La bussola del viandante – Dott. R. Ruffino

Ciao a tutti,

inserisco con piacere questo link che vi permetterà di leggere la Lectio Doctoralis di Roberto Ruffino, Segretario Generale di Intercultura, pronunciata in occasione della cerimonia di assegnazione della laurea honoris causa da parte dell’università di Padova.

Si intitola “La bussola del viandante” e spero possa essere uno spunto di riflessione per tutti: sia per i ragazzi che stanno vivendo la loro esperienza che per coloro che si avvicinano ora a intercultura con la voglia di partire. Sicuramente queste pagine saranno apprezzate anche da tutti gli ex-borsisti e i volontari che con Roberto condividono lo spirito di Intercultura.

Un saluto

Ricccardo

 

Qui è riportata la versione in italiano, di seguito vi aggiungo il link di quella in inglese.

UNIVERSITA DI PADOVA

Cerimonia di conferimento della laurea honoris causa in scienze dell’educazione

 Lectio doctoralis: La bussola del viandante

Magnifico Rettore                                                                                                                    Autorità accademiche                                                                                                                  Volontari e amici di intercultura

Signore e Signori,

Sessantatré anni fa, proprio in questi giorni, dalle valli dell’Appennino scendevano verso la pianura padana gli eserciti alleati che avevano vinto la guerra. Tra i soldati di tante nazioni e di tante lingue (inglesi, polacchi, neozelandesi, marocchini, francesi, greci, indiani, nepalesi, americani, che costituivano la 5° e l’8° Armata) avanzavano sulle loro ambulanze anche alcune centinaia di barellieri volontari dell’American Field Service, quasi tutti obiettori di coscienza o riformati alla visita di leva, che avevano cercato un  modo diverso di servire non tanto la causa di una  sola nazione, ma quella dell’umanità. Erano infatti gli eredi e i continuatori dei giovani che avevano militato nei corpi volontari ambulanzieri della prima guerra mondiale e in qualche caso ne avevano trasposto il ricordo in opere letterarie: parlo di Hemingway, Dos Passos, Julien Greene ed altri.

Con i loro fondi privati e con quelli di amici di famiglia all’inizio della guerra – la seconda  guerra mondiale – questi giovani avevano messo insieme un’associazione che andasse al fronte a soccorrere i feriti. E li avevano soccorsi: nel sud est asiatico, in medio oriente, in nord Africa ed anche  in Italia. Qui da noi sedici di loro erano morti saltando sulle mine e sono sepolti nei cimiteri militari di Nettuno e Firenze.

I sopravvissuti si preparavano a tornare a casa, in quell’aprile del 1945, ormai trasformati da una convivenza prolungata con commilitoni di tutte le etnie e con gli stessi nemici di guerra, riscoperti nella quotidianità banale della loro vita. Qualcuno rimase in Europa: Bill Congdon si fermò a Faenza a ricostruire il museo delle ceramiche, Bill Weaver tornò a Napoli dal suo amico Raffaele La Capria e apprese l’italiano così bene da diventare il traduttore di Eco e di Calvino, altri proseguirono per liberare i campi di concentramento tedeschi, alcuni più semplicemente trovarono casa e moglie in Italia e prepararono il terreno su cui nacque qualche anno dopo Intercultura.

Voglio associare oggi quei giovani degli anni quaranta – alcuni dei quali divenuti poi artisti o politici famosi, ma molti di più rimasti nell’anonimato – voglio associarli a questo giorno di festa che mi fate vivere nella vostra università, a riconoscimento di un’opera – la mia – che non sarebbe mai esistita senza la loro esistenza.

Bogdan  Suchodolski, che – per meriti ben maggiori dei miei – voi avete un tempo onorato del mio stesso titolo accademico in quest’aula, ricordava spesso l’Ode alla Gioventù di Adam  Mickiewicz, in cui il coraggio della gioventù disperde i pregiudizi e gli egoismi e fa sorgere il sole della libertà – ed aggiungeva che la gioventù di cui parla Mickievicz può appartenere a tutte le età ed è il contrario di un’accettazione passiva della vita, si oppone  alla noia ed a un’esistenza monotona, rifiuta l’indifferenza e l’egoismo, vive dove succedono cose importanti e dove le domande prevalgono sulle risposte scontate, dove c’è apertura verso il mondo  in un  dialogo continuo tra tradizioni, presente e futuro immaginato.  La gioventù così intesa comporta rischi ed invita all’azione responsabile in favore degli altri e si nutre dell’amicizia, con cui crea un ponte tra gruppi, età, progetti, sforzi, speranze. E può diventare il fondamento di un nuovo ordine del mondo, in cui – e qui cito testualmente Suchodolski – “l’amore tra gli essere umani che nasce dalle amicizie e dalla gioventù diventa fonte ed alimento di una conoscenza  reciproca, che influenzerà il grande dialogo in corso sui concetti di cultura e di vita”.

Nessuno dei nostri barellieri AFS aveva mai incontrato Bogdan Suchodolski, ma mi sembra che il suo pensiero esprima bene quella certa temperie culturale che sessant’anni fa portò al passaggio da un servizio umanitario attraverso le ambulanze di guerra a un servizio di pace e di formazione alla vita in un mondo multiculturale, attraverso l’incontro e il dialogo tra giovani di molti Paesi. Il passaggio avvenne non in ossequio a teorie pedagogiche – anche  se non mancavano già allora alcuni esempi interessanti di comunità scolastiche internazionali, soprattutto nel mondo anglosassone – ma sulla spinta di una sensibilità acquisita attraverso le amicizie degli anni di guerra e con la visione di un  ordine nuovo  da costruire nel mondo, che è proprio della gioventù.

Nascita e sviluppo di un progetto educativo

A me capitò la fortuna di partecipare ad uno  di questi scambi internazionali organizzati dagli ex barellieri dell’American Field Service e di andare a vivere per un anno con la famiglia McKay negli Stati Uniti, quando di anni ne avevo appena sedici. Da allora sempre più consapevolmente ho inseguito l’idea di un cosmopolitismo che non rinnega le proprie radici e di una visione multi-prospettica del mondo. Questa mi sembra essere la sfida vera della pedagogia contemporanea – e lo sosteneva lo stesso Suchodolski, quando diceva che “da noi (cioè in Polonia) il problema è restare un contadino polacco e diventare insieme un cittadino del mondo”. Ancora oggi devo molto a quella sua affermazione che abbiamo messo sul frontespizio del nostro documento programmatico in Intercultura.

Anch’io, come i barellieri del 1945, sono dunque approdato all’educazione interculturale non da chierico, ma da artigiano e praticante: un  praticante di incontri internazionali con ragazzi e famiglie e scuole e colleghi di cento Paesi all’interno di un’Associazione, che è stata la prima in Italia ad usare il nome “Intercultura”. Chi ne ha fatto parte è stato mio compagno di strada ed io non sarei qui oggi a ricevere questa laurea senza la voglia di navigare insieme controcorrente, che ci ha accomunato in tanti anni. Alcuni di questi volontari sono oggi in questa sala ed anche per loro ricevo il riconoscimento che mi attribuite.

Furono infatti questi scambi scolastici tra giovani di tutto il mondo  a stimolare le nostre prime riflessioni sulle differenze che corrono tra un’impostazione pedagogica monoculturale ed un’altra che aiuti a vivere in un  contesto pluriculturale, dove memorie, valori, credenze e comportamenti degli attori divergono senza che talvolta i diretti interessati ne abbiano la percezione esatta o ne conoscano la ragione profonda.

Fu un docente di questa vostra università, che oggi rimpiango di non poter salutare all’interno di quest’aula, Francesco De Vivo, allora vicepresidente nazionale di Intercultura, a guidarci verso una prima riflessione pedagogica, quando nel 1973  sembrò che il governo della Valle d’Aosta volesse istituire con noi una  scuola internazionale in quella regione.

Fu invece Danilo Dolci, animatore di memorabili incontri a Trappeto, dove preparava l’allestimento della scuola di Mirto, a farci incontrare Johann Galtung e le esperienze educative della Fondazione Ford e gli studiosi di antropologia dell’educazione. Verso di lui conservo un debito di affetto e di intelligenza.

Negli stessi anni l’adesione alla SIETAR (la Society for Intercultural Educationa and Research) ci fece conoscere la ricerca interculturale di marca anglosassone, controbilanciata da quella dei ricercatori francesi della Sorbonne, e ci avvicinò al mondo  degli studiosi della comunicazione interculturale. Erano gli anni Settanta in cui il celebre antropologo olandese Geert  Hofstede studiava la cultura del lavoro nei 72 Paesi in cui l’IBM operava attraverso aziende consociate.

Il nostro tentativo – allora – fu quello di tradurre quelle lezioni, pensate soprattutto per il mondo degli affari e delle relazioni commerciali, in una pedagogia e metodologia dello scambio interculturale dei giovani e trovammo interlocutori attenti nella Commissione Europea di Bruxelles e contemporaneamente nel Consiglio d’Europa, che tra il 1978 e il 1985  ospitò una  serie di nostri colloqui incentrati sul tema dell’interculturalità.

Proprio a Strasburgo, nel 1980, proponemmo una definizione di apprendimento interculturale che il Consiglio utilizzò nell’atto conclusivo del primo convegno europeo sull’intolleranza. Parlavamo di “una nuova situazione di apprendimento, dove discenti che provengono da ambienti culturali diversi sono aiutati a vedere le loro differenze come risorse da utilizzare per conquistare una maggiore consapevolezza di sé, anziché come deviazioni da norme stabilite; una situazione, cioè, dove ogni cultura viene spiegata nel contesto delle altre, attraverso un processo che stimola dubbi su se stessi, curiosità per gli altri e comprensione delle interazioni reciproche e… deve coinvolgere i discenti sia intellettualmente sia emotivamente”.

L’anno internazionale della gioventù (1985) ci offrì infine l’occasione di incontrare i pedagogisti arabi ed africani che parteciparono ai convegni dell’UNESCO nelle loro regioni: tutti concordi nell’indicare la necessità di un’educazione interculturale per i giovani dei loro Paesi, divisi tra la riscoperta di valori autoctoni e l’influenza di una  scuola lasciata loro in eredità dalle potenze coloniali.

Culture e globalizzazione

Negli ultimi vent’anni le tensioni interculturali hanno conquistato le prime pagine dei giornali (sono di questi giorni non  solo l’eterno conflitto tra Israele e Palestina, ma quello tra serbi e kossovari, o tra cinesi e tibetani), ma soprattutto sono entrate nella nostra quotidianità con la forza delle migrazioni massicce, dell’allargamento dell’Europa e della globalizzazione della produzione e dei commerci.

La tecnologia delle comunicazioni e quella dei trasporti ci hanno dato la possibilità fisica e insieme illusoria di essere ovunque nel mondo, anche se il cuore e l’intelligenza restano spesso a casa e la memoria continua a inorgoglirsi dei particolarismi del passato. Proprio là dov’è più forte la memoria, è anche più forte la corteccia di identità locali che rifiutano il confronto con il mondo.

Eleonora Masini ricorda che oggi la cultura ha un ruolo preponderante nella costruzione della società mondiale: “I valori culturali sembrano emergere con più vigore in reazione alla società globalizzata; riappaiono differenze che sembravano superate… Per cui è lecito parlare di una cultura mondiale con crescenti priorità di valori e insieme di coesistenza di culture diverse”.

A questo proposito è interessante un’osservazione di Edgar Morin, che paragona la condizione umana contemporanea a quella di un ologramma:  “Non solo ogni parte del mondo  fa sempre più parte del mondo, ma il mondo  come un  tutto è sempre più presente in ciascuna delle sue parti. Questo si verifica non  soltanto per le nazioni e i popoli, ma anche  per gli individui.  Come ogni punto di un ologramma contiene l’informazione del tutto di cui fa parte, così ormai ogni individuo riceve o consuma le informazioni e le sostanze che vengono da tutto l’universo”.

Ma – aggiungo io – ne manca purtroppo una consapevolezza diffusa.

L’episodio che racconta Federico Rampini in uno dei suoi reportage sulla Cina è esemplare per il suo carattere estremo.

A Xi Zhuang, a sessanta chilometri dal centro di Pechino, c’è una fabbrica che produce in continuazione alberi di natale di plastica, Santa Claus di varie dimensioni, ghirlande di fiori sintetici, croci illuminate, ma anche divinità Indù, mezzelune islamiche di aghi di pino, ikebana luminosi per le feste giapponesi. “Babbo  Natale e la Befana, Capodanno e Pasqua, l’Islam e Vishnu, tutte le tradizioni e tutte le religioni del mondo, le corone floreali e le piante finte del pantheon di quattro continenti hanno in comune l’odore di cavolo di una periferia di Pechino e le dita rapide di operaie cinesi…che non immaginano a che cosa serviranno gli alberelli, i festoni, i personaggi colorati che escono dalle loro mani a migliaia ogni giorno: sono oggetti insensati, destinati a mondi lontani, per ubbidire ad usanze misteriose”.

Ma lo stesso quotidiano che contiene il reportage sulla Cina, lo stesso giorno dava in prima pagina la notizia dell’esecuzione di Saddam Hussein, chiosata da molti commenti: è ancora lecito uccidere un tiranno? all’interno di quale logica giuridica e di quale morale va inserito questo concetto di “lecito”? quale valenza assume  la data scelta per l’esecuzione (il giorno del sacrificio di Abramo, Aid al Adha)  nel mondo  islamico sunnita rispetto al resto del mondo?   Qui l’evento storico assurge ad elemento simbolico, che evoca connessioni diverse e marca confini culturali all’interno del nostro “occidente”, ma anche all’interno della stessa cultura islamica.

Sono due storie diversamente emblematiche della nostra condizione umana attuale.

La prima storia, quella delle operaie cinesi che fabbricano simboli di feste e divinità incomprensibili, ci propone un caso limite ma non infrequente di globalizzazione alienata, resa possibile dalla tecnologia, ma priva di strumenti interpretativi.

La seconda storia ci propone un problema anche  più impegnativo – quello dei codici comportamentali di un  mondo  globalizzato e conseguentemente quello dei valori e delle competenze che devono ispirare l’educazione degli uomini nel XXI secolo

Sono storie che evidenziano due difficoltà del discorso sull’educazione interculturale in un mondo interdipendente: la trasferibilità dei simboli per una comunicazione efficace e la condivisione di un’etica per una convivenza planetaria.

Le istituzioni internazionali hanno mosso alcuni passi sul piano dei diritti umani e della loro traduzione in istituzioni politiche; molto meno è stato fatto sul piano di una  comunicazione globale e di una  pedagogia della convivenza: lo stesso nobile ideale della conservazione di tutte le culture proposto dall’UNESCO contrasta con le differenze di povertà e ricchezza, con l’egemonia delle lingue internazionali e dei monopoli tecnologici, con le sudditanze o le prepotenze politiche, che ostacolano quell’ideale dialogo ugualitario tra le culture che ne garantirebbe il rispetto, la sopravvivenza e una  bilanciate distribuzione di influenze.

Il modello di Intercultura

Il campo della sperimentazione nel settore della pedagogia interculturale è vasto e diversificato. Noi di Intercultura proponiamo un modello di apprendimento attraverso gli scambi internazionali di studenti, nella convinzione – fondata sull’esperienza ma convalidata dalla ricerca – che un soggiorno prolungato all’estero in età adolescenziale avvii un processo di decostruzione di certezze acquisite, spesso inconsapevolmente, e induca un  “cambio di occhiali” che aiuta a cogliere la complessità del mondo.

Perché questa convinzione?

Perché non si percepiscono i confini della propria cultura se non la si vede dall’esterno e non  se ne soffre la relatività. Quando un giovane è tolto dall’ambiente che gli è familiare e collocato in un ambiente nuovo, viene a trovarsi in una situazione “minoritaria” o “marginale” (minoritaria o marginale rispetto alla cultura del paese ospitante): una situazione in cui mette in gioco emozioni ed intelligenza per farsi accettare e sentirsi adeguato.  E’ un processo che stimola sensibilità nuove, esplorazione di atteggiamenti sconosciuti, capacità di interagire sul piano sociale – e che studi recenti hanno cercato di definire in termini di competenze e di indicatori di multi-prospettiva, ancora difficili da omologare e da misurare.

Molti in Europa non condividono questa visione radicale e tendono a guardare all’educazione interculturale come a una nuova “materia di studio” da aggiungere al curriculum scolastico. Ma le competenze interculturali non sono un’area nuova di apprendimento. Sono un cambio di prospettiva e postulano un nuovo modo di essere e di vedere il mondo: ciò che i Greci chiamavano una “metanoia”, una  conversione della mente.

Nei nostri corsi di preparazione alla vita all’estero per i borsisti di Intercultura, insistiamo su tre requisiti che predispongono al dialogo e alla comprensione dell’altro.

Il primo è sapere da dove si viene: è il requisito dell’identità e della memoria, della conoscenza di sé e dei propri valori, non intesi come assoluti, ma come frutto di un processo storico, di cui siamo parte e prodotto.

Il secondo è l’accettazione delle emozioni come mezzo di conoscenza: affezionarsi a qualcuno o a qualcosa che ancora non si conosce è il primo passo verso la sua comprensione e verso la relativizzazione delle proprie certezze.

Il terzo è la tolleranza dell’ambiguità, che va di pari passo con il contenimento dell’ansia di fronte al nuovo e al diverso, con la capacità di rinviare il giudizio a una  fase più avanzata di conoscenza, con il rifiuto di vedere il mondo  in bianco e nero a svantaggio delle molte sfumature di grigio.

La metodologia che modestamente utilizziamo parte da un’analisi di situazioni famigliari, di abitudini quotidiane, di organizzazione della vita, di tradizioni religiose, di manufatti e produzioni artistiche, di consuetudini alimentari, di celebrità locali e nazionali – osservate dal di dentro  e dal di fuori, grazie a quel laboratorio privilegiato che sono i nostri gruppi locali, in cui convivono sempre persone di tradizioni culturali diverse.

Lo sguardo dall’esterno è essenziale. Lo ricorda Umberto Eco nell’introduzione all’indagine condotta da Transcultura a Bologna nel 1988: “Forse il progetto di una  conoscenza  e descrizione reciproca arriva nel momento in cui essa è veramente possibile… quando tutti gli abitanti del mondo  sono abbastanza vicini da poter davvero capire la loro reciproca diversità. Questi sguardi venuti da lontananze ormai mitigate da molte informazioni… lasciano sperare che in futuro questo gioco di descrizioni reciproche possa produrre, nel rispetto delle differenze, una prossimità meno dolorosa”.

Agli studenti e alle famiglie che aderiscono ai nostri programmi noi proponiamo un esercizio in cui la cultura viene rappresentata graficamente come un  iceberg: la piccola parte emersa è la cultura visibile (dei manufatti, della lingua e dell’arte); la gran parte sommersa è la cultura invisibile e spesso inconscia dei valori e delle norme. Lo scontro con un iceberg diverso – un’altra cultura – crea spaesamento ma è anche uno  stimolo a guardare sotto il pelo dell’acqua ed a capire le proprie ragioni nascoste e quelle degli altri.  Dall’analisi del proprio iceberg sommerso, condotta con gente di altri paesi e di altre culture, nasce un doppio processo di rivisitazione e di intuizione:

•         una rivisitazione della nostra storia individuale e culturale: memorie, modelli, eroi, canoni di bellezza e di giustizia, schemi di organizzazione sociale;

•         un’intuizione diversa del futuro, non più semplice estrapolazione del nostro vissuto, ma riflessione su ciò che è sostenibile e compatibile in un  contesto pluriculturale.

La bussola che non c’è

Lavoriamo infatti lungo un  confine sottile che divide identità personali e culturali, spesso misconosciute dai diretti interessati,  affinché emergano dall’inconsapevolezza ed imparino a dialogare,  per poi costruire – insieme agli altri – la casa comune del futuro. E qui sta un limite grave, perché agli uomini del nostro tempo manca il sostegno di una bussola che indichi ethos e organizzazione della città mondiale, per la quale vorremmo preparare i nuovi cittadini. Questa mancanza trasforma anche il nostro lavoro in un esercizio di tolleranza dell’ambiguità.

Eppure oggi c’è un desiderio diffuso – tra gli uomini di buona volontà – di “traghettare l’umanità dal modus  vivendi al modus cum-vivendi”. L’espressione è di Zygmunt Baumann il quale altrove chiarisce: “Da maledizione, la globalizzazione può perfino trasformarsi in una benedizione: non abbiamo mai avuto un’occasione migliore per…dimostrare di essere capaci di innalzare la nostra identità a livello planetario, al livello dell’umanità..”

Condivido questa speranza: che le identità incerte e frammentate, le lealtà multiple o disperse, le memorie indebolite o esaltate, attraverso l’inevitabile confronto tra gente di culture diverse, possano diventare passaggi di un cammino verso aggregazioni e solidarietà più vaste. “Dobbiamo aiutarci reciprocamente – diceva pochi mesi fa a Milano

Raimon Panikkar – ed essere consapevoli….che la verità non è possesso personale … Abbiamo la necessità di comprendere che la verità, quando cade dal cielo sulla terra, si rompe in cento pezzi, un pezzetto a disposizione di ciascuno”.

Può essere allora l’etica del dubbio, la nostra bussola di educatori interculturali?  quella di cui parla Gustavo Zagrebelsky riprendendo alcuni temi cari a Norberto Bobbio, che immaginava un’etica del labirinto, in cui si coltiva la speranza “adattando i mezzi al fine, riconoscendo le vie sbagliate e abbandonandole una  volta riconosciute”.

E’ un’etica che Umberto Galimberti chiama l’etica del viandante: “la fine dell’uomo come lo abbiamo conosciuto sotto il rivestimento della proprietà, del confine e della legge, e la nascita dell’uomo più difficile da collocare, perché viandante inarrestabile, in uno  spazio che non è garantito… Se noi adulti – dice Galimberti – siamo disposti a rinunciare alle nostre radicate convinzioni, quando il radicamento non  ha altra profondità che non  sia quella della vecchia abitudine, allora l’etica del viandante può offrire ai giovani un  modello di cultura che educa perché non  immobilizza, perché desitua, perché non  offre mai un  terreno stabile e sicuro su cui edificare le loro costruzioni, perché l’apertura che chiede… non ha nulla di rassicurante, ma scongiura  la monotonia della ripetizione che i giovani aborrono…”.

Ritrovo in questa pagina la visione della gioventù di Suchodolski e di Mickievicz ed un  pensiero che mi accompagna da trent’anni, da quando (giovane anch’io) organizzavo a Strasburgo i primi convegni sull’educazione interculturale: un  pensiero che vi offro a conclusione di questa mattinata in cui avete aperto le porte dell’università al dialogo interculturale. Dicevo dunque allora e ripeto oggi a voi:

Le nostre antiche culture sono cemento che tiene insieme l’edificio                                       Ma gli impedisce di essere altro da quel che è

Forse è venuto il momento di smontare l’edificio                                                                      Per conoscerne i pezzi                                                                                                                    Che sono pezzi della nostra vita                                                                                                       E trasformarli in pali e in travi
Da trasportare per il mondo

Per farne tende e capanne                                                                                                          Facili da comporre e da scomporre                                                                                               Quando sostiamo un  poco su terreni che cambiano

Come i Tuareg del deserto                                                                                                             Che uniscono i popoli del mare e del verde                                                                                  Continuamente                                                                                                                            Senza muri.

Roberto Ruffino

Università di Padova, 21 aprile 2008

 

http://www.afsfoundation.org/PDF/La%20bussola%20del%20viandante_%20en.pdf

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