TENSIONE IN PALESTINA (sottotitolo: quanto bruciano i lacrimogeni)

Tra le elezioni politiche, l’addio del papae e gli insulti di qualche politico tedesco ad alcuni politici italiani, è normale che la stampa italiana non abbia posto una particolare attenzione su un evento che sta scuotendo la Palestina. Si tratta della morte di un giovane uomo palestinese, Arafat Jaradat, arrestato dalla polizia israeliana. Secondo la versione palestinese Jaradat è morto per le torture subite in carcere, mentre secondo la versione israeliana i segni riscontrati dalle autopsie sul cadavere sono dovuti ai tentativi di rianimazione da un attacco cardiaco che ne avrebbe causato la morte. Se ve ne parlo nel mio blog non è solo per segnalarvi una notizia poco nota, ma perché di questo evento, nel mio piccolo, ho subito anch’io le conseguenze (e come sempre riporto solo i fatti di cui posso dare una testimonianza diretta).

Sono incominciati i lanci di pietre in prossimità dei check point israeliani. La Repubblica, riportando la notizia tre giorni fa, parla del rischio di una terza Intifada. Ogni volta che per diversi motivi ricominciano i lanci di pietre, la stampa internazionale paventa il rischio di una nuova insurrezione popolare. In realtà il popolo palestinese in questo momento mi sembra più depresso che animato da istinti di ribellione. Non hanno la sensazione che una reazione possa portare a qualche risultato; prevale invece lo sconforto (dovuto sia alle divisioni interne, sia all’impotenza della comunità internazionale a risolvere la questione) e l’abitudine a subire un’oppressione quotidiana nelle cose piccole (che poi piccole non sono, come i limiti alla circolazione) e in quelle più grandi (la costruzione di insediamenti israeliani su terreni palestinesi).

Però. Però se si desse l’occasione di un evento di ribellione legato a un fatto simbolico che possa attirare l’attenzione di tutto il mondo, che cioè riuscisse a far diventare cronaca internazionale ciò che finora è stato comunicato come cronaca locale (in questo caso la morte di Jaradat) qualcosa potrebbe succedere. E l’occasione ci sarebbe. A costo di passare per cattivo profeta (sia nel senso di profeta di sventure nel caso l’evento si realizzi, sia di falso profeta nel caso che non si realizzi) ve la voglio segnalare. Domani, 1 marzo, a Gerusalemme è programmata la terza maratona internazionale. Il primo anno la maratona passava anche in alcune zone di Gerusalemme Est (dai palestinesi considerata città occupata) e non è successo niente, invece l’anno scorso hanno evitato e quest’anno pure (ovvero pressapoco; c’è un breve passaggio in città vecchia tra Porta di Giaffa e Porta di Sion, che prima del 67 erano sotto il controllo Giordano, e un altro all’Università Ebraica sul Monte Scopus, che comunque è sempre stata una enclave Israeliana). Questa mattina la radio palestinese avvertiva che le organizzazioni politiche palestinesi invitavano a boicottare la maratona, salvo poi tristemente annotare che sulle modalità del boicottaggio sono divise tra loro. Però –come insinuavo- c’è il rischio o l’opportunità (a seconda dei punti di vista) che questo boicottaggio, legato ad una manifestazione di carattere internazionale, che ha luogo però in concomitanza di una tensione generalizzata, si trasformi in qualcosa di più. Io ve l’ho detto: staremo a vedere.

Intanto io –per tornare nel mio piccolo- ho completato il mio percorso di iniziazione in Terra Santa: dopo aver schivato tre anni fa i sassi dei ragazzotti palestinesi del villaggio di Silwan ai piedi del Monte degli Ulivi, non ho invece schivato ieri il lacrimogeno sparato da un soldato israeliano presso il check-point di Qalandia. Sia ieri che oggi, infatti, mi è toccato di passare due volte di lì per alcune riunioni che avevo a Ramallah e a Tulkarem, nei Territori Palestinesi. Sono andato volentieri perché non esco mai; senza sapere dei subbugli perché ormai lavoro, prego e basta. Ieri il lacrimogeno, oggi un fucile spianato a tre metri da me in direzione dell’archetto della montatura dei miei occhiali. Ieri ero una delle decine di macchine in coda e per fortuna non guidavo io; perché il lacrimogeno non è che ti fa solo piangere: non ti fa vedere proprio, non riesci a tenere gli occhi aperti perché se li apri bruciano di più; come altro effetto, la gola prende fuoco. Ecco come sono avvenuti i fatti: i ragazzi palestinesi, il più vecchio dei quali avrà avuto quattordici anni, andavano a tirare i sassi al militare che stava in una delle garitte poste a guardia del muro di separazione tra Israele e Palestina. E poi scappavano riparandosi dietro le macchine in colonna. Il soldato a un certo punto –casualmente un punto che coincideva con il mio passaggio- senza considerare che in quelle macchine in coda c’erano solo persone che tornavano dal lavoro, dalla scuola o dagli acquisti (erano circa le cinque del pomeriggio) ha sparato il lacrimogeno, che prima è rimbalzato su un pullmino e poi è finito sotto la mia macchina. Oggi invece alla stessa ora non c’era coda (e si spiega anche il perché). C’erano però dei ragazzi che si riparano dietro a un ruotone di legno, mentre qualcun altro scappava, segno che qualcosa avevano combinato. Poi sento lo sparo di un fucile e vedo un soldato che arretra, proprio mentre sto passando io, unica auto in quel momento: è stato in quel frangente che mi sono fatto una cultura sulla dotazione balistica dell’esercito israeliano. Io avrei dovuto fare il cronista di guerra, perché in queste situazioni sono di una freddezza impressionante. Ho fatto anche due foto con il rischio che mi fermassero. Un po’ per la situazione, un po’ perché la mia macchinetta vale poco, sono venute mosse: accontentatevi.