Via i ragnetti rossi dalle procure!

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Jack, ragnetto rosso, ha fermato i processi. Vi sottopongo la dichiarazione di guerra di un altro ospite del tribunale, oltre ai miei compagni roditori. Come un caporibelle libico è in cerca di un francese, che possa fare giustizia, o quanto meno che possa farlo entrare in una barzelletta di quelle che si raccontano ai vertici internazionali. Sulla vicenda, invece, gli italiani hanno già deciso di fare piazza pulita. I rossi in un palazzo di giustizia sono troppo scomodi, lo dicono i sondaggi. Al contrario delle vedove nere che, invece, creano meno imbarazzo e solleticano i ricordi dei nostalgici di ben altri palazzi.

“Sì sono Jack, sono un trombide e anche io sono finito in procura. Trombide nel senso biologico e non un malato di bunga bunga, come si potrebbe pensare con fin troppo facili allusioni: sono nipote di John l’acaride, altro trombide di razza, ma con Mubarak non ho nulla a che fare. Mentre in Parlamento si discute del fine vita, che scopro dal nostro presidente essere anche questo un privilegio dei pm, qui in tribunale il fine vita l’hanno deciso senza troppi complimenti: fine vita per noi ragnetti rossi. Ma io intendo sopravvivere: provate a schiacciarci tutti, ma quel colorino rosso sulle vostre manine resterà indelebile o quasi. Impossibile estinguerci: cercate, andate pure a cercare nelle vostre enciclopedie, di cosa ci nutriamo. Escrementi, escrementi soprattutto di volatili… ecco, allora, un ragnetto rosso che mangia stronzi, che fastidio vi dà?
Al quinto piano di questo magnifico tribunale, mi aggiro tra i faldoni del caso Ruby e ne leggo di tutti i colori: cara Milano, un ragnetto rosso potrebbe un giorno testimoniare e mandare tutto a p. Un giorno, ve ne accorgerete, parlerò: e saranno guai per tutti”.

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La storia si fermò: Milano asburgica

“Viva Radetzky!”. Lo dicevano già allora, i nostri avi campagnoli, che mal sopportavano i signori: lo dico ancora io, in questo stato ideale che, per fortuna, vero stato non è, e nemmeno regione. Forse è provincia. “Viva Radetzky!” contro l’ingiustizia dei ricchi che sfruttavano i poveri contadini, ma per fortuna che quelle 5 giornate furono un flop, dopo pochi mesi. Ora sì, uber alles, siamo cittadini austriaci: sì, forse fratelli minori, ma sempre in famiglia asburgica siamo…. Willkommen in Mailand! Non siamo nemmeno lombardi, siam qualcosa di più: lombardo-veneti! Keine Padania, bitte. Lumbard tass, siam lombardo-veneti-austro-ungarici: e guai a chi la mena con la solfa di Pontida, Legnano, il Carroccio e l’Alberto da Giussano. Tutte favole che l’impero, giustamente, ci ha fatto dimenticare, a nerbate. E per fortuna, che in questa provincia austriaca, quei barbari dei piemontesi non hanno sfondato.
Ora sì che siamo felici! Mailand, Lombardo-Veneto, 2 marzo 2011: una terra dove tutto funziona a meraviglia, ci sono le aiuole e i prati sempre verdi, le mucche che pascolano qua e là, le stazioni che funzionano, le città pulite. Milano sembra un bijou, non me ne voglia l’imperatore se uso un termine francese un po’ volgare. Quel Radetzky ci accontentò: e ora, finalmente, il tedesco è la prima lingua, l’italiano è un dialetto, il dialetto è un sottodialetto. Vielen dank, geliebt Osterreich, amata Austria, per averci evitato un risorgimento che, altro non era, che un’idea malata nella testa di pochi.
Ma che bell’Austria meridionale siamo! Con tutte quelle tasse da pagare a Vienna: sono davvero menti amorevoli e illuminate i nostri governanti. Ora, come in passato. Come quando ci misero la tassa sul fumo: grande idea. Oggi, per dimostrar progresso, alla tassa sul fumo hanno giustamente accompagnato l’obbligo di fumare, altrimenti che tassa è: e così hanno fregato i furboni che si erano messi in mente pure di scioperare, come fecero quei mentecatti del ’48 (Ottocento).
Sehr gut, canederli e rustisciada ci stanno a meraviglia assieme: in onore di Maria Teresa. Sì, viva Maria Teresa imperatrice! E tutte le sue riforme che rendono orgogliosi i tirolesi come i friulani e pure i bresciani: e bravi i mantovani che, ormai da tempo, hanno ripudiato Virgilio e mille anni di gloria italica, per il progresso germanico. Wir tanzen Strauss! Si danza e si fa festa con il mito imperiale, il valzer di Strauss: così spumeggiante e decisamente più appropriato per questa terra, piuttosto che quel rovinacervelli di Giuseppe Verdi, così patriottico. Troppo.
Meglio questa Mailand che si fa spremere da Vienna, sì: spremete i nostri signori, spremete anche noi, ma fateci felici, con i vostri divieti e imposizioni lungimiranti. Zwei svanziche per un gelato al limon: prezzo equo, non si discute. Dispotismo illuminato: perché chiedere di più? Non oppressione, bensì regno: perché pensare a un consiglio regionale democraticamente eletto, se possiamo contare su ben altro sistema di governo, lecitamente imposto sulle teste di noi poveri ignoranti lombardi. Democrazia… che sciocchezza! Meglio confidare in una nobile famiglia, superiore per rango e potere. Ci toglie da ogni imbarazzo: non vorrete che accada, che so, che un brianzolo arricchito e senza istruzione possa un giorno arrivare a possedere televisioni e giornali e, magari, lavar il cervello alla gente? E, cosa inaudita, possa addirittura ambire a governare questo stato? Da sudditi, almeno, siamo salvi da certi pericoli, tipici della democrazia.
Viva Radetzky! Che ci ha liberati da sventure ben peggiori, da quel Cavour che avrebbe voluto farci tutti piemontesi, da quel Garibaldi volgare e violento, o da quel Cattaneo che sognava una Lombardia diversa: e pensava addirittura al federalismo. Ma si sa, il federalismo è il compimento massimo della democrazia, impone un’identità nazionale talmente forte da non temere, anzi da trarre giovamento dalle autonomie: uniti nella diversità, quante fandonie! Lumbard tass! C’è l’Asburgo che parla per te. Tutto il resto è inutile, ci basta una monarchia tedesca che decide per noi. Che ce ne facciamo della democrazia e dell’Italia? Wir sprechen Deutsch! Osterreich uber alles!
17 marzo: l’è al dì di mort, alegher!

Capocriceto e il suo toposutra

La libertà sessuale era la più grande conquista sociale di noi topi: sì, anche di noi topi di campagna, roba che voi uomini ve la sognate con tutti quei sensi di colpa e tabù che vi portate dentro. La libertà, in quanto tale, si sa, è totale, non ha limiti o schemi: unico confine, la libertà altrui. E così ogni roditore faceva come gli pareva, rispettando gli altri. Tutti, purché consenzienti e non paganti. La natura faceva tutto il resto: una volta, dentro un tombino del centro, vidi due criceti maschi strusciarsi la coda dentro le orecchie. Volevano provare, hanno scoperto una zona erogena. Se un giorno provassi un desiderio irrefrenabile di masturbarmi un orecchio, so che potrebbe essere interessante.
Sì sì, ognuno faceva come gli pareva, e a volte non faceva, proprio perché gli andava così: scoiattole occasionali che rifilavano due di picche come se piovesse, da noi, non accendevano risse tribali o pianti. Ma nemmeno in famiglia. Mamma topa, giù in periferia, aveva il lunedì come giorno fisso per babbo topo, ma per due mesi, marito e moglie si sono trovati nel loro giaciglio e si sono detti: “anche stasera l’emicrania! Pazienza, dai, dormiamo”. E nessuno dei due ha mai lanciato accuse isteriche del tipo: “ecco, non mi ami più!”. Perché libertà era dire sì, ma anche no. Strusciarsi solo i baffi con una ghira, oppure aggrovigliarsi in un’orgia di arvicole.
Ma ora, anche noi topi abbiamo un grave problema: capocriceto, che si crede un roditore alfa, ha monopolizzato il potere e la topoinformazione e ha fatto la sua rivoluzione. Sentendosi il più attraente e il più furbo ha inventato un nuovo modo per accoppiarsi: e pare che lo voglia imporre come legge. Lui paga le roditrici in noccioline e loro fanno a gara a lisciarsi le orecchie o a siliconarsi le code pur di mangiarsi quelle prelibatezze. Insomma secondo capocriceto non conta farlo se e quando hai voglia, ma basta seguire le istruzioni e tutto sarà perfetto. E così ha inventato il toposutra, una moda con tutte le sue posizioni preferite, per celebrare la mascolinità. Ma non solo toposutra, vuol imporre ai toposudditi anche una linea completa di mangimi per sviluppare l’appetito sessuale, in particolare delle roditrici, così la SUA libertà sessuale non verrà mai mortificata. Perché lui è il nostro capo, lui ci governa e dà l’esempio: e noi topisudditelettori dovremo adeguarci, IMPARARE da lui, per non passare nella categoria dei subroditori. Più tope per tutti, in fondo è un motto che piace a tutti noi topi maschi, ma prima non c’era nemmeno bisogno di dirlo.
E io, topo di campagna qualsiasi, che non sarà mai un roditore alfa, mi sento depresso: perché so che non sarò mai capace di eguagliare le prestazioni di capocriceto, mi sento inferiore. Ho visto pantegane in competizione con scoiattoli sulla dimensione della coda, ho assistito a risse tra ricci e talpe a causa delle tariffe troppo alte di queste ultime: “dieci noccioline come minimo, con te è sempre sadomaso” si lamentava la talpa. Insomma, a me sta storia della libertà non convince più, così è solo ossessione, ovvero schiavitù.
Ah, l’altro ieri, giusto lunedì, passavo in periferia e ho assistito all’ennesima cilecca di babbo topo con mamma topa. Ma lei stavolta gli ha urlato: “capocriceto l’avrebbe fatto sette volte di seguito!”. E lui non è stato zitto: “ma piantala che una vecchia batuffola di polvere come te, non attizza più nemmeno un toporagno”. E si sono separati.
Sì, lo so, di questo passo finiremo tutti all’inferno: che per noi topi sarà sicuramente una stanza completamente pulita e disinfettata. E qualcuno da un topopulpito sicuramente ci avvertirà che, se non rispetteremo il toposutra, diventeremo ciechi.

Potrà mai un topo rinunciare alla carta?

Il solito Varese, fermata in tutte le stazioni. Superaffollato e quasi asfissiato dalla calca e dall’odore. Seconda carrozza, là in fondo compare il primo I-pad mai visto su questo treno. Un tizio giacca e cravatta lo sfodera con finta indifferenza e comincia a strofinarlo con il dito: gira le pagine, così come Aladino chiamava il genio della lampada.
Attorno a lui si forma un capannello di curiosi: un vecchietto che fissa giacca, cravatta e accessori come folgorato davanti a un extraterrestre, uno studente allunga l’occhio come se dovesse copiare i compiti d’inglese, una signora si sporge alle sue spalle, con generosa veduta sul davanti. Intanto, a metà carrozza un ragazzotto sui vent’anni si esibisce con I-pod ultima generazione, mentre di fronte ha una casalinga che, celando ogni impaccio, prova a messaggiare sms come una ragazzina. Una carrozza strapiena di viaggiatori, tutti accessoriati con tecnologie più o meno avanzate per la comunicazione. E nel mezzo ci sono io, il topo, che fa il guardone e pensa.
Proprio oggi leggevo su un sito internet che un signore americano, un Nostradamus del mondo virtuale, ha previsto che nel 2027 i giornali di carta spariranno dall’Italia. Ieri, invece, mi deprimevo sui dati in calo della produzione narrativa cartacea: solo gli e-book salveranno la letteratura, dicono gli esperti.
Potrà mai un roditore ripudiare la carta a favore del silicio? Mai. Anche a costo di fare la fine di Firmino, il topo inventato da Sam Savage e finito depresso in una libreria di Boston.
Ma perché mi ritrovo nel girone dei retrogradi? Fatemi capire. Sbaglio a ostinarmi nel difendere la mia libertà? Vale più la mia libertà obsoleta, o quella imposta dai nuovi modelli? Finire inesorabilmente e inevitabilmente nel gorgo di un fenomeno commerciale planetario, come la corsa al virtuale, è sinonimo di libertà e progresso?
Una cultura virtuale, ovvero, quella che non si tocca, che esiste solo in un chip è libera? E soprattutto è duratura, oppure destinata all’oblìo? Sono grato ad Alessandro Manzoni perché ha messo su carta la sua opera e l’ha fatta arrivare fino a me. Carlo Emilio Gadda aveva la certezza che il suo inchiostro sarebbe sopravissuto alle generazioni ed è stato un grande dono per tutti noi. Io, invece, non ho la certezza, per esempio, che queste poche e pessime righe potranno mai essere lette dai miei pronipoti: basterebbe un clic da una parte qualsiasi del pianeta per farle sparire. Ma, allora, spiegatemi tutta questa libertà della nuova tecnologia, dove risiede? In poche mani, in un potenziale clic.
Torniamo al vagone strapieno, con un roditore nel mezzo che ha la sensazione di essere considerato una pecora: almeno da qualcuno. Dieci anni fa, da sfigato, ho ceduto alle esigenze dei tempi e ho accettato che un superfluo telefonino diventasse strumento indispensabile: per comunicare di più, ma non meglio di prima.
Ora, invece, l’I-pad incombe sul futuro della informazione, preceduto dall’I-pod: la cultura implode, la parola cambia il proprio strumento e diventa schiava di una batteria, del silicio, di una ricarica, di un software. Il mondo avrà ancora tempo e voglia di leggere più di quindici righe per volta, ovvero l’intervallo ideale per un post di qualsiasi blog? Ke kavolo c frega, mi messaggerete… ma, di questo problema, direi vitale, nessuno ne parla.

Topi di campagna, imbarcatevi!

Non più un binario, bensì un molo. Un giorno, che ancora è prematuro definire bello o brutto, un topo salirà su un pontile e si metterà in viaggio. Destinazione Milano centrale. Già, la terza via sarà il futuro: non a destra, non a sinistra, ma sull’acqua, galleggiando a seconda della corrente. E ci si ricorderà di un illuminato arciduca che, in tempi non sospetti, l’aveva detto e fatto, il gran progetto: «L’imperatore ci taglia i fondi, noi fermiamo i treni. Anzi, li renderemo più cari di un volo Alitalia». E così fece.
Tuttavia l’arciduca, memore dei fasti di un predecessore, tal Giangaleazzo del Biscione, pensò che fosse immorale tagliar ogni comunicazione tra la provincia e la sua Milano, sua in quanto signore di tutta la regione, benché feudo di una dama dal cuor gentile che, tuttavia, l’arciduca sospettava di lei quale perfida megéra.
E così, mentre alla corte romana l’imperatore s’intratteneva con saltimbanchi, nani, giullari, giocolieri, ballerine e cortigiane, il savio arciduca progettava il futuro, attorniato dai gran visir dell’urbanistica e dalle confraternite più laboriose, fedele al voto di castità ed estraneo a qualsivoglia pensiero lubrìco. Viva Leonardo, che per primo ci pensò e viva l’arciduca che secoli dopo ci ripensò. E per realizzare tal progetto, mise a dimora, dapprima, intere piantagioni di alberi degli zecchini d’oro. Interrava il magro contributo dell’imperatore e ne traeva frutti rigogliosi, svariati milioni di zecchini.
E di quel tempo, ancora si racconterà di quell’imprudente funzionario che, al cospetto dell’arciduca, volle sottoporre una questione: «Mio signore, i treni sono al collasso, si fermeranno presto. Tutto va in rovina, benché il popolo chieda i treni… Non sarebbe più opportuno, qualora lo ritenesse, che i frutti degli alberi degli zecchini vengano impiegati per i treni, anziché per i canali?».
Ma la risposta dell’arciduca non si fece attendere, dura, ma illuminata: «Taci tu che i trasporti non sai nulla. La via d’acqua, la terza via, sarà la panacea di tutti i mali di questa città e della mia regione. Così l‘imperatore vedrà, lui che non mi volle a Roma, di quale maestrìa sono capace». Il funzionario degradato a mozzo non parlò mai più.
E quel topo di campagna sarà là con il suo computerino portatile a scrivere aggrappato a un pontile, a bordo di un meraviglioso barcone: placido, il Naviglio, ispirerà ben altre storie e poesia di un modesto, arrugginito e puzzolente binario… morto.