Fare comunicazione dalla Siria presenta un problema collaterale: il rischio della vita. P. Murad –leggi il blog di giugno- è stato ammazzato perché aveva parlato con fonti giornalistiche occidentali contro i “ribelli” (chiamiamo così il variegato arcipelago anti-Assad composto in minima parte da oppositori siriani e per il resto militanti di Al Qaeda, avventurieri e fondamentalisti vari provenienti dall’estero attraverso la Turchia; P. Murad è stato ucciso da un commando composito di ceceni ed egiziani). Ma i “ribelli” hanno le loro basi in Occidente, che rimandano indietro le informazioni; e così chi parla diventa un bersaglio. Non ho idea se anche nel campo governativo usino lo stesso sistema.
Proprio per questo durante questa guerra noi frati abbiamo tenuto un profilo comunicativo molto basso, per non esporre i nostri fratelli e le nostre comunità a questi rischi. Solo dopo la morte di P. Murad c’è stata un’apertura, di cui però ci siamo già pentiti. Infatti i rapimenti di religiosi e di fedeli cristiani in Siria sono all’ordine del giorno e parlarne aumenta il loro valore sul mercato trasformando queste persone in merce appetibile. Non sono più casi isolati, è un vero e proprio commercio. Questo non accade solo ai cristiani, in verità, ma anche ai musulmani (nei prossimi blog forse vi racconterò storie interessanti a riguardo). Per questo aumentano i profughi. All’inizio invitavamo i nostri fedeli a rimanere, anche per non farsi espropriare le case, ma ora il rischio è troppo alto. Nei villaggi cristiani dell’Oronte ormai resistono solo i frati e poche altre decine di persone.
Il problema di fare comunicazione dalla Siria è questo: se ne parli, ti ammazzano o ti rapiscono o si rivalgono sui tuoi beni e sui tuoi famigliari, se non ne parli devi sottostare ad ogni sorta di abuso. Servirebbero “missionari indipendenti dell’informazione” quelli che con una parola oggi un po’ svalutata si chiamano “giornalisti”. Non so se ce ne siano in questo momento in Siria. Intendo quei giornalisti che si intrufolano di nascosto nel paese, costruiscono i loro contatti, verificano le fonti e testimoniano gli eventi per esperienza diretta.
Oggi i giornalisti sono per la maggior parte, se non tutti, “accreditati”, ovvero sono presenti sul territorio e hanno accesso alle informazioni grazie al permesso e alla “protezione” di una delle parti in causa. Per cui è difficile che possano parlarne male. Inoltre di solito non si muovono dai quartieri e dalle postazioni che vengono loro assegnate, cosicché, benché presenti sul territorio, si riducono a filtrare e a rigirare le informazioni interessate che ricevono dagli uffici stampa delle parti che li proteggono o da agenzie “certificate”. E quando si muovono sotto scorta, il giretto non può che prevedere una “visita guidata” a siti già preventivamente considerati “interessanti” dai loro accompagnatori.
Questo è il problema del giornalismo nelle guerre moderne: quintali di video e notizie, ma nessuna vera informazione. Di questi “missionari dell’informazione” ce ne sono stati (ricordiamo la nostra Ilaria Alpi, uccisa in Somalia nel 1994) e sono sicuro che ce ne sono e ce ne saranno ancora. Esiste ancora chi lavora per vocazione e con dignità professionale. Solo che oggi –a differenza di un tempo- è più difficile e meno gratificante. Perché non conta più il valore della notizia: basta che dici qualcosa al fine di riempire lo spazio che ti è concesso dalla tua testata. E allora perché rischiare, se lo scoop viene pagato uguale o quasi al video che ti passano nel tuo albergo già pronto da far girare? E anche nel caso di testate virtuose, la tua voce libera non riuscirà a farsi sentire nel marasma dell’informazione internazionale. Il valore dell’informazione in sé non è più sufficiente affinché possa circolare, ma deve arrivare da determinati canali. Se fai uno scoop ma la Reuters non lo riprende, non troverà posto in pagina o sul video. Che è poi quello che è successo con l’omicidio di P. Murad, che ha trovato spazio solo nei circuiti della stampa cattolica.