Vukovar

Mateja Markotić, autrice di questo toccante racconto, frequenta da settembre il Liceo Scientifico “da Vinci” di Gallarate.

Primo giorno delle scuole superiori. Sono emozionata e ho anche un po’ paura. Oggi tutto cambia per me. Non abito più a cinque minuti dalla scuola e non posso andarci insieme ai miei amici, ma devo prendere il treno da sola. Questo è quello che volevo, ma in questo momento non mi sembra così bello. Spero almeno che la mia nuova classe sia accogliente, che i compagni siano simpatici e i professori non siano dei noiosi tromboni.
Appena arrivo a scuola, mi perdo. L’edificio ha cinque piani e non ho idea di dove devo andare. Non c’è nessuno a cui chiedere, perché naturalmente sono in ritardo e non vedo in giro neanche un bidello. Si avvicina un ragazzo, meno male. “Scusa, sai dove è la IA? “ E lui: “Si, è qui, su questo piano, a metà del corridoio”.
Sulla mia faccia spunta un sorriso, sento persino i muscoli un po’ indolenziti; devo avere i lineamenti tirati. Ok, primo giorno e mi presento in forma smagliante…, manca solo il brufolo della catastrofe! “Grazie mille. Sono completamente persa”. “Ti capisco, è normale, anch’io ero così il primo giorno. Io sono Marko e tu?”. “Piacere, Petra. Sei il primo che incontro in questa scuola, ho temuto ci fossero solo fantasmi!”
Ma ora è tempo di incontrare anche gli altri, sono finalmente arrivata davanti alla porta della IA, si sentono le voci degli studenti che parlano forte. Devo bussare, entro, c’è un’energia molto positiva, il professore di Croato si presenta, mi chiama per nome e mi invita a prendere posto.
Dopo la fine delle lezioni, rimango con i compagni, andiamo verso il parco, vogliamo conoscerci meglio. Sono molto felice, forse quella brutta rughetta sulla fronte, che mi si forma quando sono preoccupata o concentrata, mi è sparita. La mamma mi prende sempre in giro: “Ecco la mia intellettuale: ti verranno le rughe prestissimo se tieni sempre le sopracciglia aggrottate così. Distendi la fronte!” e si curva a darmi un bacio.
Cammino verso la stazione: è una bella giornata, tutti sembrano davvero simpatici, soprattutto quel Marko, che non è neanche niente male. “Petra! Petra! Aspettami!” Mi giro, è lui. Non posso crederci. Gli sorrido e lui: “Perché cammini così veloce? Abbiamo il treno fra venti minuti. C’è tempo”.
Fantastico, non devo prendere il treno da sola, soprattutto lo prendo con lui. Ma come sa che prenderemo lo stesso treno?
Parliamo di tutto, mi pare di conoscerlo da una vita. E così giorno dopo giorno, diventiamo inseparabili. Prima amici e poi presto, anzi prestissimo, innamorati. Lui è sempre al mio fianco, e del resto non devo dividerlo con molti amici. Mi suona un po’ strano, ma non mi pare il caso di parlargliene. Sto davvero molto bene con lui e non posso più nascondere questa cosa meravigliosa che mi sta accadendo. Non posso continuare a tenere il segreto con papà. La mamma lo sa già, lei è di sicuro il mio angelo, ma papà è per me una persona assolutamente speciale. Gli basta uno sguardo per capire cosa mi succede e poi, con la sua calma, è capace di farmi parlare. In fondo è il mio miglior consigliere, anche meglio di Iva, che conosco fin dall’asilo e che passa con me qualche ora al telefono tutti i giorni. La mamma dice che dovrei diventare azionista della Optima, almeno quest’abitudine avrebbe qualche vantaggio. Iva, come anche le altre mie amiche, sa bene che vado matta per papà, forse loro mi invidiano un po’, perché di certo è chiaro che anche lui mi adora.
Ho deciso, nel pomeriggio vado in studio da papà con una scusa, gli porto kremšnite che gli piace da impazzire, prendiamo insieme un tè e gli racconto di Marko.
Prima però devo fare i compiti, verrà Jelena a casa e studieremo insieme; domani verifica di matematica, niente scivoloni. Ecco Jelena viene, lo sa tutto il vicinato. L’ultima volta ha svegliato il bambino del piano di sopra, che ha cominciato a strillare e si è disperato per mezz’ora. “Arrivo Jelena” sono costretta a urlare, avvicinandomi alla porta “non suonare di nuovo, ti prego!”. Jelena è sempre allegra, parla un casino, dei compagni, dei proff., di suo fratello che prende una nota un giorno sì e l’altro pure,  ecc. Il discorso cade su Marko, nessuno a scuola sa che stiamo insieme. “Con chi esce?” chiedo “conosci i suoi amici?” “ Non lo sai?”- mi risponde Jelena” “Che cosa?” dico io. E lei: “Marko è serbo e ai ragazzi della sua classe e della scuola, questo non va bene per niente. Non dico che questo fatto sia una bella cosa, ma è così. Certo Marko è molto carino, ma non posso neanche dire se è simpatico oppure no, perché anch’io lo evito. Girargli intorno vuol dire andare a cercarsi un sacco di guai”.
Non so che cosa dire. Sono confusa e in preda a mille sentimenti diversi. Mi chiedo perché non mi abbia detto che è serbo, non si fida di me? Poi penso a quanto si debba sentire solo e frustrato, che bastardi sono i suoi compagni! Ma ora ha me, non è più solo, e anch’io ho lui. Chi se ne frega se è serbo, non sono mai stata tanto felice in vita mia ed è solo questo che importa.
Jelena mi sta guardando: “Che ti succede? Hai mal di pancia? Hai una faccia da far paura” “Non è niente, forse mi verrà l’influenza, ma ora è meglio che mettiamo la testa nei problemi di matematica, altrimenti domani sono dolori”
Non riuscivo a concentrarmi, non avevo mai fatto tanta fatica a lavorare, anche Jelena, sempre così giuliva, se ne era accorta: “Speriamo che la prof. non infarcisca la verifica di domani con esercizi troppo tosti, altrimenti fioccano le insufficienze”. Se ne va, esco con lei, anche più di prima ho bisogno di parlare con papà, devo sfogarmi con lui, raccontargli di questa ultima porcheria e proprio ai danni del più dolce serbo che abbia mai incontrato, di quello di cui sono pazzamente innamorata. Non so se gli dirò proprio così, ma devo vedere papà al più presto. Eccomi, sono arrivata, l’ho sempre detto che lo studio di papà è troppo austero, mette in soggezione. “A cosa devo quest’amabile sorpresa?” dice papà. “E non hai ancora visto che cosa ti ho portato” gli rispondo, aprendo il cellofan in cui è avvolto la kremšnita. ”Cavolo” dice papà “ho dimenticato il compleanno di qualcuno? Ti sembra bello tentarmi in questo modo, proprio ora che tua madre sta cercando di tenermi un po’ a stecchetto?” “A dire il vero, sono venuta per dirti una cosa importante” “Un brutto voto? Non ci credo” “No papà, non si tratta della scuola, o almeno, forse sì, ma i voti non c’entrano niente”. “Avanti, racconta che cosa ti è accaduto?” “Niente di brutto, papà è solo che mi sento diversa, è come se avessi le ali ai piedi, sono distratta, fatico a concentrarmi, non vedo l’ora che suoni la campana, non vedo l’ora di…” “Sei innamorata? La mia bambina è innamorata di un ragazzo in carne e ossa? Non di un eroe dei fumetti, non di una rock star o dell’attore del momento, ma di un adolescente, con un po’ di peluria e tanti grilli per la testa? È così pulcino mio? Vieni qui e dimmi qualcosa di più, come si chiama? È in gamba?” “Sì papà che lo è, è dolce e sensibile e intelligente e non mi ha riempito la testa con i suoi problemi, mi ha ascoltato e solo dopo ho scoperto che i suoi sogni potrebbero essere i miei. Non mi è mai capitato, papà, con nessuno, non mi sono mai sentita così vicina a me stessa come quando sto con lui, lo guardo e mi sembra più chiaro quello che voglio. Ma oggi ho studiato con Jelena e lei mi ha detto che Marko, questo è il suo nome, è un ragazzo serbo e per questo non ha amici qui a Zagabria, i suoi compagni lo escludono e ho saputo anche che ha subito delle minacce.”
Il volto di papà che mi sta fissando è rigido, un po’ contratto, la sua espressione prima benevola e complice, è passata dalla sorpresa al turbamento. Dai suoi occhi potevo vedere che era addirittura sconvolto. In un istante tutto è cambiato. “Che c’è papa?” Improvvisamente si alza è confuso, borbotta qualcosa, dice che deve uscire, ha un appuntamento e se ne va. Anch’io sono confusa, ma non presto troppa attenzione al fatto, del resto, sono piombata nel suo studio senza preavviso, forse ha un incontro di lavoro molto importante di cui si è improvvisamente ricordato e non può arrivare in ritardo. Certo che non ho neanche potuto dirgli che la mamma ha voluto che invitassi Marko a cena e che stasera potrà incontrarlo.

Ho aiutato la mamma in cucina, la cena è invitante e tutto è ormai pronto. Finalmente anche papà è tornato a casa, temevo rientrasse tardi. “Ciao papà, siamo in quattro a tavola stasera”. Neanche il tempo di chiedere chi viene, Marko suona alla porta. “Papà, questo è Marko, Marko questo è mio padre, la mamma è ancora in cucina”. Ci sediamo a tavola, si comincia a chiacchierare e a mangiare. Che strano però, di solito la conversazione con papà è brillante, è così bravo a tenere accesa la discussione, non ti stanchi di ascoltarlo, ma stasera rimane silenzioso per tutto il tempo, una volta tanto è la mamma a tenere banco, mica male neanche lei. Alla fine però facciamo l’annuncio: quest’estate io e Marko andremo al mare insieme, e scorrazzeremo un po’ per l’Europa.
Mio padre si alza dal tavolo e rivolto a me, con un tono di voce che non ricordo affatto, esclama: “ Non voglio più sentire queste assurdità. Tu non vai con lui da nessuna parte, anzi non puoi vederlo mai più! Hai capito?”
Tutti lo guardiamo sorpresi e un po’ storditi. Nessuno capisce che cosa stia accadendo. “Tu sei un serbo” continua” e i Serbi non sono ammessi in casa mia! I Serbi mi hanno portato via ciò che avevo di più caro. Hanno ucciso mio fratello. Adesso fuori!!! Non voglio vederti mai più. Ti vieto di vedere mia figlia!”.
Solo ora io e mia madre cominciamo a realizzare. La mamma, rivolgendosi a me dice: “Forse è meglio che Marko vada a casa. Sono spiacente ma penso che papà non stia bene”.

Ero furiosa con mio padre. Che razza di comportamento è questo. Non è certo quello che i miei mi hanno insegnato. Ma una cosa è la teoria e un’altra la pratica? Sono desolata. Porto a casa per la prima volta il ragazzo di cui sono innamorata, un bravo ragazzo, un tipo intelligente, uno di quelli che sa tener testa a una conversazione non banale e papà mi fa uno scherzo del genere? Non posso crederlo e neanche Marko poteva crederci. Quanto sarà offeso e ferito. Se ne é andato come un lampo, neanche il tempo di dirgli ciao.
Raggiungo la mia camera, mi rifiuto di parlare con tutti tranne che con Marko. Lo chiamo al cellulare, mi dice che fra me e lui non è cambiato niente, ma che ha dovuto andarsene subito da casa perché tutta la situazione era insopportabile per lui. Ci accordiamo per vederci il mattino seguente.
Il giorno dopo esco senza dire una parola, tanto sono contrariata, non voglio neanche vederli, i miei.
Incontro Marko davanti a scuola. Entrambi non sappiamo che cosa dire, ci guardiamo soltanto. Marko rompe il silenzio: “Che cosa facciamo? Sei troppo importante per me. Senza di te penso di non potercela fare, ma se hai deciso di rispettare la volontà di tuo padre, capisco. Cercherò di farmene una ragione”. “Ma che cosa vai dicendo?! Non mi passa neppure per la mente! Non ti lascerò! Solo dobbiamo trovare il modo di mettere le cose a posto. Certo è che non so niente della storia di mio zio, non me ne hanno mai parlato. So soltanto che papà ha perso un fratello più giovane di lui. In famiglia non se ne parla. In questo modo anche per me è tutto più difficile. Questo pomeriggio andrò a casa della zia, la sorella di mio padre. Ogni volta che ho avuto problemi con lui, lei mi è stata vicino. Spero che mi racconti tutta la storia, se non è troppo doloroso anche per lei. Ci sentiamo più tardi e ti dico come andata. Adesso dobbiamo entrare”.
Arrivo da zia Gordana e le racconto tutto. All’inizio mi guarda senza dire niente, vedo nei suoi occhi un velo di lacrime e finalmente: “Certo non potevi sapere che nostro fratello Dario, tuo zio, è stato ucciso dai Serbi durante la guerra. Tuo padre Matej non è mai riuscito ad accettare la sua morte. Non conosco tutti i dettagli, perché al quel tempo ero negli Stati Uniti, e non ho voluto sapere di più. In casa nostra è scesa come una coltre su quel lutto, per andare avanti si doveva lasciare il passato alle spalle. So chi può aiutarti. Si tratta di Josip, il miglior amico di Dario. Questo è il suo indirizzo.” “Grazie zietta, ti voglio tanto bene. Sai sempre come darmi una mano!”

Fra mezz’ora incontrerò Marko all’indirizzo che la zia mi ha dato. Suoniamo il campanello e quando la porta si apre, mi presento. Josip sorride e ci invita a entrare. Gli raccontiamo quello che ci accade, chiedo a Josip se può aiutarmi a convincere mio padre che Marko è un bravo ragazzo e che il fatto che sia serbo o meno non fa differenza: “La zia dice che tu puoi aiutarmi.” Lui mi guarda pensoso e mi dice sommessamente: “Sei la prima persona a cui racconto questa vicenda. Sono l’unico che la storia conosce quasi per intero. L’indipendenza della Croazia nel 1991 iniziò con la battaglia per la conquista di Vukovar, dove i Croati difendevano la città contro l’esercito dei Serbi. Era molto difficile vivere a Vukovar in quel periodo. Noi eravamo lì, avevamo vent’anni e volevamo combattere per il nostro paese. Un giorno, dopo l’ennesimo bombardamento, Dario sembra molto nervoso, vuole uscire a cercare qualcosa da mangiare. Era tutto molto complicato. Mi saluta: “Torno presto”.
Quella è stata l’ultima volta che l’ho visto vivo. Poco dopo ricominciano i bombardamenti. Insieme ai compagni lo cerco per giorni senza trovarlo. Tutti alla fine ritengono che sia morto sotto quell’inferno di bombe o che l’abbiano fatto prigioniero i Serbi. Io però non mi rassegno. Neanche volendo sarei riuscito, non potevo credere che fosse scomparso, né morto. Forse aveva bisogno di aiuto. Continuo a cercarlo da solo. Passano un paio di settimane. Ero frustrato e cominciavo a perdere le speranze, ma appena possibile perlustravo ugualmente la foresta palmo a palmo. A un tratto, vedo un corpo disteso a terra, quasi nascosto nel fogliame. Mi avvicino, il cuore mi batte in gola e lo riconosco. Era lui, spero che stia dormendo o che sia solo svenuto. Ben presto però mi accorgo che è un cadavere, il mio migliore amico, per me un fratello, era morto. Non potevo crederci, anche se di morti ne avevo visti già tanti, in quel terribile inizio d’autunno del 1991. Molti cittadini di Vukovar, i feriti ricoverati all’ospedale erano stati prelevati dalle truppe serbe e deportati chissà dove. Avevamo poi saputo che erano stati torturati e trucidati. Molti civili, che avevano cercato rifugio nelle cantine o in nascondigli di fortuna, erano stati scovati e uccisi. Erano già state trovate le fosse comuni, dove gli uomini di “Arkan” si erano sbarazzati dei cadaveri dopo i massacri. Avevo temuto che fosse stato catturato e ucciso dai Serbi, e ora che era davanti ai miei occhi, con i capelli solo un po’ scomposti e un’espressione contratta, sembrava dirmi quanto sia insensato a vent’anni venire strappato con violenza dalla vita.
Mi accorgo che il corpo non può essere rimasto lì per molto tempo, è smagrito ma non livido. Mi accorgo di una ferita alla gamba piuttosto importante, che sembra però in via di guarigione. Non capisco. Cerco di sollevargli gli arti che sono coperti dalle foglie e sulla caviglia destra vedo inconfondibili i segni di un morso. Ecco che cosa lo ha ucciso, il morso di un serpente, probabilmente una grossa vipera che ha calpestato e non gli ha lasciato scampo. Certamente con la gamba così malridotta, non poteva trascinarsi verso il paese e chiedere aiuto. Cerco nei vestiti qualche documento, c’è un foglio, una lettera. E’ destinata alla sua famiglia a Zagabria.
Miei cari,
come state?
È da molto tempo che non vi scrivo e ho tanta nostalgia della casa e del frastuono delle voci durante i pranzi, la domenica. Mi mancate tutti, so che siete in pensiero per me, non avendo mie notizie. Sapete di certo che quest’assedio è durissimo e i bombardamenti non ci danno riposo. In una di queste incursioni sono stato ferito gravemente a una gamba. Ero nel mezzo della foresta, privo di sensi, senza che i miei compagni potessero soccorrermi. Per fortuna alcune persone buone e generose, che cercavano rifugio nei boschi, mi hanno trovato e mi hanno trascinato nel loro nascondiglio. Mi hanno curato e nutrito e mi hanno permesso di ristabilirmi. Devo loro la vita ed eterna gratitudine. Ironia vuole che i Serbi mi abbiano quasi ammazzato e altri Serbi, fuggiaschi come me, mi abbiano soccorso e risanato. Davvero questa guerra è del tutto priva di senso. Noi e i Serbi siamo troppo simili. Abbiamo la stessa lingua. Tra di noi vi è e vi sarà sempre un legame forte. Dobbiamo aiutarci e non combatterci.
Volevo dirvi che ora sto bene e che mi mancate. Appena sarò in grado di farlo, tornerò a casa. Vi voglio tanto bene. A presto.
Il vostro
Dario

Sento una stretta fortissima al petto, Dario ha ragione. Tutto questo deve finire al più presto. Chi ha commesso crimini così terribili deve pagare. Mi consola il fatto che almeno so che cosa gli è successo, che non è finito in una fossa comune, che non è stato torturato, che altri Serbi, anche loro profughi, lo hanno aiutato. Non mi rassegno però alla morte del mio più caro amico, un ragazzo morto a vent’anni, che mi ha lasciato qui da solo a odiare la guerra. E non posso neppure dire la verità, rendere pubblica la lettera, dire di averlo trovato nel fogliame ucciso da un serpente. Se lo faccio, i Serbi che lo hanno aiutato saranno braccati e so che Dario non lo avrebbe voluto. La sua lettera è piena di gratitudine e non voglio fare loro del male. Inoltre tutti credono che sia morto per mano serba, è un giovane volontario croato che ha dato la vita per difendere la città di Vukovar. I compagni e la sua famiglia lo piangeranno come un eroe.
Ecco fino a oggi non avevo detto a nessuno della lettera e nessuno mi aveva chiesto di raccontare i particolari di come lo avevo ritrovato. “Hai ancora lettera?”, chiedo impaziente “Puoi aiutarmi, voglio mostrarla a mio padre. Grazie, grazie ancora”.

Marko vuole che vada a casa sua. Vuole parlare con i suoi genitori, raccontare che cosa incredibile è successa, mostrare loro la lettera. Del resto, a quell’epoca, anche loro dovevano vivere dalle parti di Vukovar, avevano visto gli eventi con i loro occhi, potevano conoscere altri dettagli. Appena il padre di Marko legge la lettera, riconosce la scrittura: “Durante la guerra noi abitavamo a Vukovar. All’inizio non volevamo tornare in Serbia, ma dopo gli inviti dei Serbi ad andarcene e le minacce, abbiamo deciso di rifugiarci nel bosco. Tutto era difficilissimo, procurarsi il cibo, un po’ di legna per scaldarsi. I colpi di mortaio non ci davano tregua e le incursioni degli aerei erano continue. Le pattuglie croate non ci avrebbero certo dato una medaglia. Un giorno mentre vagavamo per il bosco in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti, vediamo un uomo a terra. È ferito, è un ragazzo, ha una gamba e un braccio malconci, perde molto sangue. Lo trasciniamo nel rifugio, usiamo quei pochi medicinali che abbiamo per curarlo, e pian piano il ragazzo si ristabilisce. Quando sta un po’ meglio, insiste per andarsene, promette che non avrebbe detto a nessuno del nascondiglio nel bosco. Sa che lo stanno cercando e che noi abbiamo già rischiato molto per nasconderlo. Era una persona speciale, in mezzo a tutto quell’odio aveva mantenuto la barra, sapeva guardare al di là della propaganda e guardare il dramma della nostra gente con la stessa sofferente rabbia e compassione che provavamo noi. Eravamo certi che finita la guerra ci saremmo rincontrati, e adesso che sappiamo che cosa gli è successo, vogliamo, dobbiamo incontrare la sua famiglia, vogliamo incontrare tuo padre, Petra. So che Matej gli era molto caro, era il fratellone che lui amava e ammirava.”

Siamo a casa mia, mio padre apre la porta e vedendoci, diventa furioso. “Petra, mi hai proprio deluso, ti ho già detto che cosa penso dell’intera faccenda. Entra in casa e congeda le persone che sono con te!”
“Papà, abbiamo una lettera per te da parte di tuo fratello. Fuori dalla porta c’è una persona che ha conosciuto e salvato Dario mentre stata morendo dissanguato. Vuoi almeno sentire la sua storia?”
Consegno la lettera nelle mani di mio padre, che comincia a leggerla e non riesce a trattenere i singhiozzi. Non avevo mai visto piangere mio padre. Era chiaro che fra i due fratelli c’era un affetto profondo. Subito dopo Matej comincia a fare mille domande al padre di Marko. Non smettono più di parlare. Hanno un sacco di cose da raccontarsi. Io e Marko li guardiamo, le nostre mani si stringono fino a far male. Anche noi piangiamo e … ridiamo insieme.

Mateja Markotić

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