li vende all’altro semaforo. Per voi gratis». Nello strombazzar di clacson, i due malcapitati provano a rialzarsi, don Filippo con la maglia rosa a brandelli, il Salmoiraghi con una vecchia casacca Cilo-Aufina in lana, orrendamente bucata.
«Fermi là, ho visto tutto», accorre un vigile urbano.
«E le è piaciuto lo spettacolo?», replica don Filippo., ancora sui binari.
«Tanto per cominciare, mi fornisca i documenti. Le ricordo che i ciclisti sono tenuti a rispettare il codice della strada e quel semaforo, se lei non l’ha notato, era rosso… Avanti, documenti…».
«Senti ghisa, lassa perd. Ti manca lavoro? Guarda là quanti maruchit da mandar via! Vieni qui a infierire con un curato?», lo rimbrotta Salmoiraghi che non rinuncia a far leva sulla propria fama maturata nei comitati di quartiere.
«Ah, ma è lei! Salmoiraghi! Così agghindato, mi pareva il Gimondi. Vabbé cosa facciamo…mi giro di là e non vi ho visto. A proposito…». E, nel voltarsi, il vigile urta proprio il piccolo Bogdan: «Guardalo qui, il furbone!» e lo afferra per un braccio.
«Bé spècia un attimo…», sembra volerlo fermare il camicia verde, ma con un tono più sommesso.
«Cosa c’è dottore? Non vorrà mica ignorare il problema di questi delinquenti?».
Silenzio del Salmoiraghi: ne va della sua immagine, meglio rialzarsi pedalare.

Anche Don Filippo assiste alla scena e non dice nulla, ma di scatto si rialza piazzando una testata al basso ventre dell’agente che crolla a terra rannicchiandosi sui suoi attributi spappolati più o meno maldestramente: «La mi scusi, signor vigile…non ho mica fatto apposta».
Nel frattempo si volta verso Bogdan indicandogli la sua bici e facendogli segno di pedalare via: lo zingarello capisce al volo, salta in un baleno sulla canna della specialissima modello Ghisallo e fugge via, come Saronni al Mondiale dell’82. Spinge sui pedali, in equilibrio precario, poiché ha le gambe troppo corte per riuscire a salire in sella: ma la tecnica dell’arrangiarsi lo porta lontano, lontanissimo, fino a farlo sparire nel nulla. Bogdan sapeva di essere ormai quasi grande, ma ora sa di poter pedalare su una bicicletta da corsa da grandi.
«T’è vist al bastardo?», sbotta il Salmoiraghi indicando ragazzino ormai in fondo al vialone. Detto soltanto per dovere istituzionale, di fronte alla forza pubblica che sembra imprecare qualcosa d’indicibile lì a terra, ancora alle prese con la testata al basso ventre.
Un gesto d’istinto, quello di don Filippo, ma la sua fidanzata in alluminio, la sua pantera a pedali, come la definiva lui, ora, chi la troverà mai più? «Faremo una colletta con il comitato di quartiere», lo rassicura Salmoiraghi che, alla fine, ne potrebbe trarre pure un vantaggio d’immagine. E già sogna il titolo sul giornale locale: “Rubano la bici al prete, il quartiere gliela ricompra”, con tanto di foto che, in tempi di campagna elettorale, vale moltissimo.

Notte insonne, quella che segue, sia per il sacerdote, sia per il politico: colpa delle sbucciature e degli acciacchi, bruciori e mal di ossa tipici dei ciclisti disarcionati. Notte a leccarsi le ferite e a pensare… La mattina dalla pianta di fichi mancano molti frutti: quel furfantello deve essere già passato a far colazione. Ma, oltre il muro, sul marciapiede, spicca una bicicletta da corsa, modello Ghisallo.
«Da domani, colazione senza predica», commenta ad alta voce il sacerdote.

Lettera a Varesenews

“Per raccontar Milano è bene partire dal basso, dai marciapiedi, più che dalle alte vette, il primato sociale e civile dato una volta per scontato o la capitale morale andata in frantumi come un vaso di terraglia”.
L’incipit di Corrado Stajano nella sua analisi pubblicata sul Corriere della sera un po’ m’inorgoglisce e mi conforta: perché l’opinione di un grande giornalista ricalca, in parte, la linea di pensiero che alimenta un progetto modesto, ma che ritengo prezioso, un’ opportunità per la quale vorrei ringraziarti: le Cronache milanesi raccontate nel blog che mi hai consentito di far nascere sono uno spaccato proprio sulla realtà quotidiana di una metropoli, una denuncia attraverso l’ironia e la fantasia di una decadenza sociale della periferia.
La fantasia è uno strumento che consente attraverso personaggi (sia quelli reali, sia quelli verosimili) di fare una riflessione, spesso spietata e ai limiti della caricatura, sulla vita quotidiana della Milano da marciapiede, quella terra di conquista per avventurieri, cialtroni, sognatori o semplici pendolari e, al tempo stesso, unico scenario, spesso alienante, delle giornate di molte persone che vivono nei quartieri lontano dal centro. Persone lontane, anche idealmente, dai messaggi patinati che offrono le vetrine delle strade della moda o i locali più “in” di una città un po’ snob e un po’ finta.
La città amara di cui parla Stajano che, in parte, emerge anche dalle Cronache milanesi, sottovaluta, però, il cuore ancora pulsante di certi quartieri: il degrado morale è evidente, ma la giungla metropolitana brulica di vita. Una città bastarda, puzzolente, inquinata, crudele, indifferente, ma viva. E in questa esplosione di vita ci sono anche individualità e spunti che sono forza positiva: al di là dei manifesti culturali, è da questa forza che Milano può ripartire.
Un blog che magari farà storcere il naso agli abitudinari del web, che richiede uno sforzo e un pizzico di tempo in più per essere compreso, ma che, evidentemente, entra a suo modo nel vivo del dibattito sul presente e il futuro di una metropoli: grazie ancora per questa opportunità.

Gibbone in fuga, preso con le mani in mano

Gh’è scapà al gibòn. Si aggirava in viale Papiniano, camminava ciondolante senza meta. L’hanno notato in molti, oggi ne parlano tutti i giornali. C’è già una segreteria di partito che studia una strategia per la prossima campagna elettorale: la faccia buca il video, indubbiamente. Il gibbone è un inedito che potrebbe diventare il simbolo della riscossa delle facce da schiaffi, degli uomini scimmia, o soltanto delle scimmie.
Si grattava il capo nervosamente, il gibbone, e non sapeva se valesse la pena di attraversare il viale oppure rimanere lì, sotto il platano: il dilemma di una giornata di un milanese, forse un po’ atipico, ma pur sempre con una dignità. Più di qualsiasi clochard, di un miserabile, come i tanti che vagano alla stessa maniera e riscuotono soltanto indifferenza: almeno il gibbone non è sembrato una comparsa scomoda, ma attore protagonista di qualche fotogramma della giornata più appiccicosa dell’anno, con l’afa che fa molto equatore.
Ma un gibbone o un chicchessia finisce comunque per fare massa e in città la massa finisce per dare fastidio. Già dopo una mezz’oretta che era lì con le mani in mano, sotto il platano, c’era qualcuno, sul marciapiede opposto che mugugnava alla vista dell’energumeno peloso: «Di questi extracomunitari non se ne può più». E già ci sono opinionisti che si chiedono se si tratti di razzismo oppure di un passaggio di grado, da semplice scimmia a extracomunitario, categoria che a Milano ristagna nei piani più bassi del rispetto, purtroppo.
Gh’è scapà al gibòn e potrebbe diventare presidente. Dove? Una poltrona qualsiasi. E se non ci fosse posto, va bene anche manager. Ci starebbe seduto giusto il tempo per far danni e mandare qualche azienda sul lastrico e, magari, come buona uscita, è a buon mercato e si accontenta di un casco di banane: una convenienza, tutta da valutare.
Ghé scapà al gibòn, ma poi l’hanno arrestato, come un malandrino: si potrà mai permettere, uno scimmione, di fermarsi a pensare se attraversare una strada oppure no? Dietro le sbarre, ma presto in libertà, assicurano i benpensati: «Al suo paese, magari. Rimandiamolo da dove è venuto». Qualche deputato protesterà e c’è chi farà gazzarra su ‘sta cosa, un’interrogazione parlamentare potrebbe essere all’ordine del giorno. Clandestino è una brutta parola di questi tempi, ma ancora non è chiaro se esiste una normativa che faccia distinzione tra uomo e scimmia. Soltanto la tivù, a questo punto, potrebbe salvare il gibbone di Milano dal triste destino di un “sans papier”: un talk show farebbe al caso suo, ma in estate i palinsesti sono tutti bloccati. Rien à faire, non se ne fa niente: gh’è scapà al gibon e Milano non è più la stessa. O forse no.

Taleggio e cronaca nera

Giacomo è un lupo della cronaca, detto Schiscetta. Un lupo diurno che parte da lontano ogni mattina: un’ora di treno, stop in periferia. Milano Certosa, la porta del far west, e un chilometro a piedi fino alla redazione. Mentre il treno saltella sulla traversine dei binari, ha tempo per sognare e pensare, leggere e tacchinare giovani studentesse inebetite dal fascino del reporter. Lui, esperto lavoratore ai fianchi, soprattutto quelli scavati e sinuosi, non ha tempo da perdere, deve “far girare il giradischi“, dice lui. Inteso come sfangare parole e notizie ai margini della città. E così, per risparmiare tempo e denaro, la moglie Nunzia, sarta in cassa integrazione nella “Brianza bene”, gli confeziona pranzi al sacco alla vecchia maniera: al bar dell’angolo, panino, birra e caffè fanno più di dieci euro. Per molto meno, Nunzia propone sfilatino agli sgombri alternata a michetta con taleggio e focaccia con mortadella, rigorosamente con pistacchi. Regola numero uno, variare il menù, secondo l’alternanza classica: tre sapori opposti, tre odori diversi che si spandano, uno per giorno, tra le quattro mura di un ufficio polveroso e pieno zeppo di carta e scrivanie.
Il posto di Giacomo è il playground dell’acaro, ma poco distante c’è il paradiso della Wilma, pantera della rosa, regina del pettegolezzo e del cambio merci: notizie glamour al prezzo di profumi ed elisir di giovinezza. Il suo silenzio sugli scandali in cambio di creme per il seno e autoabbronzanti.
Sedici metri quadri nei quali concentrare i fatti di un giorno sudicio, suddivisi in quattro angoli, tra i quali spiccano l’angolo della bionda che manda aroma di mughetto e menta e, ai confini della realtà, la nicchia modello Calcutta, dove abitualmente siede e sverna Giacomino che “gira il giradischi”.

Pausa pranzo in solitudine per lui, un uomo in trincea tra scrivanie deserte: oggi è il giorno del taleggio, pasta morbida che stoppa un po’, ma con un buon chinotto va giù senza fare il bozzo in gola. Tace Milano, la cronaca fatta di coltelli, transessuali e gelosia, per ora lascia un po’ di tregua. Masticando in intimità, la mente viaggia agli anni della gavetta, quando il Giacomo faceva il galoppino in provincia, sempre a caccia di liti da cortile, scambi di vedute e ceffoni in consiglio comunale, roba da poco. Nella periferia di una metropoli si vive impelagati nel torbido, con la vita che ogni giorno vale sempre meno: nei palazzi bene, si accendono telecamere e si mostrano paillettes, qui la gente si accoltella per un niente, sangue che diventa titolo per un giorno, anzi meno. E poi i morti scompaiono presto, oscurati del delitto del giorno seguente: tritacarne mediatico, lo chiamano. E Giacomo fa “girare il giradischi”, nel senso che muove un sottobosco d’informatori, una rete costruita da topi e talpe di città.
Nemmeno il tempo per il secondo morso al panino, nemmeno un fiato di chinotto, il telefono è come una fitta allo stomaco, se squilla quando non dovrebbe: «Per Dio, pronto! Ex domatore depresso è fermo sul cornicione di via Sapri? E che fa, aspetta il trapezista? Guarda giù e non sa che fare? Senza la rete? Forse non si butta, ah…ok, corro lì». Boiavacca a ripetizione, nel giro di dieci secondi, panino in mano, canapino e penna a sfera nel taschino della giacca, Giacomo scatta dalla scrivania, ma sbaglia le misure di dieci centimetri: inciampa e vola, con un porc…. formato arcobaleno. Gomiti a terra e una michetta che rotola inesorabilmente sul pavimento come un frisbee lanciato male. Non c’è tempo, c’è da correre sotto il cornicione, il panino finisce nel cestino dell’immondizia, beffa vigliacca prima di sparire e raggiungere il domatore.

Cose che capitano, si dice in questi casi, ma a volte la sorte prende pieghe bizzarre: come la piega della fetta di taleggio che, per uno strano destino, va a infilarsi sotto la scrivania della Wilma, ignara e assente. Un centro perfetto in un pertugio tra scrivania e parete, prima di scomparire nelle tenebre. Ma il taleggio, si sa, non è all’occhio che desta scalpore, bensì all’olfatto: la sua presenza non la si vede, ma la si avverte sempre, questo è sicuro. La peggior disgrazia immaginabile per la bionda Wilma che, mezz’ora dopo il rientro dalla pausa coiffeur, sospira nervosamente come se stesse preannunciando un attacco d’asma. «Non è nemmeno colpa del Giacomo», pensa tra sé, accorgendosi che il collega è fuori sede, ma l’inquietudine non si placa. Il dramma impone un intervento drastico, firmato Chanel numero 5 spruzzato a litri: ne esce, però, un mix mefitico, perché il taleggio è bastardo, non si placa nemmeno dentro una tanica di acqua di colonia.
La redazione si anima, un viavai di collaboratori, informatori, pony express, nella selva di parole e squilli di telefono, ma anche agli uomini più avvezzi al sentore selvaggio non sfugge l’olezzo della Wilma: un istante, quasi un mancamento, imbarazzo di un secondo e tutto riprende. Ma per la Wilma, no, la vita non è più la stessa, questa è la peggior tragedia che le sia mai capitata, dopo il black out della doccia solare del 2004: continua a guardarsi attorno, sul pavimento, non vede nulla, tutto è come sempre. Non resta che passare in continuazione la scrivania con il multiuso, ma niente, l’aroma è quello di un sandalo di marciatore al termine di una giornata d’estate.

E così va per tre giorni, con Giacomo e i suoi panini che non fanno più breccia nell’atmosfera guastata dal terribile nemico invisibile. La cronaca corre, non ha tempo per guardarsi attorno, ma la Wilma non potrà resistere a lungo. Fino alla catastrofe. Il caporedattore si alza con fare scocciato e gli si para davanti, mentre lei è al pc: «Wilma, porca troia, ta spuzzan i pé». Non servono traduzioni per immaginare l’effetto devastante di tale attacco frontale che fa vacillare il volto truccatissimo della pantera della rosa. Volto color fucsia, misto rabbia.
Dieci minuti di terrore sulla sua scrivania, la Wilma fulmina tutti con lo sguardo e sposta furiosamente ogni cosa gli capiti sotto mano, alla ricerca di una prova che possa in qualche modo scagionarla: «Se potessi sbattergli i piedi in faccia, a quello là, per fargli capire che io i piedi me li lavo eccome».

Un urto accidentale, la scrivania si muove di un centimetro. Dall’oscurità, vicino alla parete, fa capolino qualcosa di giallo, che visto da vicino viene identificato. Wilma lancia un urlo che è più di liberazione che di terrore: «È formaggio! Non sono io!» Gelo e silenzio tra le quattro mura e quattro giornalisti accampati lì: volti che si girano all’angolo Calcutta, con Giacomo che diventa un punto di domanda vivente. Prima non capisce, poi accetta il verdetto: il destino ha voluto punirlo, beffardo, e a girare il giradischi, ora, è nel sottoscala, per ordine del direttore. Lontano dal mondo che conta, esattamente come le sue notizie giornaliere.
«È una questione di sopravvivenza. Qualità e immagine prima di tutto!», urlano le gerarchie dentro gli uffici passati con la cera. Una fetta di taleggio, oggi, è quanto basta per rivoluzionare la politica di un giornale, soprattutto se va a scapito della reputazione di una gattona che vive in una nuvola di Chanel. La prima pagina ora è un gran florilegio di sfilate e feste, scollature e lustrini. Non c’è futuro per i cronisti con la schiscetta. Tempi duri anche per gli ex domatori che passeggiano sui cornicioni.

La disfatta dell’anarchico

«Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato». (Matteo 28,19-20)
Nina Orapronobis ha una fede inattaccabile, non c’è tentazione che faccia breccia nel suo cuore. Nebbia ogni tanto la incontra lungo la strada che conduce alla fermata del tram e, ormai, ha smesso di discutere con lei di religione: qualche anno fa, ci passava svariate mezz’ore a contestare le certezze della donna, in materia di aldilà e profeti. È la colonna portante della sezione locale dell’Aziona cattolica, la Nina: inversamente proporzionale al suo aspetto, esile come un roditore, ma un gigante nei valori. Nebbia ce l’aveva in particolare con la vecchia storia della castità – non che la Nina l’avesse mai indotto in tentazione, ipotesi peraltro fin troppo audace per la fantasia di chiunque – e con l’influenza clericale sulla vita politica. Ma la Nina, nulla, aveva sempre replicato colpo su colpo a ogni provocazione, come un libro stampato e quando si ritrovava messa all’angolo, sfoderava un vecchio adagio, che le figlie di Maria, anni fa, sbandieravano come un grido di battaglia: «Sott al campanin sa fa mai cattiva fin».

Da qualche anno, però, il tarlo della politica aveva in qualche modo intaccato il suo integralismo, noto in tutto il quartiere. Lì c’era ancora da litigare, secondo Nebbia. Lo scudocrociato in decadenza non fa più breccia nell’affetto di una generazione, dopo cinquant’anni di battaglia contro una falcemartello che, all’ombra della Certosa, non si è mai capito bene cosa e chi insidiasse. Nina ha nel cuore la figura di un novello cavaliere della salvezza, che gli ha comunque permesso di salvaguardare il suo motto, che vive da cinquant’anni: «Il genio del male va respinto dai luoghi di potere, via i senzadio dai posti di comando», inculcavano dai pulpiti. E le angeliche portatrici del messaggio evangelico, delle quali Nina era la guida, erano in prima linea, con le loro voci eteree, nel trasmettere dai marciapiedi fino su, ai terrazzini più miseri di ogni condominio, il messaggio chiaro che veniva dal fronte bianco contro l’anticristo, in genere di colore rosso e con barba e capelli incolti. Nunc et semper, nelle case degli italiani, dai marciapiedi alle tivù.

Caso vuole che Nebbia rientri perfettamente nella fisionomia del maligno: la natura lo ha fatto troppo simile a Karl Marx, in quel suo irsutismo che non lo fa certo somigliare a una creatura angelica. Nebbia vive l’anarchia, è anarchia fatta persona, ma la gente lo crede comunista. E lui ci gioca, su questa ambiguità, soprattutto con la signora Orapronobis, immacolata anche nella cabina elettorale: «La rivoluzione può darsi che non avverrà mai, ma lei sarà travolta dall’esercito del presidente, cara Nina, un plotone di maggiorate chiappe al vento».
«Muccala Nebbia, lavati la bocca, sempre con questa calunnia montata ad arte. Ci vuol rispetto per chi lavora. Famiglia e lavoro, che ne sapete voi che vivete allo stato brado?».
«Ora et labora Nina, che il tuo presidente tromba… ma che ne sai tu di sta materia? Al catechismo non le insegnano queste cose, ma al night club da oggi si prendono i voti dei cattolici».
«Sempre il solito volgare, sei un panefanagott, sempre in giro a spese della società. E ringrazia che c’è la carità cristiana, altrimenti quelli come te… dritti all’inferno da un pezzo».
Parla così bene il presidente, è gentiluomo vecchio stile: «L’è anca un bel omm. Si vede che è uno che si è fatto da solo, che lavora. Ci piaccion le belle donne? Chissà quanto ricamano quegli invidiosi dei suoi avversari. Già, l’invidia è una brutta bestia. Il vescovo dice che bisogna difendere la famiglia, lui è il baluardo».
«Ma se il suo partito è un covo di divorziati!».
«Va, va Nebbia, lassum istàa, ti ghe madumà ball. A contare le frottole, vai all’osteria».
Tutto il cancan sulla politica di questi giorni, ha fatto venir voglia pure a Nebbia di andare a votare. Il certificato elettorale, immacolato e inviolato come la Nina Orapronobis, è presto ritrovato, sul fondo di un vecchio cassetto. Seggio 3, non si può sbagliare: «Vado là e mi diverto io, poi. Io sì che ho le idee chiare e mai le nascondo».

Dieci minuti in coda, non di più, carta d’identità alla mano. Piccole formalità burocratiche per sentirsi, con matita e scheda in mano, di contare qualcosa: «Lo Stato mi dà il potere per un giorno, io lo uso come mi pare», dice tra sé. Se un anarchico va dallo Stato, deve valerne la pena. E Nebbia ha deciso che oggi ne vale la pena, ribadendo un motto che ha fatto storia tra i contestatori: “viva la gnocca” scritto a caratteri cubitali. Ecco il suo voto, in disprezzo al sistema: dietro la tenda della cabina è pronto al suo gesto, come un terrorista delle piccole cose. Ma un terribile dubbio lo assale, imprevedibile: «Mund lader, ma viva la gnocca è la linea del presidente, non si può dar ragione a quello là». Bisogna pensare a qualcos’altro e, soprattutto, mai arrendersi alla scheda bianca, simbolo dell’inconsistenza: «Se io conto, qualcosa devo scrivere su sta scheda». Passano i minuti e alle sue spalle, là fuori, c’è chi mugugna.
Mai accaduto prima. Nebbia è nel panico e, in cerca di una soluzione, gli capita di fissare i simboli dei partiti: tanti disegnini, «qualcosa bisogna pur scegliere», gli balena per la testa. «Ma quanti sono? Ma chi c…, ma come cavolo». La mente è come un flipper in tilt, gli occhi vagano da un simbolino all’altro e, assalito da un senso di disperazione, quasi sfinito, mette la sua croce che sembra uno sbrego sulla scheda. Chiude il plico senza pensare, senza vedere, imbuca nell’urna e scappa via, in dieci secondi, senza dar peso agli altri che lo osservano perplessi. Fino al marciapiede, giù in strada, appoggiato al muro della scuola: voto regolare e conteggiato, il primo nella sua carriera di anarchico. Segno della resa. Rinsavisce e ricorda: una croce su quel tricolore su fondo azzurro… «Boiavacca, ma perché non sono andato a pescare!», impreca ad alta voce.
Il presidente ha vinto anche stavolta, l’esercito delle maggiorate sventola bandiere e poppe. La Nina, che il reggiseno non l’ha mai indossato perché non previsto dalla scritture, passa di lì e, senza sapere, rifila una battuta che sembra un gancio di Mike Tyson: «Che l’amore trionfi, figliolo. Ma voi comunisti sapete anche leggere, per votare?». La disfatta è compiuta: «In saecula saeculorum, amen», risponde Nebbia.
“Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi” (Niccolò Machiavelli, Il principe)

Divorzio di diamante

5 giugno 2009, cielo velato e aria meno afosa del solito. Adelina del terzo piano, interno tre, a due minuti di strada dalla fermata del tram, prepara una valigia in similpelle, sgualcita negli angoli, con i manici un po’ cotti dal tempo: prova a metterci dentro quel che ci sta, quel che pensa di salvare da una vita, dopo sessant’anni tra quattro mura a far minestroni. Alle otto del mattino ha sciolto un nodo che aveva dentro, nella bocca dello stomaco, dal 5 giugno 1949, giorno delle sue nozze con Callisto Bianchi, nato e cresciuto al Musocco, con l’intenzione pure di morirci in quel quartiere. Ma l’Adelina no, ottant’anni suonati sono l’età giusta per scendere al piano terra e sparire verso la libertà che l’aspetta alla fermata del tram. Alle otto del mattino ha celebrato le sue nozze di diamante con un solenne “vadavialcù”, in stereofonia con finestre aperte e vento che spirava verso il bar, dove Nebbia seduto al suo tavolino ha sentito bene. Il Callisto non l’ha nemmeno guardata: in canottiera, appoggiato sui gomiti alla tovaglia cerata del cucinino, ha continuato a fissare il suo bicchiere semivuoto e il bottiglione di rosso dell’Oltrepo semipieno, masticando uno stuzzicadenti. L’Adelina ha preso fiato, si è gonfiata il petto e l’ha sgonfiato sul volto del marito. Vadavialcù, simbolo di redenzione di una casalinga che sta per partire verso l’ignoto.

Il 5 giugno 1949, a sposare il Callisto ci era andata in bicicletta, partita da una corte del Giambellino con mamma Ines, papà Giuseppe e i fratelli più piccoli, Rosaria e Santino. Per lei, papà aveva fatto il sacrificio di acquistare una Dei di seconda mano, nera e con i freni a bacchetta, regalo di nozze conquistato centellinando ogni risparmio. Tutta la famiglia era arrivata alla Certosa con altre due biciclette chieste in prestito al panettiere vicino di casa: mamma e papà in sella, Rosaria sul portapacchi, Santino sulla canna della bici usata da papà. Gli zii e altri parenti si erano arrangiati con altri mezzi o erano venuti a piedi, una decina di persone in tutto. Aveva detto sì al Callisto, perché prima o poi a qualcuno avrebbe dovuto dirlo, una zitella in casa non ci sta mai volentieri, e in fondo gli voleva bene. Gliel’aveva presentato la sua amica Gisella che, come il Callisto, lavorava in fabbrica a Greco. Si erano conosciuti per caso in una balera improvvisata fuori da un’osteria: ci andava di nascosto per ballare mezz’ora, non di più, il tempo massimo consentinto affinché a casa nessuno se ne accorgesse. Anche il Callisto l’aveva sposata per amore, ma di quel giorno ricorda soltanto l’ossobuco con il risotto, pranzo da re dopo la cerimonia, alla trattoria della Nina, un vecchio locale sul Sempione. Poi via, in treno, per il viaggio di nozze: tre giorni a San Mamete, sul lago di Lugano sponda italica, ospiti della zia Giacinta.

Da allora, tutto aveva cominciato a sbiadire, destino segnato per una casalinga senza figli: sua madre gliel’aveva detto, «sensa bagai, la famiglia la va a ciapàa i quai», ma la natura aveva deciso per lei mentre il Callisto si bruciava anno dopo anno, tra catena di montaggio e osteria. Nella camera da letto c’era giusto il tempo per “svenire”: giornate senza parole, nottate solo di suoni sordi e rumori corporali.
Ottant’anni lei, ottantaquattro lui, nozze di diamante nel segno dei tempi moderni: Adelina si separa, «come la tosa della Gisella, ventisette anni, divorziata dopo sei mesi». Sessant’anni, invece, per lei: non trascorsi, ma scontati. Guarda la stanza, allunga lo sguardo fino in salotto e pensa a cosa mettere in valigia, cosa salvare: la foto di mamma, la statuetta di Papa Giovanni, “Tu sei quello”, 45 giri di Orietta Berti, e poi? Lo sguardo vaga tra pareti e mensole, Adelina prova a pensare cosa valga la pena di portare con sé di quella vita, vorrebbe scegliere mille oggetti, ma non trova niente. Prova almeno a immaginare un gesto che scalfisca la scorza spessa e dura di quell’uomo di pietra, l’orso Callisto che rivive ogni giorno la stessa trama. Da quando è in pensione, Greco Pirelli è dimenticata, gli restano l’osteria e l’Inter. Adelina allora ha una lampadina che le si accende nello sguardo, una vendetta, la ripicca che almeno lo faccia bestemmiare: c’è il quadro con la foto autografata di Mariolino Corso, in camera, stella neroazzurra che Callisto ha voluto accanto alla Madonna di Caravaggio e sta lì dal 1963. Lo spolvera ogni giorno con devozione sincera nei confronti dell’Inter dei miracoli. Un istante, un movimento rapido ed è in valigia: Mariolino Corso rapito per vendetta, da una casalinga che la domenica ascoltava la Pavone, mentre il marito, senza soldi per andare a San Siro, ascoltava le partite in cucina, alla radio, lì davanti a lei, senza mai dire una parola. «Perché perché, la domenica mi lasci sempre sola», «Adelina tass, silenzio!».

Il campanile della Certosa scandisce il mezzogiorno, l’ora del desinare di ogni operaio milanese della vecchia guardia: ma il Callisto oggi si aggira per la casa senza sentire né rumori, né odori di cucina, i polmoni scuotono fumo e catarro, con litanie di “istu” a ripetizione. Un girovagare inquieto e in preda al disorientamento, il suo, fino alla camera da letto: una parete vuota, la Madonna di Caravaggio non ha vegliato sulla disgrazia. Capisce e rimane impietrito: la moglie in fuga con Mariolino Corso, crollano certezze. Adelina corre sul 14, destinazione ignota, sui binari della libertà assapora sensazioni mai provate prima.
Passa il pomeriggio, Callisto continua a masticare lo stuzzicadenti con fare rassegnato, il volto corrucciato spulcia con gli occhiali sul naso l’elenco degli annunci sul Giorno: cercasi badante rumena, possibilmente giovane e nubile. Ma le voci a quattro, cinque stellette riportano solo le offerte di Luana, Ramona, Chantal, Sharon, Astrid: segno dei tempi che cambiano, della società che consuma, che tutto compra e tutto vende. «Lo diceva il curato che il diavolo è tra noi, il diavolo ha scelto le donne, le donne la libertà», mormora tra sé. Eppure non ha rancore: «Me lo poteva almeno dire, in sessant’anni, che teneva per l’Inter».

Lo scandalo del florilegio

Ore 7,30 puntuale, tutte le mattine. L’Ernesta del Musocco è presenza fissa davanti all’altare della Certosa. Riempie il silenzio della navata deserta, con i suoi pateravegloria: un regno mistico inesplorato, lasciato in pace dalla città là fuori che tira in ballo i santi anche soltanto per un inciampo sul marciapiede. Rosario d’ordinanza o lodi mattutine, la cantilena è più o meno sempre la stessa e chi vuol partecipare tenga il ritmo dell’orapronobis, oppure non si permetta di disturbare. Roba da professionisti, vietata agli asmatici.
«L’Ernesta dialoga con il Signore», spettegola la tabaccaia in visita mattutina all’acquasantiera, giù in fondo, vicino alla porta, senza tempo né voglia di avanzare sulle panche davanti. La tabaccaia alza i tacchi e se ne va, ha già visto quanto basta per diramare il bollettino di giornata: il Signore, in realtà è un signore ben più terreno, benché l’Ernesta faccia di tutto per non dar scandalo, la tabaccaia ha capito, ha saputo, ha commentato. E le parole hanno preso a volare, gonfiando mugugni e risatine da Musocco fino a Pero.

Sulle volte vegliano figure di angeli, là in alto, affreschi del Crespi e del Peterzano, il maestro del Caravaggio: lì sotto, tra la luce e le ombre disegnate dalle vetrate, una santa donna dall’età indefinibile manda in scena il suo rito. C’è un amore che non trova consolazione, ma soprattutto il timore di confessare un pensiero impuro. Il rito dello scandalo è un gioco di gesti e parole, tra lei e il Fausto, il bonsaista, che ogni venerdì arriva in chiesa con fare circospetto. Ha in mano un mazzo di fiori e si esibisce in audace corteggiamento: lontano dagli occhi della gente, ma davanti all’Altissimo, confidando negli angeli e per non mancar di rispetto a loro e alla signora, i fiori li depone davanti all’altare. Sono per l’Ernesta, ma lei sopraffatta dalla vergogna mai avrebbe il coraggio di raccoglierli e li lascia lì in omaggio, anzi in espiazione. Fausto va oltre, lei inginocchiata davanti alla panca, lui anche, alla sua destra, solo per qualche istante: «A te ricorriamo esuli figli di Eva, a te, sospiriamo gementi e piangenti», incalza lei alzando la voce come a difendersi da una sicura avance. «A te mia cara Nesta, che sei la rugiada di questo mattino, fresca e pura nel mio cuore», incalza lui con volto fisso al crocifisso, a mezza voce, tanto da inserirsi appena nella cantilena che, dal fondo della chiesa risulta un suono incomprensibile alla tabaccaia vigile. Un minuto, ognuno con la propria preghiera, poi il Fausto si alza e se ne torna alle sue piante, a due isolati dalla chiesa. A litania finita, l’Ernesta si rialza facendo scrocchiare le ginocchia, spalle all’altare e fugge via a passo spedito, paonazza in volto, arriva a casa con il batticuore di un’adolescente e tira giù d’un fiato un sorso di grappa, per ritrovar le forze. La giornata scorre vie veloce, nella sua solitudine di vedova, scorre anche la settimana con la testa e il cuore al venerdì.

Bonsaista sì, ma quando serve il Fausto non fa le cose in piccolo, per i suoi mazzi non bada a spese e dimensioni: calle, gladioli, rose, gigli, persino orchidee. Vestito della festa, profumato al pino silvestre, fermacravatta d’argento e fazzolettino in tasca, Fausto è tutto cuore e poesia, uomo d’altri tempi: «A te, o Nesta il mio pegno in dono a te al cielo». E lei: «O Gesù d’amore acceso non ti avessi mai offeso…». Altro venerdì. «A te Nestina mia, un segno di primavera a te a al Signore, che custodite il mio cuore…». «… preservaci dal fuoco dell’Inferno, porta in cielo tutte le anime». Il rito si ripete per settimane, ma la Quaresima del Fausto sta per finire.

Una mattina di primavera, ore 7, “la sventurata rispose”. Ernesta del Musocco sceglie l’amore con la benedizione del cielo. “In que’ momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva”. Sente dei passi avanzare dal fondo della chiesa, si volta appena, quanto basta per intravvedere una sagoma d’uomo su scarpe di vernice. Fausto oggi sembra voler esagerare, il mazzo è enorme, immenso bosco floreale, esplosione di colori che emanano un profumo di primavera che purifica l’aria inquinata di una chiesa sopravvissuta ai bordi dell’autostrada. Ernesta si volta ed esce dal banco, l’enorme cespuglio fiorito avanza lentamente su piedi un po’ malfermi. “Un prodigio della natura”, pensa lei. E rompe gli indugi: «Basta, non aspettiamo più. Ti amo, il cielo è con noi, uniamo la nostra passione». Silenzio, secondi interminabili, il tempo di far precipitare a terra l’enorme florilegio. Don Nicola sembra di pietra, bianco in volto: «Se te gh’è? Vade retro Satana». L’Ernesta spalanca la bocca,sbotta, viola in volto: «U Signùr cara Madona, al ma scusa», e fugge via. Si prepara il Corpus domini, alla Certosa, e il curato ha già un po’ sciupato i fiori per l’altare, finiti miseramente sotto i suoi tacchi, durante la fase convulsa.
In fondo alla chiesa, la tabaccaia sgrana gli occhi e si trova nelle orecchie la notizia del secolo, tutta da spifferare a manetta sulle frequenze di radiopettegola. Fausto, il bonsaista, è in coda al semaforo, arriverà in ritardo, il suo primo venerdì in ritardo. Tipico da “due di picche”. Gode soltanto il fiorista.